«La campagna elettorale di Renzi non sarà facile. Dovrà convincere che una riduzione è meglio di una abrogazione, che risparmiare un po’ è meglio di risparmiare tutto, che qualche navetta parlamentare tra le due Camere è meglio di nessuna doppia lettura, ecc.».
La Repubblica. 2 gennaio 2016 (m.p.r.)
Matteo Renzi si gioca tutto sul referendum confermativo della riforma del Senato. È come se il presidente del Consiglio avesse lanciato il guanto della sfida all’elettorato: o me o il caos, come diceva il generale De Gaulle. Questa di Renzi è una sfida rischiosa sia per l’oggetto del contendere - la riforma del Senato - , sia, e soprattutto, perché i referendum in Italia sono sempre stati “contro”.
Da quando è stato introdotto il referendum, il consenso è andato quasi sempre in direzione opposta all’establishment politico o alle idee correnti.
Un attacco violento. L’ennesimo atto di “populismo di governo”, come teorizza in Dentro e contro (Laterza), il suo ultimo saggio. Così Marco Revelli, professore di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale, descrive la riforma della Rai approvata dal Senato il 22 dicembre.
Come giudica questa riforma della Tv di Stato?
«Difficile trovare una parola giusta. Forse “indecente” è quella che più si addice. È una violenza al sistema mediatico e forse nemmeno Silvio Berlusconi sarebbe arrivato a far tanto, facendo dipendere la tv pubblica direttamente dal governo. Si va al di fuori del quadro democratico».
C’era da aspettarselo?
«Sì, perché segue una serie di ‘editti bulgari’ per far conformare i media all’ottimismo di Stato».
Quali editti?
«Penso a tutte le dichiarazioni di fastidio verso i media ostili a Renzi che sono filtrate, dall’attacco volgare ai ‘professoroni’, quelle voci che non si sono conformate al suo pensiero, alle critiche al Tg3 c h e – io personalmente – ri tenevo conforme, fino alla Leopolda con le graduatorie di insofferenza (alle prime pagine dei quotidiani, tra cui il Fatto, ndr)».
Dalla Leopolda arriva l’amministratore delegato della Rai Antonio Campo Dall’Orto. Cosa si è creato: un’oligarchia o un cerchio magico?
«È stata un’operazione di “comando e controllo” francamente sconcertante. Se confrontiamo gli organigrammi e il modo in cui sono state collocate le diverse figure negli enti e nelle aziende di Stato, allora vediamo che la lda è stata il luiogo dell’accreditamento dell’esecutivo. Sin dalle prime nomine sono stati piazzati gli amici trovati tra quel- li che hanno contribuito alla raccolta fondi o alla scalata del sindaco di Firenze a Palazzo Chigi».
Nel suo ultimo libro lei parla di “populismo di governo”. In che maniera questo si attua con la riforma della Rai?
«La prima cosa che può fare un populista di governo è impadronirsi della televisione pubblica. Come i populismi si usa un linguaggio caldo, emotivo, che sconvolge gli equilibri per indebolire o cancellare i corpi intermedi – sindacati, organizzazioni di categoria... – e instaurare un rapporto diretto tra capo e moltitudine. Lo fanno un po’ tutti, però la differenza di Renzi è che lo fa dall’interno delle istituzioni».
Per lei è un passaggio del “populismo di governo?
«Sì, perché Renzi è molto coerente col suo programma. Lavora a 360 gradi sulla riforma costituzional e sella legge erklettorale, sull’assetto del Parlamento e del suo stesso partito. È la costruzione verticale del potere sotto la sua persona».
In che senso?
«Si guardi ai recenti fatti delle banche, con le figure dei ‘babbi’ e dei legami familiari arrivati da luoghi periferici, dalla Toscana a Roma, è il ritorno dello ‘strapaese’ che domina con strumenti bolsi. Sono circoli magici di amici, amiconi e amiche che rappresentano un mondo provinciale della gestione del potere. Se la Prima Repubblica vedeva in posizioni influenti i capitalisti moderni e dinamici per il loro tempo, e se nella Seconda Repubblica c’era un capitalista di seconda fila al potere, ora abbiamo figure di terza fila».
Che conseguenze avrà la riforma della Tv di Stato?
«La Rai era un baraccone e tale rimarrà con la subalternità al potere e la reticenza a raccontare la realtà. Si va verso una narrazione addomesticata, dettata dall’alto e monocorde. Accadrà ai grandi quotidiani come Repubblica, Corriere della Sera e La Stampa, se guardiamo alle nuove nomine, e non possiamo aspettarci una contronarrazione da Mediaset. Rimangono poche voci libere».
Cosa sarebbe accaduto se questa riforma fosse stata fatta una decina di anni fa coi governi di Berlusconi?
«Ci sarebbero state tre milioni di persone in piazza, non solo per la Rai, ma per tutto. Repubblica avrebbe fatto dei titoli a tutta pagina, i Ds avrebbero chiamato alla mobilitazione, i sindacati dei giornalisti avrebbero fatto fuoco e fiamme... »
Non ci sono più anticorpi?
«Sono stati messi alla berlina dalla mutazione genetica del Pd. Una parte di quegli anticorpi sono diventati portatori sani della subalternità a ciò che non sarebbe mai stato accettato, e così sono diventati trasmettitori del contagio».
postilla
In verità nel secolo scorso c'è stato in Italia un altro illustre esempio di "populismo di governo". Quella volta fu un romagnolo, anche lui di provincia. La differenza è che allora fu necessaria un'azione violenta, questa volta no. Ma Mussolini non aveva avuto un preparatore come Silvio Berlusconi, nè un ambiente internazionale favorevole come il neoliberismo.
Il manifesto, 27 dicembre 2015
Anche qui più che prendersela con il premier ci sarebbe da scavare sulle colpe di una sinistra che non ha mai voluto seriamente affrontare, anche quando è stata al governo, la questione televisiva e quella della messa in sicurezza della Rai in particolare.
Ora la Rai è al sicuro, ma nelle mani del governo, e l’on. Anzaldi, già rutelliano, aggiusta il tiro per colpire meglio la terza rete. Ma lo sa l’on. Anzaldi che il presidente del Consiglio moltiplica le presenze televisive in programmi d’informazione e d’intrattenimento in una misura che avrebbe fatto gridare al «golpe» solo pochi anni fa? Al contrario delle discutibili sortite di quest’ultimo, ahimè, le timidezze a sinistra (come ha ricordato Vincenzo Vita su questo giornale), o in quel che resta di essa, sul tema tv appaiono sconcertanti.
La Rai liberata dai partiti? Sì, ma nelle mani dell’esecutivo. La lottizzazione di reti e testate finalmente un ricordo del passato? Sì, ma dai lotti si passa al feudo, e non sarà certo meglio. Anche ammesso che Renzi non è Berlusconi e Campo Dall’Orto non è Masi, cosa succederà quando il feudatario di turno vorrà esercitare tutto il potere che la legge gli conferisce, pensando, più che alle competenze, alle fedeltà di cordata?
E dire che se il premier avesse voluto far bene non aveva che da chiedere a chi gli sta vicino. Come Paolo Gentiloni che, da ministro della Comunicazione durante il secondo governo Prodi, aveva provato a cambiare il sistema con un disegno di legge coraggioso che affidava la Rai ad una Fondazione. Non solo. Il progetto in particolare prevedeva l’istituzione di un Consiglio per le Comunicazioni audiovisive composto da 21 membri: 7 indicati dai presidenti delle Camere, 11 da sindacati, imprenditori, artisti, terzo settore, associazioni di utenti, università e consumatori, e 3 dalla conferenza delle regioni, dall’Anci e dall’unione delle provincie.
Il Consiglio avrebbe provveduto a nominare sia i vertici dell’azienda del servizio pubblico sia i membri dell’Autorità delle telecomunicazioni. A sua volta quest’ultima avrebbe dovuto garantire il rispetto da parte della tv privata di quegli indirizzi vincolanti che il Consiglio superiore decideva di emanare all’intero comparto televisivo. Nella proposta, udite, udite, si prospettava anche l’invio sul satellite entro 15 mesi di una rete Rai e una Mediaset e un limite alla raccolta pubblicitaria del 45% per ogni singolo attore del mercato.
Il disegno, approvato dal consiglio di ministri dopo le elezioni, passava nel 2007 alla Camera poco prima dell’ingloriosa caduta del governo.
Ecco, sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il ministro degli esteri Gentiloni di quanto ha partorito il governo di cui è autorevole rappresentante in tema di televisione. Ma Renzi l’avrà almeno consultato?
Il manifesto, 19 dicembre 2015
È solo l’economia reale che organizza l’opposizione al governo. Non certo il Movimento 5 Stelle, che mostra le intenzioni bellicose contro l’esecutivo della decostituzionalizzazione votando proprio per il giurista amico dell’Italicum. E festeggia per aver inviato alla Consulta un suo candidato moderato, un tempo politicamente vicino a Nicolazzi, il ministro che fece aprire uno svincolo sull’autostrada per raggiungere il paese d’origine.
E’ difficile stabilire se la maggiore fonte di inquietudine per il governo sia costituita dalle grane, per salvataggi, decreti e plusvalenze, in cui è incappata “la chierichetta” diventata ministro delle riforme, o dalla campana a ritmo lento che suona dalle parti di via dell’Astronomia. Il governo dei “senza retroterra” non è stato una buona idea uscita dal senno confuso dei poteri forti.
E ora anche la Confindustria certifica quello che tutti percepiscono nella loro vita reale. E cioè che “lo psicologo in capo”, che intrattiene il pubblico con le slide e con le barzellette lo distrae per spingerlo alla fiducia a comando, non ha combinato nulla di costruttivo. Anzi ha peggiorato le cose, al punto che gli industriali, incassato oro contante grazie alle generose decontribuzioni, ammettono che «l’economia italiana, anziché accelerare, sta rallentando».
