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«La campagna elettorale di Renzi non sarà facile. Dovrà convincere che una riduzione è meglio di una abrogazione, che risparmiare un po’ è meglio di risparmiare tutto, che qualche navetta parlamentare tra le due Camere è meglio di nessuna doppia lettura, ecc.».

La Repubblica. 2 gennaio 2016 (m.p.r.)

Matteo Renzi si gioca tutto sul referendum confermativo della riforma del Senato. È come se il presidente del Consiglio avesse lanciato il guanto della sfida all’elettorato: o me o il caos, come diceva il generale De Gaulle. Questa di Renzi è una sfida rischiosa sia per l’oggetto del contendere - la riforma del Senato - , sia, e soprattutto, perché i referendum in Italia sono sempre stati “contro”.
Da quando è stato introdotto il referendum, il consenso è andato quasi sempre in direzione opposta all’establishment politico o alle idee correnti.

Il primo, quello sul divorzio del 1974, fece epoca perché contraddisse platealmente i timori della classe politica laica. Allora i partiti favorevoli al divorzio e soprattutto il Pci temevano che il “popolo non capisse” e scegliesse la tradizione. Invece votò “contro”: contro il clericalismo e contro l’arretratezza dei suoi rappresentanti. Per una volta la società civile dimostrò di essere molti passi avanti rispetto alla politica.Ma il più clamoroso voto contro si ebbe nel 1978 quando si andò alle urne per abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Mentre solo radicali e liberali erano a favore (poco più del 5% dell’elettorato), il 43% dei cittadini sostenne l’abrogazione. Uno schiaffo a tutti i partiti “tradizionali”.
Ultimo esempio significativo: i referendum post-Tangentopoli indetti da un comitato variegato di politici e intellettuali capitanato da Mario Segni e Augusto Barbera, per eliminare, tra l’altro, la legge elettorale proporzionale e (ancora) il finanziamento pubblico: la valanga di consensi che ricevettero quelle proposte seppellì la classe politica della “prima repubblica”.
Affidare la propria sorte politica all’esito di una consultazione referendaria costituisce quindi un azzardo, proprio perché il referendum è stato interpretato come uno strumento correttivo delle scelte politiche operate dalle istituzioni. Essendo una espressione di democrazia diretta tende a porsi come un contropotere, e soprattutto così è stato praticato nella recente storia politica nazionale. Renzi oggi rappresenta il potere, l’establishment, la “classe politica”. Quando gli elettori andranno a votare guarderanno anche a questo aspetto, del tutto estraneo al merito della questione.
Se poi prendiamo in considerazione l’oggetto del referendum, la riforma del Senato, anche qui emerge una difficoltà supplementare per il presidente del Consiglio. Non si deve infatti decidere se confermare o meno l’abolizione del Senato bensì una sua trasformazione affidando i seggi a una rappresentanza di consiglieri regionali. Al di là di ogni giudizio nel merito, se la riduzione numerica e funzionale del Senato doveva placare pulsioni antipolitiche - e molte argomentazioni dello stesso Renzi hanno avuto questo registro (si risparmiano soldi, ci sono meno politici in giro, e così via) - la riforma lascerà scontenta quella grande platea che oggi si sente estranea e persino antitetica rispetto alle istituzioni.
Questo perché, semplificando, Renzi non può rincorrere Grillo. Non si cavalcano dal governo i sentimenti antipolitici se non si è dei populisti, come lo erano Bossi e Berlusconi. Se invece si è legati, più o meno saldamente e più o meno convintamente, ad una visione riformista, non si è credibili nel solleticare sentimenti che non fanno parte della cultura di governo della sinistra. Per questo la campagna elettorale di Renzi non sarà facile. Dovrà convincere che una riduzione è meglio di una abrogazione, che risparmiare un po’ è meglio di risparmiare tutto, che qualche navetta parlamentare tra le due Camere è meglio di nessuna doppia lettura, ecc. Un esercizio difficile quando si ha di fronte una opinione pubblica che ha perso fiducia nella politica e nei partiti, senza grandi distinzioni.
Rimane la via d’uscita già indicata nella conferenza stampa del premier: portare il referendum su un terreno diverso, più congeniale alle risorse del capo del governo. E cioè arrivare ad uno scontro imperniato sulla sua figura, in una sorta di replica a livello nazionale delle primarie. Di nuovo, o con me o contro di me. Ma, in questo caso, non voteranno solo i simpatizzanti del Pd. La coalizione “contro” può essere numerosa, molto numerosa.

Il Fatto Quotidiano, 27 dicembre 2015, con postilla

Un attacco violento. L’ennesimo atto di “populismo di governo”, come teorizza in Dentro e contro (Laterza), il suo ultimo saggio. Così Marco Revelli, professore di Scienza della politica all’Università del Piemonte Orientale, descrive la riforma della Rai approvata dal Senato il 22 dicembre.

Come giudica questa riforma della Tv di Stato?

«Difficile trovare una parola giusta. Forse “indecente” è quella che più si addice. È una violenza al sistema mediatico e forse nemmeno Silvio Berlusconi sarebbe arrivato a far tanto, facendo dipendere la tv pubblica direttamente dal governo. Si va al di fuori del quadro democratico».

C’era da aspettarselo?
«Sì, perché segue una serie di ‘editti bulgari’ per far conformare i media all’ottimismo di Stato».

Quali editti?
«Penso a tutte le dichiarazioni di fastidio verso i media ostili a Renzi che sono filtrate, dall’attacco volgare ai ‘professoroni’, quelle voci che non si sono conformate al suo pensiero, alle critiche al Tg3 c h e – io personalmente – ri tenevo conforme, fino alla Leopolda con le graduatorie di insofferenza (alle prime pagine dei quotidiani, tra cui il Fatto, ndr)».

Dalla Leopolda arriva l’amministratore delegato della Rai Antonio Campo Dall’Orto. Cosa si è creato: un’oligarchia o un cerchio magico?
«È stata un’operazione di “comando e controllo” francamente sconcertante. Se confrontiamo gli organigrammi e il modo in cui sono state collocate le diverse figure negli enti e nelle aziende di Stato, allora vediamo che la lda è stata il luiogo dell’accreditamento dell’esecutivo. Sin dalle prime nomine sono stati piazzati gli amici trovati tra quel- li che hanno contribuito alla raccolta fondi o alla scalata del sindaco di Firenze a Palazzo Chigi».

Nel suo ultimo libro lei parla di “populismo di governo”. In che maniera questo si attua con la riforma della Rai?
«La prima cosa che può fare un populista di governo è impadronirsi della televisione pubblica. Come i populismi si usa un linguaggio caldo, emotivo, che sconvolge gli equilibri per indebolire o cancellare i corpi intermedi – sindacati, organizzazioni di categoria... – e instaurare un rapporto diretto tra capo e moltitudine. Lo fanno un po’ tutti, però la differenza di Renzi è che lo fa dall’interno delle istituzioni».

Per lei è un passaggio del “populismo di governo?

«Sì, perché Renzi è molto coerente col suo programma. Lavora a 360 gradi sulla riforma costituzional e sella legge erklettorale, sull’assetto del Parlamento e del suo stesso partito. È la costruzione verticale del potere sotto la sua persona».

In che senso?
«Si guardi ai recenti fatti delle banche, con le figure dei ‘babbi’ e dei legami familiari arrivati da luoghi periferici, dalla Toscana a Roma, è il ritorno dello ‘strapaese’ che domina con strumenti bolsi. Sono circoli magici di amici, amiconi e amiche che rappresentano un mondo provinciale della gestione del potere. Se la Prima Repubblica vedeva in posizioni influenti i capitalisti moderni e dinamici per il loro tempo, e se nella Seconda Repubblica c’era un capitalista di seconda fila al potere, ora abbiamo figure di terza fila».