Il mito della velocità, del cambiamento di passo, mostra la corda. E si rivela una pura invenzione volontaristica. Per l’uscita dalla crisi non basta una sterile invocazione magica priva di ogni efficacia reale. Dopo i sorrisi e le canonizzazioni del premier, la Confindustria deve ammettere che la ripresa non c’è, a dispetto di un intreccio di irripetibili congiunture internazionali straordinariamente favorevoli. E che, a confronto, la risposta offerta dal cacciavite di Letta era persino più efficace del trapano impugnato dal loquace rottamatore.
Ora gli studi della Confindustria parlano di «mistero» della stagnazione che mette in ginocchio l’Italia. Per gli industriali «il mancato decollo della ripartenza resta un vero rebus». Queste formule, che evocano l’ignoto, però sono l’estremo rifugio linguistico per non indicare chiaramente le responsabilità acclarate, che hanno un volto preciso: il governo della narrazione. Con bonus clientelari e con l’aggressione ai diritti del lavoro, l’esecutivo crede di surrogare l’adozione di politiche industriali di svolta.
Nei poteri economici comincia ad affacciarsi la sensazione che proprio il governo dell’inesperienza, che pure sposa il loro programma massimo contro il mondo del lavoro, costituisce un fattore di blocco. Un paese che versa in una «stagnazione secolare» non ha bisogno di uno “psicologo in capo” ma di una politica che poggi su altri interessi sociali rispetto a quelli dominanti. Non funziona la ricetta che unisce chiacchiera e precarizzazione del lavoro come fattore competitivo sostitutivo rispetto ai costi dell’innovazione tecnologica.
Qualcosa si sta precocemente rompendo nella costituzione materiale del renzismo. Le cronache di fallimenti delle banche amiche, di vendite allegre di teatri storici, di pratiche affaristiche scambiate con nomine pubbliche sub condicione, svelano la genesi oscura della fortuna dei soldati della rottamazione. Le ricostruzioni giornalistiche rompono il velo protettivo e rivelano una miscela di banche, massoneria deviata, amministrazione in appalto che ha scaldato i motori di una spettacolare scalata al potere.
Questi rampolli di famiglie in affari sono partiti dal controllo di una città-azienda, conquistata grazie al soccorso delle truppe di Verdini. E poi hanno racimolato le risorse per viaggiare in aerei privati e affrontare la sfida dei gazebo. Hanno raccolto i fondi necessari per edificare una potenza personale, per tessere rapporti opachi (consulenze, promozioni, incarichi) e dare l’assalto al governo.
Senza una colossale potenza economica-finanziaria-mediatica alle spalle, il sindaco di una città non sarebbe mai stato così influente da essere ricevuto dalla cancelliera tedesca. E senza l’avallo preventivo di potenze europee, il capo dello Stato non avrebbe accettato il cambio della guardia a palazzo Chigi, con la fine dei governi del presidente. Liquidata la porzione di classe politica di estrazione comunista e scacciato i sindacati dalla sala verde, i poteri influenti hanno a lungo gioito.
E però oggi che la gestione del potere si rivela un colossale fiasco, si apre una riflessione in seno alle spaurite classi dominanti. E un dubbio le divora: il governo dell’inesperienza che segue i dettami della Confindustria non sarà un ostacolo obiettivo alla rinascita economica? La questione l’aveva segnalata già Marx. Il quale scriveva che alla borghesia non conviene «un autogoverno di classe» e più funzionale ai suoi stessi interessi è il progetto di dotarsi di un ceto politico differenziato e autonomo.
La Confindustria deve ammettere che lo scambio tra contenuti economici della legislazione gestiti direttamente dalle imprese e gioco della comunicazione dato in concessione al rottamatore si rivela sempre più inefficace. Anche i poteri forti sono costretti a cimentarsi su un interrogativo di Weber. E cioè sono afflitti dal timore che del marketing come tecnica competitiva, che rinvia alla padronanza politica delle semplificazioni usate strumentalmente, con Renzi si esageri, sino a scivolare nel marketing come sostanza di una politica che smarrisce il senso della realtà, la complessità dell’agenda, la percezione della temporalità.
Rispetto alla metamorfosi del leader, che converte l’uso di ritrovati demagogici in politica della pura demagogia o capo istrione, Weber innalzava due antidoti: il partito strutturato, in grado di selezionare e controllare il capo, e l’esperienza accumulata entro un apprendistato nelle commissioni parlamentari. Entrambi questi correttivi in Italia sono saltati, ed è il solo paese europeo ad avere avuto tre premier non parlamentari in vent’anni.
Niente di formalmente illegittimo, ma un presidente del consiglio senza mandato parlamentare è la spia di una catastrofe del sistema politico. E un leader senza un apprendistato di partito è possibile solo in un sistema a traino populista investito da intensi momenti di antipolitica.
Dopo aver brindato al decesso della mediazione politica, i poteri economici tremano per i guai provocati da una classe dirigente improvvisata e vittima della comunicazione.
IIl Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015
“Mettiamo in fila i fatti”, dice Gustavo Zagrebelsky alla prima sollecitazione sulla Consulta zoppa. E sia. Ci sono tre posti vuoti. La Corte corre il rischio di paralisi. Siamo giunti a dodici. Se scende sotto gli undici, per legge non può deliberare. Il rischio del blocco, per la prima volta nella storia repubblicana, è tutt’altro che teorico, data la fragilità di persone avanti con l’età. “Il primo posto si è reso libero a giugno dell’anno scorso, il secondo a gennaio e il terzo a luglio di quest’anno. Si è fatto finta di voler provvedere con finte convocazioni delle Camere riunite e una trentina di votazioni a vuoto. Non si avvertiva, evidentemente, nessuna urgenza. Ora, nelle ultime settimane, al prolungato surplace è subentrata la volata: bisogna fare in fretta, il Parlamento deve essere convocato a oltranza; perfino le feste natalizie devono passare in secondo piano; bisogna chiuderli tutti dentro, lesinare il cibo, scoperchiare il tetto fino a quando non ne escono con i tre giudici bell’e fatti”.
Come si spiega la “volata”?
Jobs act, Italicum, “buona scuola”, “legge Severino”?
L’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento dipende da valutazioni politiche, necessariamente partitiche?
Ritiene che i nomi fatti non siano adatti al compito?
Se non è questo, allora che cos’è?
È che quelle degne persone sono incappate in un gioco costituzionalmente inammissibile, quello che dicevo prima: il mandante che cerca i suoi mandatari, anche nei campi, come quelli della giustizia, in cui non dovrebbero esserci né mandanti né mandatari. Siamo di fronte a un degrado istituzionale senza precedenti, a un’invasività degli interessi politici che viola la separazione costituzionale delle funzioni, che prefigura sinistramente le mani sulle istituzioni di garanzia, le quali mani non incontrerebbero resistenze una volta portato a termine il ridisegno istituzionale che il governo sta perseguendo. Ma la legge stabilisce che i giudici costituzionali non possono svolgere attività inerenti ad associazioni e partiti politici: non dovrebbe valere la stessa cosa, al contrario?
Quelle che lei chiama “degne persone” dovrebbero mettersi da parte, per non partecipare al gioco?
A chi spetta smettere di giocare con le istituzioni?
Qualcuno ha invocato un intervento del presidente della Repubblica, ricordando un precedente in cui si è minacciato lo scioglimento delle Camere.
Il manifesto, 6 dicembre 2015, con postilla.
L’8 dicembre di due anni fa Renzi è diventato il segretario del Pd. Per chi della velocità aveva fatto un mito, e dall’energia creativa del corpo del capo aveva ricavato l’attestato della garanzia di successo, due anni di potere sono un tempo enorme, valido per sopportare una verifica. Una radiografia l’ha fornita il rapporto Censis con la metafora bruciante del paese in «letargo». Quando Renzi concluse la sua marcia trionfale tra i gazebo, raccolse, oltre al sostegno di ambienti esterni pronti a finanziare una scalata ostile, anche un’ansia di successo, sfumato nel 2013, e un bisogno di rinnovamento delle classi dirigenti. Un biennio di leadership incontrastata basta però per lasciar appassire i sogni di gloria e per smentire ogni attesa di ricambio effettivo nelle pratiche e nei volti del ceto politico locale.
Il governo della mancia per tutti non attira un voto in più al Pd. E le sue disinvolte e creative misure economiche non agganciano la ripresa, anzi aggravano il divario con il passo spedito di altri partner europei. Le esclusioni sociali crescono, l’evasione fiscale e contributiva regna incontrastata, il differenziale territoriale si acuisce, i servizi pubblici, la sanità deperiscono. Galleggia l’illegalità, solerte è la misura per il salvataggio delle banche amiche.
Le imprese, incassato l’oro delle decontribuzioni e dei tagli Irap, continuano a rigettare ogni strategia competitiva fondata sull’innovazione e la qualità. Con la libertà di licenziamento, sancita dalle nuove leggi sul mercato del lavoro varate dal governo, le aziende si sentono protette da una irresistibile corazza. E pensano di proseguire nella strada della competizione al ribasso, tramite la marginalizzazione del sindacato, la precarietà camuffata dalle tutele crescenti. Il basso costo del lavoro è loro garantito in eterno dal potere di licenziare con modico indennizzo monetario.