Che conseguenze avrà la riforma della Tv di Stato?
«La Rai era un baraccone e tale rimarrà con la subalternità al potere e la reticenza a raccontare la realtà. Si va verso una narrazione addomesticata, dettata dall’alto e monocorde. Accadrà ai grandi quotidiani come Repubblica, Corriere della Sera e La Stampa, se guardiamo alle nuove nomine, e non possiamo aspettarci una contronarrazione da Mediaset. Rimangono poche voci libere».

Cosa sarebbe accaduto se questa riforma fosse stata fatta una decina di anni fa coi governi di Berlusconi?
«Ci sarebbero state tre milioni di persone in piazza, non solo per la Rai, ma per tutto. Repubblica avrebbe fatto dei titoli a tutta pagina, i Ds avrebbero chiamato alla mobilitazione, i sindacati dei giornalisti avrebbero fatto fuoco e fiamme... »

Non ci sono più anticorpi?
«Sono stati messi alla berlina dalla mutazione genetica del Pd. Una parte di quegli anticorpi sono diventati portatori sani della subalternità a ciò che non sarebbe mai stato accettato, e così sono diventati trasmettitori del contagio».

postilla
In verità nel secolo scorso c'è stato in Italia un altro illustre esempio di "populismo di governo". Quella volta fu un romagnolo, anche lui di provincia. La differenza è che allora fu necessaria un'azione violenta, questa volta no. Ma Mussolini non aveva avuto un preparatore come Silvio Berlusconi, nè un ambiente internazionale favorevole come il neoliberismo.

Continua inesorabile la marcia verso la demolizione della democrazia e la costruzione dello stato feudale. Occupata una postazione decisiva: il luogo dove si de-formano le teste.

Il manifesto, 27 dicembre 2015

Dopo vent’anni di occasioni mancate dal centrosinistra, di riforme malfatte e di altre inevase (solo la «par condicio», oggi fatta fuori nei fatti, fu all’altezza delle aspettative e conforme alle esigenze del «far west» italico), questa cosiddetta «riforma Rai» di Renzi ha il sapore amaro della beffa.

Anche qui più che prendersela con il premier ci sarebbe da scavare sulle colpe di una sinistra che non ha mai voluto seriamente affrontare, anche quando è stata al governo, la questione televisiva e quella della messa in sicurezza della Rai in particolare.

Ora la Rai è al sicuro, ma nelle mani del governo, e l’on. Anzaldi, già rutelliano, aggiusta il tiro per colpire meglio la terza rete. Ma lo sa l’on. Anzaldi che il presidente del Consiglio moltiplica le presenze televisive in programmi d’informazione e d’intrattenimento in una misura che avrebbe fatto gridare al «golpe» solo pochi anni fa? Al contrario delle discutibili sortite di quest’ultimo, ahimè, le timidezze a sinistra (come ha ricordato Vincenzo Vita su questo giornale), o in quel che resta di essa, sul tema tv appaiono sconcertanti.

La Rai liberata dai partiti? Sì, ma nelle mani dell’esecutivo. La lottizzazione di reti e testate finalmente un ricordo del passato? Sì, ma dai lotti si passa al feudo, e non sarà certo meglio. Anche ammesso che Renzi non è Berlusconi e Campo Dall’Orto non è Masi, cosa succederà quando il feudatario di turno vorrà esercitare tutto il potere che la legge gli conferisce, pensando, più che alle competenze, alle fedeltà di cordata?

E dire che se il premier avesse voluto far bene non aveva che da chiedere a chi gli sta vicino. Come Paolo Gentiloni che, da ministro della Comunicazione durante il secondo governo Prodi, aveva provato a cambiare il sistema con un disegno di legge coraggioso che affidava la Rai ad una Fondazione. Non solo. Il progetto in particolare prevedeva l’istituzione di un Consiglio per le Comunicazioni audiovisive composto da 21 membri: 7 indicati dai presidenti delle Camere, 11 da sindacati, imprenditori, artisti, terzo settore, associazioni di utenti, università e consumatori, e 3 dalla conferenza delle regioni, dall’Anci e dall’unione delle provincie.

Il Consiglio avrebbe provveduto a nominare sia i vertici dell’azienda del servizio pubblico sia i membri dell’Autorità delle telecomunicazioni. A sua volta quest’ultima avrebbe dovuto garantire il rispetto da parte della tv privata di quegli indirizzi vincolanti che il Consiglio superiore decideva di emanare all’intero comparto televisivo. Nella proposta, udite, udite, si prospettava anche l’invio sul satellite entro 15 mesi di una rete Rai e una Mediaset e un limite alla raccolta pubblicitaria del 45% per ogni singolo attore del mercato.

Il disegno, approvato dal consiglio di ministri dopo le elezioni, passava nel 2007 alla Camera poco prima dell’ingloriosa caduta del governo.

Ecco, sarebbe interessante sapere cosa ne pensa il ministro degli esteri Gentiloni di quanto ha partorito il governo di cui è autorevole rappresentante in tema di televisione. Ma Renzi l’avrà almeno consultato?

«Nei poteri economici comincia ad affacciarsi la sensazione che proprio il governo dell’inesperienza, che pure sposa il loro programma massimo contro il mondo del lavoro, costituisce un fattore di blocco».

Il manifesto, 19 dicembre 2015

È solo l’economia reale che organizza l’opposizione al governo. Non certo il Movimento 5 Stelle, che mostra le intenzioni bellicose contro l’esecutivo della decostituzionalizzazione votando proprio per il giurista amico dell’Italicum. E festeggia per aver inviato alla Consulta un suo candidato moderato, un tempo politicamente vicino a Nicolazzi, il ministro che fece aprire uno svincolo sull’autostrada per raggiungere il paese d’origine.

E’ difficile stabilire se la maggiore fonte di inquietudine per il governo sia costituita dalle grane, per salvataggi, decreti e plusvalenze, in cui è incappata “la chierichetta” diventata ministro delle riforme, o dalla campana a ritmo lento che suona dalle parti di via dell’Astronomia. Il governo dei “senza retroterra” non è stato una buona idea uscita dal senno confuso dei poteri forti.

E ora anche la Confindustria certifica quello che tutti percepiscono nella loro vita reale. E cioè che “lo psicologo in capo”, che intrattiene il pubblico con le slide e con le barzellette lo distrae per spingerlo alla fiducia a comando, non ha combinato nulla di costruttivo. Anzi ha peggiorato le cose, al punto che gli industriali, incassato oro contante grazie alle generose decontribuzioni, ammettono che «l’economia italiana, anziché accelerare, sta rallentando».

Il mito della velocità, del cambiamento di passo, mostra la corda. E si rivela una pura invenzione volontaristica. Per l’uscita dalla crisi non basta una sterile invocazione magica priva di ogni efficacia reale. Dopo i sorrisi e le canonizzazioni del premier, la Confindustria deve ammettere che la ripresa non c’è, a dispetto di un intreccio di irripetibili congiunture internazionali straordinariamente favorevoli. E che, a confronto, la risposta offerta dal cacciavite di Letta era persino più efficace del trapano impugnato dal loquace rottamatore.

Ora gli studi della Confindustria parlano di «mistero» della stagnazione che mette in ginocchio l’Italia. Per gli industriali «il mancato decollo della ripartenza resta un vero rebus». Queste formule, che evocano l’ignoto, però sono l’estremo rifugio linguistico per non indicare chiaramente le responsabilità acclarate, che hanno un volto preciso: il governo della narrazione. Con bonus clientelari e con l’aggressione ai diritti del lavoro, l’esecutivo crede di surrogare l’adozione di politiche industriali di svolta.