Presto il nero diventerà la figura dominante nei rapporti contrattuali perché, dopo 40 anni di lavoro e con una pensione che non sarà di molto superiore a quella sociale, al dipendente risulterà più conveniente chiedere di essere pagato in nero, così almeno potrà racimolare qualche spicciolo in più dal mancato versamento dei contributi. Senza una politica degli investimenti, e senza una crescita dei salari pubblici e privati (altro che mance graziosamente elargite, senza alcun progetto di società), il sistema si avvita in una spirale regressiva e catastrofica.
Questo biennio perduto lascerà ferite sociali e politiche difficili da rimarginare. La volontà del capo di governo di presentarsi come il generoso protettore di tutta la nazione, che distribuisce bonus e mance ai ragazzi, ai carabinieri, agli insegnanti, non solo disperde risorse preziose, perché scarse, senza alcun risultato tangibile nell’inclusione sociale ma non viene premiato nella sua spericolata raccolta del consenso clientelare due punto zero.
Ha un bel dire Paolo Mieli che Renzi non è un capo divisivo, ma vive nella splendida condizione di chi ha la felice fisionomia di un leader vincente che scavalca mirabilmente gli steccati e pesca fiducia ovunque. Ascoltando meglio gli umori reali, non mancherà la percezione di un vivo sentimento di inimicizia, e anche di odio politico, che cresce e impedisce allo statista di Rignano di sfondare, nonostante l’infinita presenza in video, il sostegno generale dei media, il gradimento dei poteri che influenzano, la smobilitazione della destra.
Non basta, per rimediare alla deriva, raccogliere l’invito a costruire il partito, senza il quale, in effetti, tra il capo e il territorio esiste solo un solidissimo vuoto. Il problema è che Renzi non può costruire un partito, per ragioni strutturali. Ha distrutto quel poco di organizzazione che rimaneva, costringendo alla fuga gli illusi che fingevano di ritrovare nei gazebo i residui di vecchie simbologie e nei comitati elettorali degli affaristi in carriera i detriti di memorie, e non può edificare una nuova struttura, con gli eventi fuggevoli dei mille banchetti.
A Renzi il partito serve solo come fonte di legittimità per ordinare lo «stai sereno» e per continuare ad abitare a palazzo Chigi finché vuole. Non ha una cultura moderna della leadership, ma sprigiona solo una caricaturale infatuazione per i simboli esteriori del comando da caserma. Non è vero quello che ha raccontato Eugenio Scalfari a Otto e mezzo, e cioè che Renzi comanda da solo perché in tutte le democrazie avviene così.
Ovunque esistono gruppi dirigenti rispettati e non trattati come subalterni inoffensivi con cui il capo scherza nelle direzioni in diretta streaming. Ogni capo convive con oligarchie agguerrite, con gruppi parlamentari non arrendevoli. Persino Obama ne sa qualcosa. E il nuovo leader laburista Corbyn ha avuto l’investitura del partito ma i gruppi parlamentari, espressioni di un’altra cultura politica, non si piegano, e resistono anche platealmente alle sue direttive in politica estera. Non fanno come i deputati del Pd, designati per l’ottanta per cento come seguaci di Bersani, e poi tutti inginocchiati a riverire il nuovo padrone senza mai un cenno di disobbedienza.
Se ci fosse stato un partito, Renzi non lo avrebbe mai scalato, e se avesse, dopo la conquista, ricostruito un partito, proprio i suoi dirigenti lo avrebbero già disarcionato, per una manifesta inattitudine alla leadership autorevole. Altrove a togliere di mezzo un capo che ha perso le regionali, ha liquidato il nucleo organizzativo del partito, costretto alla diserzione la membership, manifestato una palese inadeguatezza al governo e naviga in chiaro affanno nei sondaggi, sarebbe il suo stesso partito. Ma la fortuna di Renzi è di non avere un partito. E può accontentarsi di un simulacro che gli dà i gradi di comandante di giornata.
Due anni terribili di deconsolidamento della democrazia costituzionale e del lavoro sono trascorsi e c’è poco da festeggiare con banchetti unitari in prossimità della catastrofe. Il solo auspicio è che l’odio e la delusione che covano nella sinistra ferita si trasformino in politica, e ci siano classi dirigenti pronte a raccogliere la difficile impresa, di ricominciare con un pensiero critico dopo il forte rumore dello schianto.
Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2015
Sigaretta tra le mani, capelligrigi, cardigan e camicia, risposte mai immediate ma frutto di una breveriflessione. “Vuole sapere da quando è iniziato tutto questo sconquassopolitico e sociale? Dall’avvento del CAF”. Maria Lisa Cinciari Rodano, classe1921, si accomoda in poltrona circondata dai suoi libri, libri che racchiudonouna storia ricca, irripetibile, decisiva in alcune battaglie civili, inparticolare per la parità dei sessi; lei che nel 1963 diventò, per il Pci, laprima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Camera.
«Il manifesto
Alla ricerca della «connessione tra le lotte» nei territori colpiti dalla strategia di «devastazione e saccheggio» imposta dallo Sblocca Italia di Renzi, dal tradimento sistematico del referendum dell’acqua pubblica del 2011, dalla privatizzazione dei servizi e dei beni comuni. L’assise del forum dei movimenti per l’Acqua a Roma (continua oggi al cowork Millepiani nel quartiere della Garbatella con interventi, tra gli altri, di Gaetano Azzariti, Marina Boscaino e Maurizio Landini) ieri è diventata l’occasione per una riflessione su una strategia di resistenza, di disobbedienza civile e contro-insorgenza democratica contro la gestione commissariale del paese iniziata con le grandi opere, proseguita con l’Expo e oggi applicata nella Capitale con il Giubileo.
Lo spazio politico per una simile strategia è fornito, in negativo, dalle politiche del governo Renzi in materia di gestione dei servizi essenziali (come l’acqua), dell’energia (gas e petrolio), dello sviluppo infrastrutturale del paese basato su energie fossili, alta velocità, cemento, trivellazioni, rendita finanziaria e immobiliare, gestione privatistica del pubblico e dei beni comuni. Sono al momento due gli appuntamenti per ricominciare un percorso di riaggregazione contro il «consumo distruttivo del territorio, dell’energia e dell’acqua»: il primo è la conferenza sui cambiamenti climatici che si terrà a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre. Domenica 29 novembre è prevista una manifestazione della Coalizione per il clima tra piazza Farnese e i Fori Imperiali a Roma in contemporanea con iniziative simili in altre città organizzate dalla Global Climate March. L’altro fronte è l’opposizione alle trivelle: le regioni Abruzzo, Calabria, Campania, Lombardia, Marche, Puglia e Veneto hanno impugnato lo Sblocca Italia davanti alla Corte Costituzionale che deciderà sui ricorsi entro la primavera 2016. Oggi a Roma al parco delle Energie i movimenti No Triv, protagonisti della protesta, terranno un’assemblea.
Quella vista ieri a Roma è una società inquieta e ferita, alla ricerca di una via di fuga, consapevole del possente contrattacco che ha ridotto lo Stato di diritto costituzionale allo «Stato borghese originario che difende gli interessi dei ceti dominanti» ha detto Severo Lutrario, uno dei protagonisti del movimento per l’acqua pubblica. In questa trasformazione non è secondaria la gestione del potere che ha esautorato la politica rappresentativa, come i cosiddetti «corpi intermedi», per non parlare dei movimenti e dell’associazionismo diffuso soggetti a una strategia preventiva del controllo e della repressione sempre più invasiva.
Più di altri il simbolo di questa offensiva politica, legislativa e giudiziaria è stata considerata una sentenza del Tar del Lazio che ha dato torto ai pochi sindaci che si sono opposti ai distacchi «arbitrari e illegali imposti dall’Acea. A un’autorità pubblica come quella del sindaco — ha aggiunto Lutrario — oggi viene negata la possibilità di intervenire nella gestione di un bene pubblico come l’acqua ridotto a gestione commerciale. Questo è il paese in cui viviamo. Prendiamone atto».
Alla base di questa trasformazione c’è «la Strategia energetica nazionale (Sen) voluta da Monti e accelerata da Renzi con lo Sblocca Italia” ha ricordato Vincenzo Miliucci (Cobas). Il crescente malcontento per questa misura emerge tra gli enti locali e le comunità alle quali è stata sottratta l’auto-determinazione sulla realizzazione di gasdotti come il Tap in Salento, sui terminali di rigassificazione del gas naturale liquefatto o per le attività di prospezione e ricerca di gas e greggio, nella terraferma e nel mare. A questo proposito si parla di una «militarizzazione energetica» di cui si denuncia da tempo l’incostituzionalità.
Emergono così i tratti di un dispositivo di governo basato sullo stato di emergenza.«Le gestione dell’emergenza è emersa negli ultimi tempi con le migrazioni negli anni Novanta, è proseguita con la protezione civile e oggi continua con il commissariamento dei grandi eventi come Expo o il Giubileo– ha detto Alberto Di Monte (laboratorio Off Topic Milano). Questa logica è stata introiettata dallo Sblocca Italia che non colpisce solo il Centro-Sud. A Milano sta creando 15 casi. In una chiave post-moderna, questa idea del governo trasforma l’eccezione in norma. Il progetto è unico, ma potrebbe essere l’occasione per unire le lotte. Per farlo bisogna passare dai beni comuni al fare in comune».
«Oggi sono le città a subire l’attacco più pesante della privatizzazione» ha aggiunto Francesco Brancaccio, Rete per il diritto alla città di Roma, che ha raccontato anche l’esperienza degli sportelli anti-distacco dell’acqua. «Questo assetto del potere prospera sul concetto ambiguo e pericoloso di “legalità” che chiede l’intervento del potere commissariale invece di sperimentare nuovi percorsi di legittimità politica — ha aggiunto — Oggi la lotta per i beni comuni si può rilanciare maturando una capacità istituzionale al di là delle istituzioni esistenti». I concetti chiave sono: «municipalismo, auto-governo e egemonia». Le idee sono chiare, il percorso politico è ancora lungo.
Analisi sintetica ma precisa delle caratterisctiche del renzismo. Manca solo un elemento, la cui presenza è facile da individuare nella realtà ma difficile da documentare finché il Re e i suoi vassalli sono al potere: l'utilizzazione spregiudicata dell'arma del ricatto.
Il manifesto online, 1° novembre
Gli avvenimenti romani delle ultime settimane hanno posto in luce, mi pare, alcuni elementi di fondo sulla transizione italiana verso la post-democrazia, ossia il superamento della sostanza della democrazia, conservandone le apparenze, secondo un processo in corso in tutti gli Stati liberali, ma con delle peculiarità proprie, che hanno a che fare con la storia italiana e, forse, anche l’antropologia del nostro popolo.
Senza più entrare nel merito della vicenda della cacciata di Ignazio Marino dal Campidoglio, su cui peraltro mi sono già espresso più volte, a netto sostegno del sindaco, pur rilevandone le debolezze e gli errori (ha sintetizzato bene ieri l’altro sul manifesto Norma Rangeri: «non è il migliore dei sindaci, il mestiere politico non è il suo, si è mosso fidandosi … del suo cerchio magico»), e contro l’azione del Pd, irresponsabilmente sostenuta anche dal M5S, all’unisono con le frange della destra estrema, propongo alcune riflessioni che hanno bisogno naturalmente di essere approfondite, oltre che discusse.
I Tesi
Le assemblee elettive, ossia quella che si chiama «la rappresentanza», hanno un valore ormai nullo. Deputati, senatori, consiglieri regionali e comunali, sono pedine ininfluenti, che si muovono all’unisono con gli orientamenti dei capi e sottocapi. Obbediscono in modo automatico, ma cosciente, nella speranza di entrare nell’orbita del potere «vero», o quanto meno avvicinarsi ad essa, e diventare sia pure a livelli inferiori o addirittura infimi, «patrones» di piccole schiere di “clientes». Il potere legislativo è completamente disfatto.
II Tesi
I partititi politici, tutti, sono diventati «partiti del capo». I militanti, e persino i dirigenti, dal livello più basso a quelli via via superiori, non contano nulla. Tutto decide il capo, circondato da una schiera di fedeli, i “guardiani”. Le forme di reclutamento e di selezione, che dalla base giungono al vertice, sulla base di percorsi lunghi, tragitti di «scuola politica», hanno perduto ogni sostanza; contano consulenti, operatori del marketing, sondaggisti, costruttori di immagine. Il distacco tra il capo, e il ristrettissimo vertice intorno a lui, e lo stesso partito, inteso come struttura di aderenti, intorno, di simpatizzanti, o di semplici elettori, appare totale. Se crolla il capo, crolla il partito, nel Pd come è accaduto in Forza Italia, e come accadrà nel Movimento 5 Stelle, se i militanti non scelgono una via diversa.
III Tesi
Il Vaticano, e le gerarchie della Chiesa cattolica, costituiscono non soltanto uno Stato nello Stato, ma uno Stato potenzialmente ostile, che esercita un’azione direttamente politica, volta a condizionare, fino al sovvertimento, gli stessi ordinamenti liberali; diventa «potenza amica» solo quando e nella misura in cui il potere legittimo si piega ai suoi dettami.
IV Tesi
I grandi media non esercitano semplicemente un’influenza, come sostengono certi massmediologi; essi rappresentano pienamente un potere, capace di creare o distruggere leader, culturali o politici o sportivi. Abbiamo avuto esempi piccoli e grandi, di distruzione o costruzione, da Roberto Saviano a Renata Polverini, fino a Ignazio Marino, osannato chirurgo, esemplare perfetto della «società civile», politico onesto, sindaco in grado di svelare e sgominare l’intreccio affaristico-mafioso della capitale, diventato improvvisamente il contrario di tutto ciò, a giustificazione della sua orchestrata defenestrazione.
V Tesi
La lotta politica procede oggi su due livelli distinti ed opposti: il livello palese, che finge di rispettare le regole del gioco, privo di effettualità; e un secondo livello, nascosto, che conta al cento per cento, nel quale si assumono decisioni, si scelgono i candidati ad ogni carica pubblica, e si procede nella selezione (sulla base di criteri di mera fedeltà a chi comanda) dei «sommersi» e dei «salvati». Il livello sommerso è in realtà un potere soltanto indirettamente gestito dal ceto politico: è emanazione di poteri forti o fortissimi italiani o stranieri, di lobby, palesi o occulte, alcune delle quali corrispondenti a centrali criminali.
VI Tesi
Il Partito Democratico, rappresenta oggi la forza egemone della destra italiana: una forza irrecuperabile ad ogni istanza di sinistra. Il suo capo Matteo Renzi costituisce il maggior pericolo odierno per la democrazia, o per quel che ne rimane. Ogni suo atto, sia nelle forme, sia nei contenuti, lo dimostra, giorno dopo giorno. Il suo cinismo (quello che lo portò a ordinare a 101 peones di non votare per Romano Prodi alle elezioni presidenziali; lo stesso cinismo che lo ha portato a ordinare a 25 consiglieri capitolini ad affossare Marino e la sua Giunta) è lo strumento primo dell’esercizio del potere.
Renzi si è rivelato un perfetto seguace dei più agghiaccianti «consigli al Principe» di Niccolò Machiavelli.
VII Tesi
La reazione spontanea, diffusa, robusta alla defenestrazione di Ignazio Marino dal Campidoglio testimonia dell’esistenza di un’altra Italia: i romani che hanno sostenuto «Ignazio», con estrosi slogan, nelle scorse giornate, al di là dell’affetto o della stima per il loro sindaco, hanno voluto far comprendere che la cancellazione della democrazia trova ancora ostacoli e che esistono italiani e italiane che «non la bevono», che la «questione morale» conserva una presenza nell’immaginario dell’Italia profonda (che dunque non è solo razzismo e ignoranza, egoismo e parassitismo, tutti elementi forti nel «pacchetto Italia»); esistono italiani e italiane pronti a resistere.
Su loro occorre fare affidamento, per costruire prima una barricata in difesa della democrazia, quindi per passare al contrattacco, trasformando la spontaneità in organizzazione, la folla in massa cosciente, il dissenso in proposta politica alternativa. Che il «caso Marino» costituisca l’occasione buona per far rinascere la volontà generale e sollecitarla all’azione?
I Il manifesto, 30 ottobre 2015
Il sindaco Marino ha ritirato le dimissioni. Lo ha fatto, come aveva annunciato, entro i venti giorni previsti da quel 12 ottobre quando la scelta di dimettersi era arrivata sull’onda di alcuni esposti per la vicenda degli scontrini fasulli. Ora, finalmente, il Pd, quello romano screditato dall’inchiesta di mafia-capitale e quello nazionale governato dall’uomo solo al comando, è nudo di fronte alla questione romana che in sé, per la via “extraparlamentare” che l’ha connotata, riassume la questione democratica.
Il ritiro delle dimissioni toglie di mezzo alibi e ipocrisie, fa piazza pulita della foglia di fico degli scontrini usati per gestire, con un commissario di gradimento renziano, l’importante partita del Giubileo. È peraltro curioso l’accostamento — da parte del governo — tra la manifestazione cattolica del pellegrinaggio religioso con l’Expo, una manifestazione laica misurata più che con il soffio dello spirito santo con i bilanci tra costi e ricavi. Ancora più curioso che un assessore del Pd, il torinese Esposito, sia andato a spiegare in tv il gran peso avuto, nella vicenda delle dimissioni di un sindaco, dalla “scomunica” del papa in missione a Filadelfia. Come se l’aria di Roma provocasse repentine conversioni.
Quali sono allora le colpe politiche del sindaco di Roma? Qual è il bilancio di questi due anni di sindacatura? E quando sarebbero state avvistate queste magagne politiche, se il Pd fino all’anatema papale e fino alla bolla degli scontrini non ne aveva mai fatto questione?
Come mai, dopo mafia-capitale, Marino era considerato un esempio di buona amministrazione, un nemico dei poteri capitolini, un avversario delle potenti lobby (dai vigili urbani, alle alte porpore, ai commercianti, a certi consigli di amministrazione…) e ora, invece, è giudicato un incapace della peggior specie? Le buche nelle strade, la sporcizia, gli autobus scassati, qui, nella capitale, non godono delle attenuanti che vengono riconosciute alle altre amministrazioni (mancanza di fondi, politiche di tagli ai servizi). Anzi abbiamo sentito rispolverare il cliché di Milano capitale morale — il magistrato Cantone ha la memoria molto corta — e magnificare la performance dell’Expo come se né l’una, né l’altra avessero rischiato di affondare negli scandali, nelle ruberie, nelle attività delle grandi famiglie mafiose. E meno male che il presidente della repubblica mantiene il doveroso riserbo, altrimenti il palmarés del sindaco marziano avrebbe fatto il pieno.
La situazione è grave ma non è seria. Chi ne farà le spese, in un modo o nell’altro, sarà il Pd. Ma a essere colpita è anche la gestione democratica di questa vicenda che doveva essere trattata alla luce del sole, in Campidoglio, non nelle stanze del Nazareno, non nel modo fazioso di larga parte dei quotidiani nazionali (quelli locali hanno fatto una opposizione “edilizia” dall’inizio della sindacatura), non attraverso informazioni pilotate e interessate. Marino non è il migliore dei sindaci, il mestiere politico non è il suo, si è mosso fidandosi soprattutto dei “suoi”, del suo cerchio magico. Ma sicuramente non è peggiore di quelli che vogliono fargli le scarpe.