Nei poteri economici comincia ad affacciarsi la sensazione che proprio il governo dell’inesperienza, che pure sposa il loro programma massimo contro il mondo del lavoro, costituisce un fattore di blocco. Un paese che versa in una «stagnazione secolare» non ha bisogno di uno “psicologo in capo” ma di una politica che poggi su altri interessi sociali rispetto a quelli dominanti. Non funziona la ricetta che unisce chiacchiera e precarizzazione del lavoro come fattore competitivo sostitutivo rispetto ai costi dell’innovazione tecnologica.

Qualcosa si sta precocemente rompendo nella costituzione materiale del renzismo. Le cronache di fallimenti delle banche amiche, di vendite allegre di teatri storici, di pratiche affaristiche scambiate con nomine pubbliche sub condicione, svelano la genesi oscura della fortuna dei soldati della rottamazione. Le ricostruzioni giornalistiche rompono il velo protettivo e rivelano una miscela di banche, massoneria deviata, amministrazione in appalto che ha scaldato i motori di una spettacolare scalata al potere.

Questi rampolli di famiglie in affari sono partiti dal controllo di una città-azienda, conquistata grazie al soccorso delle truppe di Verdini. E poi hanno racimolato le risorse per viaggiare in aerei privati e affrontare la sfida dei gazebo. Hanno raccolto i fondi necessari per edificare una potenza personale, per tessere rapporti opachi (consulenze, promozioni, incarichi) e dare l’assalto al governo.

Senza una colossale potenza economica-finanziaria-mediatica alle spalle, il sindaco di una città non sarebbe mai stato così influente da essere ricevuto dalla cancelliera tedesca. E senza l’avallo preventivo di potenze europee, il capo dello Stato non avrebbe accettato il cambio della guardia a palazzo Chigi, con la fine dei governi del presidente. Liquidata la porzione di classe politica di estrazione comunista e scacciato i sindacati dalla sala verde, i poteri influenti hanno a lungo gioito.

E però oggi che la gestione del potere si rivela un colossale fiasco, si apre una riflessione in seno alle spaurite classi dominanti. E un dubbio le divora: il governo dell’inesperienza che segue i dettami della Confindustria non sarà un ostacolo obiettivo alla rinascita economica? La questione l’aveva segnalata già Marx. Il quale scriveva che alla borghesia non conviene «un autogoverno di classe» e più funzionale ai suoi stessi interessi è il progetto di dotarsi di un ceto politico differenziato e autonomo.

La Confindustria deve ammettere che lo scambio tra contenuti economici della legislazione gestiti direttamente dalle imprese e gioco della comunicazione dato in concessione al rottamatore si rivela sempre più inefficace. Anche i poteri forti sono costretti a cimentarsi su un interrogativo di Weber. E cioè sono afflitti dal timore che del marketing come tecnica competitiva, che rinvia alla padronanza politica delle semplificazioni usate strumentalmente, con Renzi si esageri, sino a scivolare nel marketing come sostanza di una politica che smarrisce il senso della realtà, la complessità dell’agenda, la percezione della temporalità.

Rispetto alla metamorfosi del leader, che converte l’uso di ritrovati demagogici in politica della pura demagogia o capo istrione, Weber innalzava due antidoti: il partito strutturato, in grado di selezionare e controllare il capo, e l’esperienza accumulata entro un apprendistato nelle commissioni parlamentari. Entrambi questi correttivi in Italia sono saltati, ed è il solo paese europeo ad avere avuto tre premier non parlamentari in vent’anni.

Niente di formalmente illegittimo, ma un presidente del consiglio senza mandato parlamentare è la spia di una catastrofe del sistema politico. E un leader senza un apprendistato di partito è possibile solo in un sistema a traino populista investito da intensi momenti di antipolitica.

Dopo aver brindato al decesso della mediazione politica, i poteri economici tremano per i guai provocati da una classe dirigente improvvisata e vittima della comunicazione.

IIl Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2015

“Mettiamo in fila i fatti”, dice Gustavo Zagrebelsky alla prima sollecitazione sulla Consulta zoppa. E sia. Ci sono tre posti vuoti. La Corte corre il rischio di paralisi. Siamo giunti a dodici. Se scende sotto gli undici, per legge non può deliberare. Il rischio del blocco, per la prima volta nella storia repubblicana, è tutt’altro che teorico, data la fragilità di persone avanti con l’età. “Il primo posto si è reso libero a giugno dell’anno scorso, il secondo a gennaio e il terzo a luglio di quest’anno. Si è fatto finta di voler provvedere con finte convocazioni delle Camere riunite e una trentina di votazioni a vuoto. Non si avvertiva, evidentemente, nessuna urgenza. Ora, nelle ultime settimane, al prolungato surplace è subentrata la volata: bisogna fare in fretta, il Parlamento deve essere convocato a oltranza; perfino le feste natalizie devono passare in secondo piano; bisogna chiuderli tutti dentro, lesinare il cibo, scoperchiare il tetto fino a quando non ne escono con i tre giudici bell’e fatti”.

Come si spiega la “volata”?


Semplice. Siamo nell’imminenza di alcune decisioni su materie alle quali il presidente del Consiglio, il governo e la sua maggioranza sono particolarmente – diciamo così – sensibili: i diritti dei lavoratori, i diritti degli elettori, l’autonomia scolastica, le cause d’ineleggibilità, per esempio.

Jobs act, Italicum, “buona scuola”, “legge Severino”?


Sì, ma preferirei meno provincialismo, meno slogan, e parlare in italiano.

L’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento dipende da valutazioni politiche, necessariamente partitiche?


Non solo è inevitabile, che sia così; non solo è ciò che dice la Costituzione, ma è anche un bene. La Corte è un collegio in cui si mescolano culture ed esperienze diverse, in vista di deliberazioni complesse, così come complessa è la struttura della Costituzione. C’è posto anche per giuristi, come si dice, “di area”. Infatti, abbiamo avuto eccellenti giudici costituzionali di provenienza parlamentare. Cito soltanto, tra i più noti, Leopoldo Elia, Mauro Ferri e Valerio Onida. La provenienza dal voto parlamentare non esclude affatto l’autonomia di giudizio che, d’ogni giudice e, massimamente, dei giudici costituzionali, è il primo requisito. E nemmeno pregiudica quell’altra esigenza di buon funzionamento di un organo come la Corte, che è l’attitudine deliberativa, l’arte del dialogo in vista di decisioni il più possibile inclusive delle buone ragioni in campo. Mai, tuttavia, è accaduto – e qui sta la differenza – che si sia stati eletti in prossimità di specifiche decisioni, con un implicito o esplicito mandato per prefigurare maggioranze di giudici favorevoli ai mandanti e così alterare il funzionamento d’un organo che deve essere indipendente.

Ritiene che i nomi fatti non siano adatti al compito?


Innanzitutto, uno dei tre, Augusto Barbera, è indubitabilmente un affermato costituzionalista, giustamente circondato da generale considerazione. Gli altri, per quanto conosco, mi paiono piuttosto buone promesse, boccioli che possono sbocciare. Ma non è questo il punto. Del resto, spetta al Parlamento formulare questo genere di giudizi e, tra i parlamentari, c’è certo chi ha le conoscenze adeguate e dovrebbe far sentire la propria voce, finora silente, per orientare le opinioni degli altri, digiuni di giurisprudenza.