Fin qui abbiamo assistito al primo e secondo atto della tragi-commedia romana. Ora aspettiamo il gran finale. Che per più di qualcuno non sarà indolore. E poi si vada alle elezioni al più presto.
Corradino Minea è finalmente uscito dalla "sinistra tremula" e ha abbandonato il partito di Renzi. Racconta com'è andata. Molto istruttivo per comprendere l'Italia di oggi. Il manifesto, 29 ottobre 2015, con postilla
Il rapporto con il gruppo del Pd si era logorato. Se rivedo il film degli ultimi mesi, ho votato in dissenso su jobs act, scuola, Rai, Italicum e legge costituzionale. Cosa che mi metteva un po’ in imbarazzo e capisco che mettesse in imbarazzo anche chi aveva approvato quelle scelte sbagliate. Inoltre la battaglia nel gruppo aveva perso appeal, aveva minore agibilità dopo che la maggioranza della minoranza si era messa a lavorare Renzi ai fianchi, per logoralo.
Ma senza contestarne la narrazione che è, secondo me, parte fondante della sua politica. Io penso al contrario che solo una generosa assunzione di responsabilità politica possa aiutare il paese, e quel che resta della sinistra, a uscire dal cono d’ombra lo sta cacciando una politica tanto pirotecnica quanto inconsistente.
Sono queste le ragioni politiche delle mie dimissioni dal gruppo. Poi c’è la cronaca, il motore ultimo di una scelta. Quella provo a raccontarla da cronista. Martedì 27, Luigi Zanda convoca i senatori in assemblea, non si sa per discutere cosa. Il direttore del gruppo mi chiama due volte: «Vieni?», «partecipo a tutte le riunioni», «Stavolta Zanda ti vuole». Capisco.
Si aprono le danze. Il capogruppo loda i suoi senatori, «siete il sostegno della legislatura - dice - e dunque della Repubblica». Loda persino chi «gli ha fatto male» votando in dissenso sulla riforma costituzionale, «ma almeno con loro ho parlato, con la Amati, con Casson, ho parlato con Tocci». Solo Mineo è stato sleale: «Non è venuto nella mia stanza a dirmi che avrebbe votato contro. E questo (severo!) viola il nostro statuto».
Ma lo sapevano tutti, l’avevo detto nel gruppo, nei corridoi, ovunque. Cosa non ho fatto? Ho omesso di baciare la pantofola del Presidente. Subito si scatena il processo: durerà due ore e mezzo. Protagonisti, nel ruolo della base indignata, senatori incravattati e senatrici tiratissime.
«Mi ha fatto male vederlo inviare un tweet dopo che il governo era andato sotto sul canone Rai». «Lo hanno applaudito i grillini! (Alzando la voce)». «Raggiungiamo un compromesso sul senato, neppure siamo contenti e lui viene in aula a demolirlo!». «Vuole farsi espellere perché cerca visibilità». «Un partito non è un pollaio e Renzi ha vinto».
Ci sono stati anche interventi di tenore diverso, pochi!. Tocci, sull’assurdità di imporre una disciplina da centralismo democratico nel partito in franchising di Matteo Renzi. Fornaro, che ha ricordato come la narrazione renziana demonizzi la minoranza prima che la minoranza parli o pensi. Lo Giudice, per il quale la libertà non può valere solo quando conviene al vertice (come per le unioni civili).
Poi Zanda conclude pronunciando la parola «incompatibilità» (tra me e il suo magnifico gruppo). E cala l’asso: li avrei definiti «servi», in aula, quando avevo obiettato alla Finocchiaro che Ponzio Polito non era stato affatto, come ella pretendeva, un politico incapace di decidere, ma un servo ipocrita del suo padrone, l’imperatore, che condivideva le ragioni del Sinedrio e voleva che si mandasse a morte Gesù. Se qualcuno del gruppo si è sentito offeso - avevo scritto a suo tempo a Zanda dopo aver subito una contestazione in aula ad opera di taluni del Pd - se qualcuno s’è sentito offeso deve avere una gigantesca coda di paglia. Zanda sapeva.
Nel partito della nazione convive tutto e il contrario di tutto, ma la narrazione deve essere una sola, quella del segretario premier. Tutto qui. Ora imbiancheranno i sepolcri dicendo che la mia uscita era scritta, che l’assemblea non c’entra, che il partito di Renzi non espelle. E questo è vero, non espelle, usa la sua macchina narrante per far sì che i dissidenti si auto espellano, uno alla volta. Civati, Fassina, Mineo. E domani, chi? Mentre gli iscritti e gli elettori se ne vanno più numerosi. Ma che importa, basta vincere anche per un voto, anche se al ballottaggio voterà meno della metà degli italiani. L’importante è vincere, contro un avversario che si cerca di costruire come perdente.
E ora? Gruppo misto, battaglia in senato dove la maggioranza balla e ballerà ancora. Lavoro nelle città e con le persone, perché «c’è vita a sinistra». A condizione di saper essere unitari e generosi. E di rilanciare una battaglia culturale, dopo un quarto di secolo di subalternità alla cultura della destra.
postilla
Sempre più spesso si sentono storie che ricordano il processo raccontato dal senatore Mineo. Dalle scuole agli uffici, dalle fabbriche alle giunte comunali chi vuole esprimere un dissenso nei confronti di chi comanda è costretto a tacere; oppure ad andarsene. Il regime feudale instaurato da re Renzi, con la complicità dei cortigiani, dei servi e degli ignavi sta completando il suo progetto. Libero di raccontare ciò che non condivide è soltanto chi ha le spalle coperte: da una ricchezza personale, o da una pensione, o da un laticlavio.
La Repubblica, 22 ottobre 2015
La stella berlusconiana, apparsa nel cielo politico d’Italia ventiquattro anni fa, impallidiva da un lustro e forse va dileguandosi ma lascia effetti permanenti. L’ascesa incubava i semi del collasso: un megalomane in abiti e pose da gangster marsigliese, furbissimo, molto temibile ma fortunatamente corto d’intelletto, non diventa d’emblée statista; già la discesa in campo segnalava una coazione morbosa a riempire i palchi; avesse del raziocinio, starebbe tra le quinte; quando anche sappia il da farsi, lo fa per caso, perché in via principale coltiva affari suoi. Ad esempio, ordinandosi à la carte una piccola legge, liquida in 3 o 4 milioni i 300 d’un debito fiscale Mondadori.
Il manifesto, 15 ottobre 2015
Dall’altro lato la manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus.
Nello stesso tempo per Renzi è necessario aggirare i paletti posti da Bruxelles. I censori europei hanno già mostrato i denti a Rajoy. E’ da vedere quindi quale benevolenza otterrà Renzi dai propri padroni e sodali, visto che il suo governo ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle elite economiche e politiche europee.
Da qui la centralità della cosiddetta riforma fiscale, definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”. A quanto riferisce la stessa Repubblica, non certo un organo antigovernativo, i proprietari di 75mila case di lusso e palazzi, ne trarranno ampi benefici, almeno 2800 euro in media a testa. Non importa se a farne le spese sarà la Sanità o altri istituti dello stato sociale. Un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere.
Per questo la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana. Il vecchio leader di Arcore almeno ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata a l’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche. Invece Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo. Confortato anche dai propositi del leader di Rignano di intervenire di autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire.
Qui si scende negli inferi del diabolico. Il taglio dell’Ires verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità.
Renzi vuole durare. Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci. Vuole e deve risolvere la dicotomia di cui parlava Niklas Luhmann, su cui forse gioverebbe tornare a riflettere per capire le derive del presente. Quella tra potere e complessità sociale. La seconda viene compressa e strozzata dalle controriforme costituzionali, istituzionali e elettorali in atto (che speriamo di potere smantellare con gli opportuni referendum). Il primo va al di là di quel “mezzo di comunicazione”, di quel “sottosistema” autonomizzato di cui parlava Luhmann nella sua polemica con Habermas. In quanto articolazione di un potere superiore, quello espresso dagli organi a-democratici della Ue, diventa strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista e contemporaneamente di inclusione/corruzione di strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva. Cioè il conflitto.
Aiuto! Al Pd sono spariti i candidati. Affogati nel ragù renziano, invisibili, declinanti prima ancora di aver tentato il decollo. Il giovanissimo e atletico centrosinistra di Matteo annaspa ovunque in Italia. Non parliamo del centrodestra. Dei cinquestelle vale la regola della tripla al totocalcio: possono fare eleggere una nuova classe dirigente ma anche disperderla nella curva da ultras della rete.
«Non c’è ancora un orientamento preso dal governo», ma l’Italia ha già deciso «con i nostri alleati di contrastare con forza il Daesh». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, chiarisce così, durante una conferenza stampa con il capo del Pentagono, Ash Carter, a che punto è la questione bombardamento in Iraq. La decisione formalmente non è presa, e il governo assicura che ci sarà un voto del Parlamento, ma Matteo Renzi un impegno di massima con l’alleato americano l’ha preso a New York, durante l’Assemblea generale dell’Onu. Un’offerta di “sostegno risoluto”, che gli Usa hanno accolto con favore, ma non hanno particolarmente sollecitato.
Ne ha dette, ne dice giornalmente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime esternazioni del presidente del Consiglio urta i nervi in modo particolare, sì che si stenta a dimenticarsene. «I sindacati debbono capire che la musica è cambiata», ha sentenziato con rara eleganza a margine dello «scandalo» dell’assemblea dei custodi del Colosseo. Non sembra che la dichiarazione abbia suscitato reazioni, e questo è di per sé molto significativo. Eppure essa appare per diverse ragioni sintomatica, oltre che irricevibile.