Se non è questo, allora che cos’è?
È che quelle degne persone sono incappate in un gioco costituzionalmente inammissibile, quello che dicevo prima: il mandante che cerca i suoi mandatari, anche nei campi, come quelli della giustizia, in cui non dovrebbero esserci né mandanti né mandatari. Siamo di fronte a un degrado istituzionale senza precedenti, a un’invasività degli interessi politici che viola la separazione costituzionale delle funzioni, che prefigura sinistramente le mani sulle istituzioni di garanzia, le quali mani non incontrerebbero resistenze una volta portato a termine il ridisegno istituzionale che il governo sta perseguendo. Ma la legge stabilisce che i giudici costituzionali non possono svolgere attività inerenti ad associazioni e partiti politici: non dovrebbe valere la stessa cosa, al contrario?

Quelle che lei chiama “degne persone” dovrebbero mettersi da parte, per non partecipare al gioco?


Non dico questo. La carica di giudici costituzionale è, per buone ragioni, molto desiderata e non possiamo far finta di ignorare le umane ambizioni, tanto più quando esse sono ampiamente giustificate dai meriti culturali acquisiti. Sarebbe ipocrisia il contrario. Inoltre, non possiamo affatto escludere che, una volta eletti, costoro si svincolino effettivamente da ogni mandato. L’ethos della carica, qualche volta, prevale perfino sui caratteri personali. Negli Stati Uniti, dove i giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente, si parla di “debito d’irriconoscenza” che i neo-nominati dovrebbero onorare per affermare fin dall’inizio e una volta per tutte la cessazione d’ogni rapporto con colui a cui devono la nomina.

A chi spetta smettere di giocare con le istituzioni?


Al Parlamento, ai gruppi parlamentari, ai singoli che godano di qualche credibilità in faccende costituzionali, spetta sbrogliare la matassa, facendo proposte fuori da ogni diktat dell’esecutivo. In Parlamento devono trovarsi gli accordi sufficienti a raggiungere l’ampia maggioranza richiesta e necessari a sconfiggere la logica del mandante. A quanto risulta, nulla di ciò è accaduto, con la conseguenza delle numerose fumate nere che si sono finora susseguite.

Qualcuno ha invocato un intervento del presidente della Repubblica, ricordando un precedente in cui si è minacciato lo scioglimento delle Camere.


La minaccia mi pare fuori della realtà. Oltretutto, potrebbe portare a soluzioni purché siano, in stato di necessità. Non è il Parlamento che deve essere minacciato, ma è il governo che deve essere richiamato a stare al suo posto e sono i parlamentari a dover essere esortati al libero esercizio delle loro funzioni. Per questo, occorrerebbero puntualizzazioni presidenziali precise, al di là delle vuote e insignificanti espressioni rivolte al Parlamento, del tipo “occorre uno scatto di reni”, che non vogliono dire niente.

Il bilancio di un biennio di comando di un uomo di successo. Il vero problema è che nel corso di mezzo secolo di "persuasione occulta" le teste non funzionano più.

Il manifesto, 6 dicembre 2015, con postilla.

L’8 dicembre di due anni fa Renzi è diventato il segretario del Pd. Per chi della velocità aveva fatto un mito, e dall’energia creativa del corpo del capo aveva ricavato l’attestato della garanzia di successo, due anni di potere sono un tempo enorme, valido per sopportare una verifica. Una radiografia l’ha fornita il rapporto Censis con la metafora bruciante del paese in «letargo». Quando Renzi concluse la sua marcia trionfale tra i gazebo, raccolse, oltre al sostegno di ambienti esterni pronti a finanziare una scalata ostile, anche un’ansia di successo, sfumato nel 2013, e un bisogno di rinnovamento delle classi dirigenti. Un biennio di leadership incontrastata basta però per lasciar appassire i sogni di gloria e per smentire ogni attesa di ricambio effettivo nelle pratiche e nei volti del ceto politico locale.

Il governo della mancia per tutti non attira un voto in più al Pd. E le sue disinvolte e creative misure economiche non agganciano la ripresa, anzi aggravano il divario con il passo spedito di altri partner europei. Le esclusioni sociali crescono, l’evasione fiscale e contributiva regna incontrastata, il differenziale territoriale si acuisce, i servizi pubblici, la sanità deperiscono. Galleggia l’illegalità, solerte è la misura per il salvataggio delle banche amiche.

Le imprese, incassato l’oro delle decontribuzioni e dei tagli Irap, continuano a rigettare ogni strategia competitiva fondata sull’innovazione e la qualità. Con la libertà di licenziamento, sancita dalle nuove leggi sul mercato del lavoro varate dal governo, le aziende si sentono protette da una irresistibile corazza. E pensano di proseguire nella strada della competizione al ribasso, tramite la marginalizzazione del sindacato, la precarietà camuffata dalle tutele crescenti. Il basso costo del lavoro è loro garantito in eterno dal potere di licenziare con modico indennizzo monetario.

Presto il nero diventerà la figura dominante nei rapporti contrattuali perché, dopo 40 anni di lavoro e con una pensione che non sarà di molto superiore a quella sociale, al dipendente risulterà più conveniente chiedere di essere pagato in nero, così almeno potrà racimolare qualche spicciolo in più dal mancato versamento dei contributi. Senza una politica degli investimenti, e senza una crescita dei salari pubblici e privati (altro che mance graziosamente elargite, senza alcun progetto di società), il sistema si avvita in una spirale regressiva e catastrofica.

Questo biennio perduto lascerà ferite sociali e politiche difficili da rimarginare. La volontà del capo di governo di presentarsi come il generoso protettore di tutta la nazione, che distribuisce bonus e mance ai ragazzi, ai carabinieri, agli insegnanti, non solo disperde risorse preziose, perché scarse, senza alcun risultato tangibile nell’inclusione sociale ma non viene premiato nella sua spericolata raccolta del consenso clientelare due punto zero.

Ha un bel dire Paolo Mieli che Renzi non è un capo divisivo, ma vive nella splendida condizione di chi ha la felice fisionomia di un leader vincente che scavalca mirabilmente gli steccati e pesca fiducia ovunque. Ascoltando meglio gli umori reali, non mancherà la percezione di un vivo sentimento di inimicizia, e anche di odio politico, che cresce e impedisce allo statista di Rignano di sfondare, nonostante l’infinita presenza in video, il sostegno generale dei media, il gradimento dei poteri che influenzano, la smobilitazione della destra.

Non basta, per rimediare alla deriva, raccogliere l’invito a costruire il partito, senza il quale, in effetti, tra il capo e il territorio esiste solo un solidissimo vuoto. Il problema è che Renzi non può costruire un partito, per ragioni strutturali. Ha distrutto quel poco di organizzazione che rimaneva, costringendo alla fuga gli illusi che fingevano di ritrovare nei gazebo i residui di vecchie simbologie e nei comitati elettorali degli affaristi in carriera i detriti di memorie, e non può edificare una nuova struttura, con gli eventi fuggevoli dei mille banchetti.

A Renzi il partito serve solo come fonte di legittimità per ordinare lo «stai sereno» e per continuare ad abitare a palazzo Chigi finché vuole. Non ha una cultura moderna della leadership, ma sprigiona solo una caricaturale infatuazione per i simboli esteriori del comando da caserma. Non è vero quello che ha raccontato Eugenio Scalfari a Otto e mezzo, e cioè che Renzi comanda da solo perché in tutte le democrazie avviene così.

Ovunque esistono gruppi dirigenti rispettati e non trattati come subalterni inoffensivi con cui il capo scherza nelle direzioni in diretta streaming. Ogni capo convive con oligarchie agguerrite, con gruppi parlamentari non arrendevoli. Persino Obama ne sa qualcosa. E il nuovo leader laburista Corbyn ha avuto l’investitura del partito ma i gruppi parlamentari, espressioni di un’altra cultura politica, non si piegano, e resistono anche platealmente alle sue direttive in politica estera. Non fanno come i deputati del Pd, designati per l’ottanta per cento come seguaci di Bersani, e poi tutti inginocchiati a riverire il nuovo padrone senza mai un cenno di disobbedienza.