In effetti la rozzezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti decisamente per la parte datoriale, degradando i lavoratori a fannulloni e i sindacati a gravame parassitario che si provvederà finalmente a ridimensionare. È una cifra di questo governo un thatcherismo plebeo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui trabocca la società scomposta dalla crisi. Sempre daccapo il «capo del governo» si ripropone come vendicatore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, complice la grancassa mediatica, a una platea indistinta al cui cospetto agitare ogni volta il nuovo capro espiatorio.
Sin qui nulla di nuovo dunque. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espressiva. Un lessico che si fa sempre più greve, prossimo allo squadrismo verbale di un novello Farinacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una democrazia costituzionale non ci si dovrebbe lasciare andare al manganello.
«La musica è cambiata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimenticare i beneamati «gufi». Quest’uomo fu qualche mese fa liquidato come un cafoncello dal direttore del più paludato quotidiano italiano. Quest’ultimo dovette poi prontamente sloggiare dal suo ufficio, a dimostrazione che il personaggio non è uno sprovveduto. Sin qui gli scontri decisivi li ha vinti, e non sarebbe superfluo capire sino in fondo perché. Ma la cafoneria resta tutta. E si accompagna alla scelta consapevole di selezionare un uditorio di facinorosi, di frustrati, di smaniosi di vincere con qualsiasi mezzo — magari vendendosi e svendendosi nelle aule parlamentari. Secondo un’idea della società che celebra gli spiriti animali e ripudia i vincoli arcaici della giustizia, dell’equità, della solidarietà.
Quando gli storici di diritto costituzionale studieranno questa revisione della Carta, noteranno un'anomalia che noi non possiamo oppure non vogliamo vedere. Con i voti di un premio di maggioranza viziato da illegittimità si riscrive quasi tutta la seconda parte. La famosa sentenza della Corte raccomandava di approvare subito la legge elettorale per andare a votare al più presto, ma non chiedeva di riscrivere la Carta. Lo fa la classe politica proprio per evitare le elezioni. So di dire una cosa che suona sgradevole e mi viene quasi di scusarmi con voi. È come se ci fosse un inconsapevole accordo a non parlarne qui. Che la dice lunga sullo straniamento di questo dibattito.
Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l'approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l'Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.
Si affidano le sorti del paese all'arbitrio di una minoranza che diventa maggioranza per i rinforzi artificiali del premierato invece che per i consensi liberamente espressi dai cittadini. Si crea un governo maggioritario in una democrazia minoritaria, segnata sempre più da una disaffezione elettorale che allontana dalle urne ormai quasi la metà della popolazione.
Per tutto ciò il premier dispone di una maggioranza ubbidiente di parlamentari che ha scelto personalmente come capilista. D'altro canto, con l'Italicum i tre quarti dei parlamentari, sempre nel worst case scenario, sono sottratti al controllo degli elettori, non solo al momento del voto ma durante il mandato. Al contrario il premier riceve un'investitura diretta, seppure minoritaria, nel ballottaggio. Si crea così un forte squilibrio di legittimazione tra il capo del governo e l'assemblea, che si traduce in supremazia del potere esecutivo sopra il legislativo e indirettamente anche sull'ordinamento giudiziario.
I tre poteri fondamentali di una democrazia sono decisamente fuori equilibrio, e il principale fattore di questo squilibrio è il numero dei deputati. La Camera - unica depositaria del voto di fiducia - è sei volte più grande del Senato. Di fatto è un monocameralismo. Niente di male in linea di principio, lo proponeva con ardore anche il mio caro maestro, il presidente Pietro Ingrao, e tanti altri nella Prima Repubblica, ma tutti lo compensavano con legge elettorale proporzionale. Nessuno lo avrebbe mai accettato con una legge ipermaggioritaria. Eppure, eliminare lo squilibrio numerico sarebbe facile e doveroso. In nessun paese europeo si arriva a 630 deputati. E la proposta iniziale del governo faceva della riduzione dei parlamentari la priorità della revisione costituzionale. Perché allora non si riduce il numero dei deputati? Perché si cambia tutto tranne il numero della Camera? Da più di un anno questa domanda rimane senza risposta. Mi rivolgo in extremis alla ministra Boschi: abbia almeno la cortesia istituzionale di dare in quest'aula una spiegazione seria e convincente.
Il risultato è un Senato senza funzioni e senza autorevolezza. Anzi un vero pasticcio: da un lato un eccesso di potere costituzionale, improprio per un'assemblea composta anche da figure amministrative, e dall'altro la mancanza di poteri ordinamentali e soprattutto di penetranti controlli - inchieste, audizioni dei dirigenti, analisi dei risultati ecc. - che andrebbero a pennello per il ramo sprovvisto della fiducia e quindi più libero dal condizionamento di governo. Che senso ha mantenere in vita una gloriosa istituzione svuotata di prestigio? Meglio allora eliminarla del tutto. Non c'è niente di peggio di un'assemblea senza poteri, con il rischio che li ottenga tramite il consociativismo col governo, degradando ulteriormente la trasparenza e l'efficienza del sistema.
Non rinnego il Senato elettivo a base proporzionale che ho sostenuto insieme ad altri. Rimango convinto che avrebbe rinsaldato il rapporto tra eletti ed elettori, oggi essenziale per ricostituire la fiducia nelle istituzioni. Avrebbe ricordato al premier - che è assoluto nei poteri ma carente nei consensi - quali siano gli orientamenti popolari profondi. La presidente Finocchiaro lo considera un freno inaccettabile, ma sarebbe un importante contrappeso. In questo senso abbiamo parlato di un Senato di garanzia, per i poteri e per il mandato elettorale diretto.
Ma non mi innamoro delle proposte. In teoria la garanzia si può ottenere anche in una sola camera, magari eletta con i collegi uninominali, ricorrendo a voti qualificati, superiori al premio di maggioranza, nella legislazione dei diritti fondamentali. E i costituzionalisti sarebbero in grado di suggerire tanti altri modi di compensazione. È dirimente l'equilibrio generale, non la singola proposta, neppure quella a me cara del Senato elettivo. La legislazione costituzionale non è altro che produzione di sistema. La qualità di una legge costituzionale si misura nell'effetto di sistema. Qui la misura è negativa sotto i punti di vista; anche la mediazione che si affaccia sulla quasi elezione dei senatori, un passo avanti certamente positivo, non è in grado di modificare l'impianto, non riduce lo squilibrio del premierato assoluto. Non cancella la mia valutazione negativa.
Si è persa anche l'occasione della riforma del bicameralismo. Perché si è raccontato un falso all'opinione pubblica da almeno trent'anni. Le famose navette che vanno da una camera all'altra riguardano solo il 3% delle proposte di legge, per lo più a causa di testi scritti male dal governo. Non è vero che ci sia un problema di velocità del procedimento legislativo, anzi è vero esattamente il contrario: è troppo facile, c’è una bulimia delle leggi, se ne scrive una nuova prima che la precedente sia applicata. Lo sanno bene i cittadini, le amministrazioni e le imprese ormai sommersi da un'alluvione normativa che soffoca la vita quotidiana. Il nuovo bicameralismo dovrebbe aumentare la qualità e non la velocità, per produrre poche leggi organiche, brevi e leggibili anche per i cittadini.
A tale compito dovrebbe dedicarsi un nuovo Senato di alta legislazione, per curare i grandi Codici, lasciando alla Camera la responsabilità di attuare il programma di governo entro una cornice solida ed efficace. Questa è la riforma mancata del bicameralismo. Non si è potuto neppure discuterne perché c'è il feticcio del Senato federale. Era una grande idea, certo dell'Ulivo e di altri. Molti di noi hanno speso le migliori energie giovanili per una Repubblica federale. Ma si è rivelato un disegno disastroso, le regioni oggi sono al punto più basso di credibilità come dimostra la bassa partecipazione alle ultime elezioni; nel frattempo gli squilibri territoriali, a cominciare da quello Nord-Sud, si sono aggravati.
Si doveva fare un bilancio serio del fallimento del federalismo in sede parlamentare. Il governo lo ha fatto da solo, togliendo poteri alle regioni e compensando il ceto politico con il pennacchio del Senato. Il risultato è deprimente. Non abbiamo più il vecchio regionalismo, non abbiamo più il federalismo, rimane solo un rapporto confuso che diventerà ancora più litigioso con le funzioni ripartite secondo una doppia competenza esclusiva, che - lo dice la logica - è difficile da mediare. Bisogna invece ridurre il numero delle regioni, come propongo con un emendamento. Una decina di macroregioni potrebbero trovare un rapporto più costruttivo con lo Stato, rendendo più compatto il sistema paese nella competizione internazionale.
Sulla base di queste considerazioni di sistema, e non solo per il Senato elettivo, lo scorso anno ho espresso il mio disagio, insieme ad altri, non partecipando al voto, sperando che nei passaggi successivi si potesse migliorare. L'equilibrio, a mio avviso, è peggiorato, il debole passo avanti sul senato elettivo è vanificato dall'approvazione dell'Italicum e dal diniego della riduzione del numero dei deputati. Alla seconda lettura siamo chiamati a una valutazione definitiva, per questo il mio voto sarà contrario, non essendoci sulla materia costituzionale un vincolo di partito.
Sento già il ritornello - “allora vuoi far cadere il governo?” È la domanda più stupida che si legge sui giornali. È una strabiliante inversione tra causa ed effetto. È inaudito che il governo ponga in sede politica una sorta di fiducia sul cambiamento della Costituzione. Non è mai accaduto nella storia della Repubblica. Il fatto che oggi venga considerato normale, che si dia quasi per scontato, che venga messo all'indice chi si sottrae, è la conferma che il dibattito pubblico italiano è malato, che già nell'agenda di discussione, prima ancora che nelle soluzioni, si vede un pericoloso sbandamento dei principi e di valori.
Si è costruita artificiosamente un'emergenza costituzionale per conferire una legittimazione politica a un governo sprovvisto di un diretto mandato degli elettori. È l'ennesima anomalia italiana. In un paese normale il governo non si occupa della Costituzione. In un paese normale l'esecutivo governa secondo un programma presentato agli elettori. Si può derogare a queste semplici regole in situazioni straordinarie e per breve tempo. Da noi lo stato d'eccezione durerà per quasi tutto questo decennio.
Non si può dare la colpa solo agli ultimi venuti. Da venti anni si cambia la Costituzione per contingenti finalità politiche; prima il centrosinistra col titolo V per inseguire la Lega, poi Berlusconi nel 2005 per sigillare la sua maggioranza, poi lo ius sanguinis del voto all'estero per legittimare Fini e poi i tentativi di Tremonti di salvarsi modificando l'articolo 41. Tutte riforme costituzionali fallite, perché sbagliato era il metodo. Ma già negli anni ottanta, da quando persero la capacità di governo, i partiti hanno preso il vezzo di dire che non era colpa loro ma della Costituzione. Per non affrontare la crisi della politica hanno aperto la crisi delle istituzioni. Hanno cominciato a sfogliare l'atlante del modello francese, inglese, tedesco, spagnolo e americano.
Il perfettismo istituzionale è un sintomo della malattia della politica. Le Costituzioni sane sono imperfette perché prodotte dalla storia. Il modello decisionale americano è pazzesco, non prevede neppure il decreto legge, eppure ha gestito un impero. Le imperfezioni sono compensate dalla volontà politica, che è come il coraggio di don Abbondio, chi non ce l'ha non se la può dare. Da trent'anni la classe politica italiana invece di governare si consola con l'orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali.
Quando il presidente Renzi si vanta di fare le cose in programma da venti anni, non si accorge di parlare da conservatore. È il paradosso dei rottamatori che applicano l'agenda dei rottamati. Ripetono l'errore più grave, quello di servirsi della revisione costituzionale per finalità politiche contingenti.
La Carta sarebbe da cambiare in tante cose - non sono tra coloro che ne fanno un altare. Ma ci vuole umiltà. Cambiare la Costituzione significa servirla, non servirsene. La mia generazione non è stata all’altezza del compito. La notizia triste è che neppure la generazione dopo di noi se ne mostra capace. Forse devono ancora nascere i riformatori di domani in grado di migliorare il capolavoro ricevuto in eredità.
Si scrive riforma, si legge pasticcio. E quella mediazione che è l’ossessione del Pd potrebbe anche peggiorarlo. Ufficialmente e renzianamente, la riforma del Senato è la via per arrivare a una democrazia efficiente, nella quale «il procedimento legislativo sarà più snello ed efficace» (Maria Elena Boschi dixit). Fuor di propaganda, è un ginepraio contraddittorio, da cui potrebbe scaturire una seconda Camera che conterà poco o nulla. Soprattutto, composta di nominati. «Questa riforma è un capolavoro di dilettantismo», scandisce l’amministrativista Gianluigi Pellegrino.
Il manifesto, 20 settembre 2015
Da questo punto di vista i troppo buoni direbbero che la montagna ha partorito il topolino, i pacati e gli equanimi che siamo di fronte a una truffa volgare.
A quel che si trae da notizie di stampa, l’accordo prevede che la durata del mandato dei senatori coincida con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, su indicazione degli elettori in base alle leggi elettorali regionali. Quanto alla coincidenza del mandato senatoriale con la durata di organi territoriali regionali o locali, nulla quaestio. È un principio che potrebbe essere reso compatibile anche con l’elezione popolare diretta dei senatori. I problemi vengono dopo.
Si rileva infatti che i senatori sono eletti dagli «organi delle istituzioni territoriali». Dunque, non dai cittadini nell’ambito territoriale di riferimento. Con questo si ribadisce il no all’elezione popolare diretta dei senatori, e si affida al consiglio regionale il potere di scegliere i rappresentanti in senato. Una conferma si trae dal fatto che agli elettori si attribuisce «l’indicazione». E, secondo il dizionario, con tale termine si intende una designazione, una proposta, una segnalazione, un suggerimento, non una decisione e tanto meno una scelta. I cittadini «indicano», il consiglio regionale «elegge». Una bella prova di democrazia mettere il popolo sovrano in una posizione di indiscutibile subalternità.
Si aggiunga che il tutto è rinviato alla disciplina posta con legge regionale, senza alcuna indicazione di principi di legge statale o comunque limiti da osservare. Tanto che sarebbe del tutto possibile una legge per cui il consiglio regionale scelga i senatori in una rosa più ampia formata dai candidati alla carica di consigliere regionale più votati, giungendo in concreto all’elezione dei senatori da parte dei consigli regionali al proprio interno, senza che la volontà espressa dal voto popolare sia in ultimo decisiva. Volendo evitare questo, e concedere al popolo sovrano di scegliere i propri rappresentanti, sarebbe quanto meno necessario prevedere in Costituzione un listino votato separatamente e la incompatibilità tra le cariche di consigliere regionale e senatore.
Per questo, siamo alla truffa volgare. Chi legge nel testo il ripristino della elezione popolare diretta dei senatori mente sapendo di mentire. L’essenza del senato voluto da Renzi non è toccata, e rimangono tutte le censure già argomentate su queste pagine. Ne gioirà Moody’s, che plaude alla riforma (e potremo ricordare che aveva già applaudito all’Italicum, e criticato la sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni). E abbiamo dimenticato J.P. Morgan, che già nel 2013 sollecitava ad abbandonare le costituzioni antifasciste del dopoguerra, inquinate da elementi di socialismo? I poteri forti della finanza internazionale non si curano della salute democratica del paese. Ma il governo della Repubblica dovrebbe.
Per le riforme eterodirette della Costituzione abbiamo già dato, con l’art. 81 e il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Ma qui vediamo una vicenda di piccole miserie. Può solo interessare che, se la proposta si tradurrà in un emendamento all’art. 2, questo potrà aprire la via anche ad altri emendamenti e a nuovi scenari di confronto parlamentare. Non è infatti pensabile che la modificabilità dell’art. 2 venga limitata al solo emendamento risultante dall’accordo interno Pd.
Capiamo, ma non apprezziamo, le ambasce della minoranza Pd. Se si piega ha fatto molto rumore per nulla. La mediazione rimane sotto la soglia della decenza. Questi coraggiosi — si fa per dire — alfieri della verità e della giustizia devono pur chiedersi se accettare, magari per il miraggio di un piatto di lenticchie, sia nel loro interesse collettivo e individuale. È davvero dubbio lo sia, per la perdita di faccia e di credibilità. Di sicuro, non è nell’interesse del paese.
Il manifesto, 19 settembre 2015
«Non più cultura in ostaggio dei sindacati», cinguetta Renzi. «La misura è colma», fa eco Franceschini. Anche il sindaco della capitale, Ignazio Marino, sembra su di giri: «è uno sfregio per il nostro paese», tuona. Franceschini e Renzi si spalleggiano, e mentre si professano paladini del Colosseo, chiuso per due ore a causa di un’assemblea sindacale già annunciata, nei fatti dichiarano guerra al patrimonio stesso. Perché per tenere aperti musei e siti archeologici, rendendoli quel prezioso biglietto da visita che in realtà sono per naturale dna, bisognerebbe prima di tutto sostenerli, trattarli davvero come beni comuni. Ma quella manciata di ore «rubate» ai turisti ha tenuto in scacco i vari proclami di Renzi&Co sulla cultura, divenuta una formidabile macchina per spremere consenso. Ha lacerato una maschera assai comoda da indossare, travolgendo un argomento così amabilmente «social». Il ritardo di apertura dell’Anfiteatro Flavio è rimbalzato in rete, un fiume in piena che ha rotto gli argini: i più smaliziati hanno trattato la notizia con ironia, altri con disappunto, diffusamente il «disagio» ha prestato il fianco a una denigrazione dei lavoratori, aizzata soprattutto dal governo.
A uno sguardo distratto, quella specie di tsunami che ha attraversato il Parlamento, scosso di fronte ai turisti in fila fuori dal Colosseo, dovrebbe far sperare per il meglio: i deputati, dopo anni di olgettine, feste e corruzione traversale hanno finalmente a cuore qualcosa che li rende più umani. Il soggetto, oltretutto, è bipartisan. Se il Pd nazionale ha gridato allo scandalo («non si chiude la cultura» ) e addirittura un pasionario come Pedica si è offerto volontario in veste di custode, altri a destra (e pure diversi a sinistra) ne hanno approfittato per attaccare il diritto di sciopero. Che poi era un’assemblea di due ore, come avviene in tutti i musei del mondo senza suscitare isterismi: la National Gallery di Londra ha serrato le porte per 50 volte in un anno di fronte alla minaccia di un passaggio in mani private.
Alla fine della giornata, è arrivata la schiarita: l’annuncio di un nuovo decreto-legge che inserisca la cultura fra i servizi essenziali. Bene, ha affermato il soprintendente Prosperetti, fermo restando il fatto che tutto era stato annunciato, non si è trattato di chiusura ma solo di un posticipo e avvisi multilingue erano stati esposti sui monumenti.