Se ci fosse stato un partito, Renzi non lo avrebbe mai scalato, e se avesse, dopo la conquista, ricostruito un partito, proprio i suoi dirigenti lo avrebbero già disarcionato, per una manifesta inattitudine alla leadership autorevole. Altrove a togliere di mezzo un capo che ha perso le regionali, ha liquidato il nucleo organizzativo del partito, costretto alla diserzione la membership, manifestato una palese inadeguatezza al governo e naviga in chiaro affanno nei sondaggi, sarebbe il suo stesso partito. Ma la fortuna di Renzi è di non avere un partito. E può accontentarsi di un simulacro che gli dà i gradi di comandante di giornata.

Due anni terribili di deconsolidamento della democrazia costituzionale e del lavoro sono trascorsi e c’è poco da festeggiare con banchetti unitari in prossimità della catastrofe. Il solo auspicio è che l’odio e la delusione che covano nella sinistra ferita si trasformino in politica, e ci siano classi dirigenti pronte a raccogliere la difficile impresa, di ricominciare con un pensiero critico dopo il forte rumore dello schianto.

"I persuasori occulti" (The Hidden Persuaders) è il titolo del libro del sociologo statunitense Vance Packard che svelò in che modo nel sistema capitalistico i padroni della produzione foggiavano le menti dei consumatori per indurli a desiderare determinati prodotti e diventarne acquirenti. Il libro, del 1957, fu pubblicato in Italia del 1958 , ed ebba un certo rilievo nel dibattito della "società opulenta". Negli stessi anni l'economista statunitense J.K Galbraith aveva pubblicato il suo fondamentale testo "La società opulenta" (The Affluent Society), tradotto n Italia nel 1959. La cultura ufficiale della sinistra trascurò del tutto il profondo mutamento della società e degli strumenti di potere che quelle analisi rivelavano, e questa fu una delle ragioni essenziali della loro sconfitta (vedi in proposito anche l'articolo di Alfonso Gianni, Dialoghi sul declino della sinistra)
Piccolo viaggio alle radici del renzismo. Cominciò con Craxi e con Veltroni. Alessandro Ferrucci intervista Marisa Rodano protagonista della lotta per il suffragio universale in Italia.

Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2015

Sigaretta tra le mani, capelligrigi, cardigan e camicia, risposte mai immediate ma frutto di una breveriflessione. “Vuole sapere da quando è iniziato tutto questo sconquassopolitico e sociale? Dall’avvento del CAF”. Maria Lisa Cinciari Rodano, classe1921, si accomoda in poltrona circondata dai suoi libri, libri che racchiudonouna storia ricca, irripetibile, decisiva in alcune battaglie civili, inparticolare per la parità dei sessi; lei che nel 1963 diventò, per il Pci, laprima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente della Camera.

Lei ha visto, vissuto, partecipato,a buona parte dell vicende del nostro secondo dopoguerra. Secondo lei stiamo ancora pagando il trittico Craxi-Andreotti-Forlani...
«Con loro inizia il processo di degrado della democraziaitaliana che poi esploderà con Mani pulite: la crisi dei partiti, illeaderismo, la personalizzazione della politica. I programmi diventati secondari».
C’è chi vede similitudini tra Renzie Craxi.
«Forse ci sono in alcune scelte, ma lo scopo è bendiverso: l’obiettivo di Renzi è governare, per produrre cambiamento, ma nonsempre cambiare significa progredire; non sempre cambiare è meglio, non semprevuol dire andare a sinistra, magari ci si sposta a destra. Sa qual è il veroproblema? Non è chiaro quale società vogliano, in che modo affrontare laquestione che metà della popolazione è sotto la soglia di povertà; come ridurrele disparità di reddito e di condizioni di vita».
Sul Fatto di lunedì scorso,Alfredo Reichlin ha parlato di Renzi come di un politico che non costruisce, diun uomo lontano da un'idea di partito...
«Condivido. Ribadisco: oramai la politica è solo scontrotra leader o presunti tali, si è personalizzata, e ciò spiega il perché metàdella popolazione non va a votare, metà della popolazione ritiene che lapolitica non è affare suo, che il voto non conta, non serve; è come se la politicafosse diventata qualcosa di riservato a pochi cittadini».
Deve essere particolarmentedoloroso per leiche ha combattuto per il suffragio universale...
«Molto. Mi ricordo la campagna per l’elezionedell’Assemblea Costituente, per far comprendere alle donne (che mai avevanovotato) l’importanza dell’urna, di quanto quel gesto poteva condizionare leloro vite e quelle di tutti. E alla fine, nel 1946, l’80 per cento si presentòcon la scheda in mano, la stessa percentuale degli uomini. Qualcosa di straordinario. Alcune di noi scoppiarono inlacrime».
Torniamo al CAF: avvertì subitoil cambio di marcia?
«Immediatamente. Non appena Craxi propose la cosiddetta“Grande riforma”, con l’obiettivo di arrivare a una legge elettorale maggioritariaper instaurare un sistema di alternanza tra due schieramenti, (tra la Dc e ilPsi) allo scopo, come ho già detto, di escludere il Pci. In parte l’idea di Stato che ha Renzi ricorda quella“Grande Riforma” di Craxi. La vada a prendere e vedrà le somiglianze».
Bipolarismo antelitteram.«Esatto, una proposta poi sancita al congresso socialistadi Rimini. Da quegli anni iniziarono a finire le ideologie e purtroppo leidealità».
È legata alle ideologie?
«No, sono sempre stata dell’idea che la politica dovesseessere laica, e non discendere dal fatto che uno crede in Dio, o é ateo, èmarxista o liberale. No. La politica deve riguardare tutti. Il problema è chela fine delle ideologie si è portata dietro anche l’addio alle idealità, ai progetti, quindi sono finite leprospettive».
Veltroni ha sponsorizzato il bipolarismo.
Mi ricordo il fastidio provato durante il suo discorso a Torino».
Secondo Cacciari da quell’intervento finisce il Pd...
Quel giorno Veltroni sembrò voler dire a proposito della sua militanza nel Pci:“Non c’ero e se c’ero dormivo”. Non si può affermare “non sono mai statocomunista”, se si è militato nel Pci. Si deve avere il coraggio di proporreun’analisi critica degli errori, di che cosa non si è capito; di cercare divalutare gli aspetti positivi e quelli negativi. Così si fa. Non si può buttarevia tutto, non si può rifiutare il proprio passato».
Veltroni ha smantellato anchele sezioni, per un partito fluido...
«Quello delle sezioni era un tessuto fondamentale».
Quanto?
Nei primi anni dopo la Liberazione, a Roma, ogni giovedì c’erano assembleedelle sezioni del Pci dove si discuteva degli eventi internazionali dellasettimana, di quelli nazionali, delle cose da fare, di quelle da evitare, diquello che aveva combinato la Democrazia cristiana, degli argomenti all’ordine del giorno in Parlamento, di qualeposizione tenere su di essi in Parlamento».
Una partecipazione di base.
«Sì, e molto viva: e di quella opinione bisognava tenerconto».
Un tipo di coinvolgimento chein parte hanno ereditato Grillo e il Movimento.
«Sì, ma il web è una questione un po’ diversa: una cosa ècliccare “mi piace” o scrivere tre parole di commento; altro è partecipare auna discussione viso a viso. Perché cliccare “mi piace” non costa niente, nonrischi niente, non ci si mette in gioco veramente, mentre le discussione vis avis duravano ore, e si creava anche una forma di solidarietà umana importante».
Reichlin si è definito sconfittocome uomo di sinistra.
«C’è una responsabilità grossa in tutti i gruppi dellasinistra che non sono mai riusciti ad aggregarsi, e da decenni».
Si riferisce al gruppo del Manifesto?
«Anche prima. In realtà c’è sempre stata questa frantumazioneche ha fatto sì che la sinistra non contasse».
Perché questa tendenza?
«Difficile dirlo. Torniamo all’inizio di questa nostrachiacchierata: la politica italiana è diventata di persone, e ognuno la fa inproprio, come singolo, a cominciare da Renzi. È l’interesse di un club, una specie di Rotary».
È stupita di cosa sta accadendoa Roma?
«Molto. Il mio ricordo di Roma è quello legato a un’altraepoca, con il movimento operaio attivo, vivace, presente. Ricordo cos’erano imovimenti, le sezioni delle borgate che si battevano per le fogne,l’illuminazione elettrica, la riparazione delle case, i trasporti. Era unacittà attiva, con momenti magnifici come nel periodo del sindaco Petroselli».
Anche dalla Roma di queglianni partì una sorta di rivincita civile contro il terrorismo.
«Non c’è dubbio, l’Estate Romana fu un’esperienzastraordinaria, dagli anni bui, la Capitale divenne una vetrina per il mondo».

Quella vetrina adesso èpurtroppo a Piazzale Clodio, dove si celebra Mafia-Capitale.

«Il manifesto

Alla ricerca della «con­nes­sione tra le lotte» nei ter­ri­tori col­piti dalla stra­te­gia di «deva­sta­zione e sac­cheg­gio» impo­sta dallo Sblocca Ita­lia di Renzi, dal tra­di­mento siste­ma­tico del refe­ren­dum dell’acqua pub­blica del 2011, dalla pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi e dei beni comuni. L’assise del forum dei movi­menti per l’Acqua a Roma (con­ti­nua oggi al cowork Mil­le­piani nel quar­tiere della Gar­ba­tella con inter­venti, tra gli altri, di Gae­tano Azza­riti, Marina Boscaino e Mau­ri­zio Lan­dini) ieri è diven­tata l’occasione per una rifles­sione su una stra­te­gia di resi­stenza, di disob­be­dienza civile e contro-insorgenza demo­cra­tica con­tro la gestione com­mis­sa­riale del paese ini­ziata con le grandi opere, pro­se­guita con l’Expo e oggi appli­cata nella Capi­tale con il Giubileo.

Lo spa­zio poli­tico per una simile stra­te­gia è for­nito, in nega­tivo, dalle poli­ti­che del governo Renzi in mate­ria di gestione dei ser­vizi essen­ziali (come l’acqua), dell’energia (gas e petro­lio), dello svi­luppo infra­strut­tu­rale del paese basato su ener­gie fos­sili, alta velo­cità, cemento, tri­vel­la­zioni, ren­dita finan­zia­ria e immo­bi­liare, gestione pri­va­ti­stica del pub­blico e dei beni comuni. Sono al momento due gli appun­ta­menti per rico­min­ciare un per­corso di riag­gre­ga­zione con­tro il «con­sumo distrut­tivo del ter­ri­to­rio, dell’energia e dell’acqua»: il primo è la con­fe­renza sui cam­bia­menti cli­ma­tici che si terrà a Parigi dal 30 novem­bre all’11 dicem­bre. Dome­nica 29 novem­bre è pre­vi­sta una mani­fe­sta­zione della Coa­li­zione per il clima tra piazza Far­nese e i Fori Impe­riali a Roma in con­tem­po­ra­nea con ini­zia­tive simili in altre città orga­niz­zate dalla Glo­bal Cli­mate March. L’altro fronte è l’opposizione alle tri­velle: le regioni Abruzzo, Cala­bria, Cam­pa­nia, Lom­bar­dia, Mar­che, Puglia e Veneto hanno impu­gnato lo Sblocca Ita­lia davanti alla Corte Costi­tu­zio­nale che deci­derà sui ricorsi entro la pri­ma­vera 2016. Oggi a Roma al parco delle Ener­gie i movi­menti No Triv, pro­ta­go­ni­sti della pro­te­sta, ter­ranno un’assemblea.

Quella vista ieri a Roma è una società inquieta e ferita, alla ricerca di una via di fuga, con­sa­pe­vole del pos­sente con­trat­tacco che ha ridotto lo Stato di diritto costi­tu­zio­nale allo «Stato bor­ghese ori­gi­na­rio che difende gli inte­ressi dei ceti domi­nanti» ha detto Severo Lutra­rio, uno dei pro­ta­go­ni­sti del movi­mento per l’acqua pub­blica. In que­sta tra­sfor­ma­zione non è secon­da­ria la gestione del potere che ha esau­to­rato la poli­tica rap­pre­sen­ta­tiva, come i cosid­detti «corpi inter­medi», per non par­lare dei movi­menti e dell’associazionismo dif­fuso sog­getti a una stra­te­gia pre­ven­tiva del con­trollo e della repres­sione sem­pre più invasiva.

Più di altri il sim­bolo di que­sta offen­siva poli­tica, legi­sla­tiva e giu­di­zia­ria è stata con­si­de­rata una sen­tenza del Tar del Lazio che ha dato torto ai pochi sin­daci che si sono oppo­sti ai distac­chi «arbi­trari e ille­gali impo­sti dall’Acea. A un’autorità pub­blica come quella del sin­daco — ha aggiunto Lutra­rio — oggi viene negata la pos­si­bi­lità di inter­ve­nire nella gestione di un bene pub­blico come l’acqua ridotto a gestione com­mer­ciale. Que­sto è il paese in cui viviamo. Pren­dia­mone atto».

Alla base di que­sta tra­sfor­ma­zione c’è «la Stra­te­gia ener­ge­tica nazio­nale (Sen) voluta da Monti e acce­le­rata da Renzi con lo Sblocca Ita­lia” ha ricor­dato Vin­cenzo Miliucci (Cobas). Il cre­scente mal­con­tento per que­sta misura emerge tra gli enti locali e le comu­nità alle quali è stata sot­tratta l’auto-determinazione sulla rea­liz­za­zione di gasdotti come il Tap in Salento, sui ter­mi­nali di rigas­si­fi­ca­zione del gas natu­rale lique­fatto o per le atti­vità di pro­spe­zione e ricerca di gas e greg­gio, nella ter­ra­ferma e nel mare. A que­sto pro­po­sito si parla di una «mili­ta­riz­za­zione ener­ge­tica» di cui si denun­cia da tempo l’incostituzionalità.

Emer­gono così i tratti di un dispo­si­tivo di governo basato sullo stato di emergenza.«Le gestione dell’emergenza è emersa negli ultimi tempi con le migra­zioni negli anni Novanta, è pro­se­guita con la pro­te­zione civile e oggi con­ti­nua con il com­mis­sa­ria­mento dei grandi eventi come Expo o il Giu­bi­leo– ha detto Alberto Di Monte (labo­ra­to­rio Off Topic Milano). Que­sta logica è stata intro­iet­tata dallo Sblocca Ita­lia che non col­pi­sce solo il Centro-Sud. A Milano sta creando 15 casi. In una chiave post-moderna, que­sta idea del governo tra­sforma l’eccezione in norma. Il pro­getto è unico, ma potrebbe essere l’occasione per unire le lotte. Per farlo biso­gna pas­sare dai beni comuni al fare in comune».