In vista di una privatizzazione dei beni culturali a cui si punta con ogni energia possibile – i commissariamenti sono stati una catastrofe, quindi una strada non più percorribile – ha preso forma un braccio di ferro tra sindacati e governo. Una volta ventilato lo sciopero nazionale, lo scontro è diventato epico: i custodi rivoltosi come tanti Spartaco che si rifiutano di avallare il nuovo hashtag, «la buona cultura». Vale la pena, però, fare un passo indietro per scavalcare l’onda emotiva e mediatica. E con un po’ di sano distacco, cercare di capire cosa sia realmente successo in una giornata politica la cui agenda ad hoc è stata costruita fin dal mattino.
I turisti, invece della consueta fila di almeno un’ora per entrare nel celebre monumento, ieri ne hanno fatta una un po’ più lunga. Il Colosseo — come altri siti italiani perché l’assemblea era nazionale — ha aperto più tardi rispetto al consueto a causa di un incontro fra lavoratori e sindacati. L’oggetto? La mancanza del pagamento da parte dello Stato – dal novembre scorso, quasi da un anno, del cosiddetto «salario accessorio», quello maturato per le aperture lungorario, e anche notturne. Era il frutto di un accordo che avrebbe permesso di non tenere, appunto, «la cultura in ostaggio», secondo lo slogan renziano. Però non è stato onorato: i 18,500 dipendenti del ministero aspettano le indennità accessorie (30% dello stipendio) da un’infinità di mesi. Oltretutto, siti importanti come Uffizi e Pompei non sono stati chiusi, per dare un segnale positivo. Palazzo Pitti sì: sebbene la città di Firenze pullulasse di turisti, nessuno è corso alle armi. Non sempre le richieste sindacali sono del tutto condivisibili, ma stavolta conoscere le ragioni può aiutare a dirimere la questione.
Il Colosseo è aperto sette giorni su sette, da marzo a ottobre (con visite guidate) anche di notte, eppure soffre dell’endemica e cronica malattia dei nostri beni culturali: la mancanza di organico, vuoi strumentale vuoi per difetto di finanze e tagli inconsulti susseguitisi a raffica. Se la riforma del Mibact è stata compiuta e pure strombazzata ai quattro venti – compreso il fiore all’occhiello dei vari direttori italiani e esteri insediati nei «posti chiave», – poco o nulla si è fatto per colmare quella sconfortante carenza di personale. Per fare un esempio: i custodi in ferie, durante l’estate sono stati sostituiti con persone che venivano pagate 3,5 euro l’ora, gettate nell’arena senza preparazione né alcun corso. Riempire i buchi, di corsa e con il minor danno possibile (in termini economici), continua ad essere la parola d’ordine. Nessun sistema strutturale per ovviare al disagio. Il «caso» l’ha creato il governo stesso, facendo la prima mossa, la più grave: non rispettando i patti. La cultura non c’entra proprio niente.
PROTESTE CHIUSE PER DECRETO
di Riccardo Chiari
Musei. Un’assemblea sindacale di due ore dei custodi del Colosseo scatena la vendetta premeditata del governo. Anche M5S contro i lavoratori. La Cgil attacca Renzi. La riunione era annunciata e autorizzata da tempo. Da mesi ai lavoratori non sono pagati gli straordinari. Ma il ministro ’costruisce’ il caso per un obiettivo che piace al governo: limitare il diritto di sciopero
«No alla cultura ostaggio dei sindacati». Passano gli anni, ma il “bomba” Renzi, così come lo avevano ben presto individuato i compagni di classe del liceo Dante, prosegue a spararle in libertà. Il problema, per gli italiani, è che in un modo o nell’altro il “bomba” è diventato presidente del consiglio. Succede così che una normale assemblea sindacale, chiesta per tempo — una settimana fa — e regolarmente autorizzata dalla Soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’Area Archeologica di Roma, diventa casus belli. Di una guerra che ha come obiettivo finale il diritto di sciopero. Da limitare, al momento, con un decreto legge detonante. Da ammazzare, entro breve, con una raffica di disegni di legge, già all’ordine del giorno della commissione lavoro del Senato e a quella affari Costituzionali. Firmati dai soliti Maurizio Sacconi e Pietro Ichino.
Bastano le file all’entrata del Colosseo a creare il caso. Dal nulla, visto che nei principali poli museali italiani, quotidianamente presi d’assalto dai turisti, un paio di ore di coda sono fisiologiche. Chiedere per informazioni ai visitatori della Torre pendente di Pisa, costretti a passare uno per volta sotto il metal detector per motivi di sicurezza. E di due ore e mezzo era la durata dell’assemblea, puntualmente segnalata sui quotidiani, perché la comunicazione ufficiale della Soprintendenza era arrivata per tempo. Anche su alcune agenzie di stampa. Ma proprio una di esse — la principale — di buon mattino lancia già, con evidenza, la notizia: «Un’assemblea sindacale tiene chiusi i siti archeologici più importanti della Capitale: Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica».
Da quel momento prende forma un crescendo inarrestabile. Scatta per prima, ma quando i cancelli del Colosseo sono già stati riaperti, la forzista Lara Comi: «Il paese è bloccato dai sindacati». A ruota il capogruppo dem di Montecitorio, Ettore Rosato: «Il Colosseo chiuso per assemblea è uno sfregio all’impegno di Roma per competere con le grandi città europee». Il colpo grosso arriva dopo mezzogiorno: «La misura è colma», detta il ministro Dario Franceschini, pronto ad annunciare che, in accordo con Renzi, proporrà al consiglio dei ministri di inserire musei e luoghi della cultura nei servizi pubblici essenziali.
L’idea non è nuova. Renzi & Franceschini ci avevano già provato a luglio, quando avevano venduto come “selvaggia” un’altra assemblea indetta secondo le procedure di legge, a Pompei. Ma è proprio la legge, peraltro non certo permissiva, ad essere nel mirino del governo e dei suoi sodali. Fra questi ultimi spicca Sacconi: «Roma, caos turisti: ora fare legge su sciopero e diritti sindacali per proteggere utenti beni pubblici». A dargli manforte Angelino Alfano: «Approviamo subito le legge di Sacconi su regolazione sciopero a tutela utenti beni pubblici. Ieri è iniziato l’iter al Senato».
Chi non crede all’evidenza del pensiero unico avrà da pensare guardando il “sindaco antifascista” Ignazio Marino che si fa riprendere da una telecamera mentre dice: «Sono completamente d’accordo con Franceschini». Non fa una bella figura lo staff di Laura Boldrini, che le permette di dire: “È giusto svolgere l’attività sindacale, ma non si può senza preavviso». Desolanti i 5 Stelle: «Dopo Pompei, succede di nuovo e questa volta a Roma». Unica voce fuori dal coro Paolo Ferrero di Rifondazione: «Sono indecenti gli attacchi ai lavoratori del Colosseo e dei Fori. Franceschini dovrebbe occuparsi piuttosto dello stato in cui versa il nostro patrimonio artistico e culturale, che cade a pezzi. Sono le risorse che mancano e i tagli alla cultura che danneggiano il turismo, non l’assemblea dei lavoratori».
È allibito Claudio Meloni, coordinatore per la Fp Cgil del Mibact: «Non è possibile che il ministro Franceschini non sapesse che le assemblee avrebbero potuto comportare il rischio di aperture ritardate. A Roma l’assemblea è stata chiesta regolarmente l’11 settembre e regolarmente autorizzata dal soprintendente, con largo anticipo. Vorrei inoltre ricordare al ministro che i beni culturali già stanno nella legge che regolamenta i servizi pubblici essenziali».
Tutto inutile. A sera, finito il consiglio dei ministri, l’ineffabile Franceschini annuncia: «Il decreto legato alla vicenda del Colosseo prevede che sia aggiunta ai servizi pubblici essenziali anche l’apertura dei musei». Inutile anche lo sguardo fuori dai confini patri: «Iniziative analoghe avvengono in tutti i paesi d’Europa — ricordano Meloni, Giuliana Guidoni della Cisl Fp ed Enzo Feliciani della Uil Pa — ricordiamo il caso dei lavoratori della National Gallery di Londra, in mobilitazione da diversi mesi contro la privatizzazione dei servizi, o i lavoratori della Tour Eiffel a Parigi, che l’anno scorso hanno chiuso per ben tre giorni il monumento più visitato di Francia. Senza che a nessuno degli esponenti politici o dei media di questi paesi sia venuto in mente di mettere in discussione i diritti fondamentali dei lavoratori»
La Repubblica, 23 febbraio 2014
Vent'anni dopo l'uscita di "Destra e sinistra", il bestseller di Norberto Bobbio, l'editore Donzelli ripubblica una nuova edizione con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti di Daniel Cohn-Bendit e Matteo Renzi. Pubblichiamo l'intervento del presidente del Consiglio. Un vero e proprio manifesto del capo del nuovo governo
la parola "sinistra" era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?
"Centro-sinistra" o "centrosinistra" era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l'universo del campo progressista.
In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c'è il Partito democratico, la parola "sinistra" come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell'Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberal-democratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, "democratica".
Erano, nel mondo, gli anni della "terza via", di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.
A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio - or sono venti anni esatti - pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della "terza via" - che pure nel socialismo liberale, nell'utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso - si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all'insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell'Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.[sic]
Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all'americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.
Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull'eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come "merito" o "ambizione"? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli "ultimi", legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l'eguaglianza - non l'egualitarismo - resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un'ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un'altra profondità. "Nel linguaggio politico - scrive Bobbio - occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell'avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale".
Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/indietro, chissà, innovazione/conservazione.
E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull'analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.
Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l'opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un'esistenza più ricca di esperienze. Con l'invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale - libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt - e fornendo loro l'occasione di realizzare se stessi. L'invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall'altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere "Sì!" alla loro domanda di cambiamento.
La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un'altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell'innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.
Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l'innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l'incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all'incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all'ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.
La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.