«Oggi sono le città a subire l’attacco più pesante della pri­va­tiz­za­zione» ha aggiunto Fran­ce­sco Bran­cac­cio, Rete per il diritto alla città di Roma, che ha rac­con­tato anche l’esperienza degli spor­telli anti-distacco dell’acqua. «Que­sto assetto del potere pro­spera sul con­cetto ambi­guo e peri­co­loso di “lega­lità” che chiede l’intervento del potere com­mis­sa­riale invece di spe­ri­men­tare nuovi per­corsi di legit­ti­mità poli­tica — ha aggiunto — Oggi la lotta per i beni comuni si può rilan­ciare matu­rando una capa­cità isti­tu­zio­nale al di là delle isti­tu­zioni esi­stenti». I con­cetti chiave sono: «muni­ci­pa­li­smo, auto-governo e ege­mo­nia». Le idee sono chiare, il per­corso poli­tico è ancora lungo.

Analisi sintetica ma precisa delle caratterisctiche del renzismo. Manca solo un elemento, la cui presenza è facile da individuare nella realtà ma difficile da documentare finché il Re e i suoi vassalli sono al potere: l'utilizzazione spregiudicata dell'arma del ricatto.

Il manifesto online, 1° novembre

Gli avve­ni­menti romani delle ultime set­ti­mane hanno posto in luce, mi pare, alcuni ele­menti di fondo sulla tran­si­zione ita­liana verso la post-democrazia, ossia il supe­ra­mento della sostanza della demo­cra­zia, con­ser­van­done le appa­renze, secondo un pro­cesso in corso in tutti gli Stati libe­rali, ma con delle pecu­lia­rità pro­prie, che hanno a che fare con la sto­ria ita­liana e, forse, anche l’antropologia del nostro popolo.

Senza più entrare nel merito della vicenda della cac­ciata di Igna­zio Marino dal Cam­pi­do­glio, su cui peral­tro mi sono già espresso più volte, a netto soste­gno del sin­daco, pur rile­van­done le debo­lezze e gli errori (ha sin­te­tiz­zato bene ieri l’altro sul mani­fe­sto Norma Ran­geri: «non è il migliore dei sin­daci, il mestiere poli­tico non è il suo, si è mosso fidan­dosi … del suo cer­chio magico»), e con­tro l’azione del Pd, irre­spon­sa­bil­mente soste­nuta anche dal M5S, all’unisono con le frange della destra estrema, pro­pongo alcune rifles­sioni che hanno biso­gno natu­ral­mente di essere appro­fon­dite, oltre che discusse.

I Tesi

Le assem­blee elet­tive, ossia quella che si chiama «la rap­pre­sen­tanza», hanno un valore ormai nullo. Depu­tati, sena­tori, con­si­glieri regio­nali e comu­nali, sono pedine inin­fluenti, che si muo­vono all’unisono con gli orien­ta­menti dei capi e sottocapi. Obbe­di­scono in modo auto­ma­tico, ma cosciente, nella spe­ranza di entrare nell’orbita del potere «vero», o quanto meno avvi­ci­narsi ad essa, e diven­tare sia pure a livelli infe­riori o addi­rit­tura infimi, «patro­nes» di pic­cole schiere di “clien­tes». Il potere legi­sla­tivo è com­ple­ta­mente disfatto.

II Tesi

I par­ti­titi poli­tici, tutti, sono diven­tati «par­titi del capo». I mili­tanti, e per­sino i diri­genti, dal livello più basso a quelli via via supe­riori, non con­tano nulla. Tutto decide il capo, cir­con­dato da una schiera di fedeli, i “guar­diani”. Le forme di reclu­ta­mento e di sele­zione, che dalla base giun­gono al ver­tice, sulla base di per­corsi lun­ghi, tra­gitti di «scuola poli­tica», hanno per­duto ogni sostanza; con­tano con­su­lenti, ope­ra­tori del mar­ke­ting, son­dag­gi­sti, costrut­tori di imma­gine. Il distacco tra il capo, e il ristret­tis­simo ver­tice intorno a lui, e lo stesso par­tito, inteso come strut­tura di ade­renti, intorno, di sim­pa­tiz­zanti, o di sem­plici elet­tori, appare totale. Se crolla il capo, crolla il par­tito, nel Pd come è acca­duto in Forza Ita­lia, e come acca­drà nel Movi­mento 5 Stelle, se i mili­tanti non scel­gono una via diversa.

III Tesi

Il Vati­cano, e le gerar­chie della Chiesa cat­to­lica, costi­tui­scono non sol­tanto uno Stato nello Stato, ma uno Stato poten­zial­mente ostile, che eser­cita un’azione diret­ta­mente poli­tica, volta a con­di­zio­nare, fino al sov­ver­ti­mento, gli stessi ordi­na­menti libe­rali; diventa «potenza amica» solo quando e nella misura in cui il potere legit­timo si piega ai suoi dettami.

IV Tesi

I grandi media non eser­ci­tano sem­pli­ce­mente un’influenza, come sosten­gono certi mass­me­dio­logi; essi rap­pre­sen­tano pie­na­mente un potere, capace di creare o distrug­gere lea­der, cul­tu­rali o poli­tici o spor­tivi. Abbiamo avuto esempi pic­coli e grandi, di distru­zione o costru­zione, da Roberto Saviano a Renata Pol­ve­rini, fino a Igna­zio Marino, osan­nato chi­rurgo, esem­plare per­fetto della «società civile», poli­tico one­sto, sin­daco in grado di sve­lare e sgo­mi­nare l’intreccio affaristico-mafioso della capi­tale, diven­tato improv­vi­sa­mente il con­tra­rio di tutto ciò, a giu­sti­fi­ca­zione della sua orche­strata defenestrazione.

V Tesi

La lotta poli­tica pro­cede oggi su due livelli distinti ed oppo­sti: il livello palese, che finge di rispet­tare le regole del gioco, privo di effet­tua­lità; e un secondo livello, nasco­sto, che conta al cento per cento, nel quale si assu­mono deci­sioni, si scel­gono i can­di­dati ad ogni carica pub­blica, e si pro­cede nella sele­zione (sulla base di cri­teri di mera fedeltà a chi comanda) dei «som­mersi» e dei «sal­vati». Il livello som­merso è in realtà un potere sol­tanto indi­ret­ta­mente gestito dal ceto poli­tico: è ema­na­zione di poteri forti o for­tis­simi ita­liani o stra­nieri, di lobby, palesi o occulte, alcune delle quali cor­ri­spon­denti a cen­trali criminali.

VI Tesi

Il Par­tito Demo­cra­tico, rap­pre­senta oggi la forza ege­mone della destra ita­liana: una forza irre­cu­pe­ra­bile ad ogni istanza di sini­stra. Il suo capo Mat­teo Renzi costi­tui­sce il mag­gior peri­colo odierno per la demo­cra­zia, o per quel che ne rimane. Ogni suo atto, sia nelle forme, sia nei con­te­nuti, lo dimo­stra, giorno dopo giorno. Il suo cini­smo (quello che lo portò a ordi­nare a 101 peo­nes di non votare per Romano Prodi alle ele­zioni pre­si­den­ziali; lo stesso cini­smo che lo ha por­tato a ordi­nare a 25 con­si­glieri capi­to­lini ad affos­sare Marino e la sua Giunta) è lo stru­mento primo dell’esercizio del potere.
Renzi si è rive­lato un per­fetto seguace dei più agghiac­cianti «con­si­gli al Prin­cipe» di Nic­colò Machiavelli.

VII Tesi

La rea­zione spon­ta­nea, dif­fusa, robu­sta alla defe­ne­stra­zione di Igna­zio Marino dal Cam­pi­do­glio testi­mo­nia dell’esistenza di un’altra Ita­lia: i romani che hanno soste­nuto «Igna­zio», con estrosi slo­gan, nelle scorse gior­nate, al di là dell’affetto o della stima per il loro sin­daco, hanno voluto far com­pren­dere che la can­cel­la­zione della demo­cra­zia trova ancora osta­coli e che esi­stono ita­liani e ita­liane che «non la bevono», che la «que­stione morale» con­serva una pre­senza nell’immaginario dell’Italia pro­fonda (che dun­que non è solo raz­zi­smo e igno­ranza, egoi­smo e paras­si­ti­smo, tutti ele­menti forti nel «pac­chetto Ita­lia»); esi­stono ita­liani e ita­liane pronti a resistere.

Su loro occorre fare affi­da­mento, per costruire prima una bar­ri­cata in difesa della demo­cra­zia, quindi per pas­sare al con­trat­tacco, tra­sfor­mando la spon­ta­neità in orga­niz­za­zione, la folla in massa cosciente, il dis­senso in pro­po­sta poli­tica alter­na­tiva. Che il «caso Marino» costi­tui­sca l’occasione buona per far rina­scere la volontà gene­rale e sol­le­ci­tarla all’azione?

I Il manifesto, 30 ottobre 2015

Il sin­daco Marino ha riti­rato le dimis­sioni. Lo ha fatto, come aveva annun­ciato, entro i venti giorni pre­vi­sti da quel 12 otto­bre quando la scelta di dimet­tersi era arri­vata sull’onda di alcuni espo­sti per la vicenda degli scon­trini fasulli. Ora, final­mente, il Pd, quello romano scre­di­tato dall’inchiesta di mafia-capitale e quello nazio­nale gover­nato dall’uomo solo al comando, è nudo di fronte alla que­stione romana che in sé, per la via “extra­par­la­men­tare” che l’ha con­no­tata, rias­sume la que­stione democratica.

Il ritiro delle dimis­sioni toglie di mezzo alibi e ipo­cri­sie, fa piazza pulita della foglia di fico degli scon­trini usati per gestire, con un com­mis­sa­rio di gra­di­mento ren­ziano, l’importante par­tita del Giu­bi­leo. È peral­tro curioso l’accostamento — da parte del governo — tra la mani­fe­sta­zione cat­to­lica del pel­le­gri­nag­gio reli­gioso con l’Expo, una mani­fe­sta­zione laica misu­rata più che con il sof­fio dello spi­rito santo con i bilanci tra costi e ricavi. Ancora più curioso che un asses­sore del Pd, il tori­nese Espo­sito, sia andato a spie­gare in tv il gran peso avuto, nella vicenda delle dimis­sioni di un sin­daco, dalla “sco­mu­nica” del papa in mis­sione a Fila­del­fia. Come se l’aria di Roma pro­vo­casse repen­tine conversioni.

La scelta di por­tare la crisi romana nell’aula del con­si­glio comu­nale ripu­li­sce un po’ l’aria mefi­tica pro­vo­cata da que­sta brutta com­me­dia gestita dal com­mis­sa­rio Orfini in modo cata­stro­fico, e di certo su man­dato di Renzi. Per­ché è evi­dente che un pre­si­dente del con­si­glio non può “sfi­du­ciare” un sin­daco eletto diret­ta­mente dai cit­ta­dini. Per­ché è chiaro che un segre­ta­rio di par­tito non può deci­dere di col­pire un “suo” sin­daco col­pe­vole di nulla quando si è fatto gran vanto di indos­sare la maglia del poli­tico garan­ti­sta anche verso diri­genti di par­tito e ammi­ni­stra­tori locali inda­gati dalla magi­stra­tura. Oltre­tutto la linea di far dimet­tere i con­si­glieri del Pd potrebbe otte­nere il cla­mo­roso risul­tato, annun­ciato dalle voci della sera, di incas­sare addi­rit­tura la firma di Ale­manno. Un vero capolavoro.

Quali sono allora le colpe poli­ti­che del sin­daco di Roma? Qual è il bilan­cio di que­sti due anni di sin­da­ca­tura? E quando sareb­bero state avvi­state que­ste maga­gne poli­ti­che, se il Pd fino all’anatema papale e fino alla bolla degli scon­trini non ne aveva mai fatto questione?

Come mai, dopo mafia-capitale, Marino era con­si­de­rato un esem­pio di buona ammi­ni­stra­zione, un nemico dei poteri capi­to­lini, un avver­sa­rio delle potenti lobby (dai vigili urbani, alle alte por­pore, ai com­mer­cianti, a certi con­si­gli di ammi­ni­stra­zione…) e ora, invece, è giu­di­cato un inca­pace della peg­gior spe­cie? Le buche nelle strade, la spor­ci­zia, gli auto­bus scas­sati, qui, nella capi­tale, non godono delle atte­nuanti che ven­gono rico­no­sciute alle altre ammi­ni­stra­zioni (man­canza di fondi, poli­ti­che di tagli ai ser­vizi). Anzi abbiamo sen­tito rispol­ve­rare il cli­ché di Milano capi­tale morale — il magi­strato Can­tone ha la memo­ria molto corta — e magni­fi­care la per­for­mance dell’Expo come se né l’una, né l’altra aves­sero rischiato di affon­dare negli scan­dali, nelle rube­rie, nelle atti­vità delle grandi fami­glie mafiose. E meno male che il pre­si­dente della repub­blica man­tiene il dove­roso riserbo, altri­menti il pal­ma­rés del sin­daco mar­ziano avrebbe fatto il pieno.

La situa­zione è grave ma non è seria. Chi ne farà le spese, in un modo o nell’altro, sarà il Pd. Ma a essere col­pita è anche la gestione demo­cra­tica di que­sta vicenda che doveva essere trat­tata alla luce del sole, in Cam­pi­do­glio, non nelle stanze del Naza­reno, non nel modo fazioso di larga parte dei quo­ti­diani nazio­nali (quelli locali hanno fatto una oppo­si­zione “edi­li­zia” dall’inizio della sin­da­ca­tura), non attra­verso infor­ma­zioni pilo­tate e inte­res­sate. Marino non è il migliore dei sin­daci, il mestiere poli­tico non è il suo, si è mosso fidan­dosi soprat­tutto dei “suoi”, del suo cer­chio magico. Ma sicu­ra­mente non è peg­giore di quelli che vogliono far­gli le scarpe.

Fin qui abbiamo assi­stito al primo e secondo atto della tragi-commedia romana. Ora aspet­tiamo il gran finale. Che per più di qual­cuno non sarà indo­lore. E poi si vada alle ele­zioni al più presto.

Corradino Minea è finalmente uscito dalla "sinistra tremula" e ha abbandonato il partito di Renzi. Racconta com'è andata. Molto istruttivo per comprendere l'Italia di oggi. Il manifesto, 29 ottobre 2015, con postilla

Il rap­porto con il gruppo del Pd si era logo­rato. Se rivedo il film degli ultimi mesi, ho votato in dis­senso su jobs act, scuola, Rai, Ita­li­cum e legge costi­tu­zio­nale. Cosa che mi met­teva un po’ in imba­razzo e capi­sco che met­tesse in imba­razzo anche chi aveva appro­vato quelle scelte sba­gliate. Inol­tre la bat­ta­glia nel gruppo aveva perso appeal, aveva minore agi­bi­lità dopo che la mag­gio­ranza della mino­ranza si era messa a lavo­rare Renzi ai fian­chi, per logoralo.

Ma senza con­te­starne la nar­ra­zione che è, secondo me, parte fon­dante della sua poli­tica. Io penso al con­tra­rio che solo una gene­rosa assun­zione di respon­sa­bi­lità poli­tica possa aiu­tare il paese, e quel che resta della sini­stra, a uscire dal cono d’ombra lo sta cac­ciando una poli­tica tanto piro­tec­nica quanto inconsistente.

Sono que­ste le ragioni poli­ti­che delle mie dimis­sioni dal gruppo. Poi c’è la cro­naca, il motore ultimo di una scelta. Quella provo a rac­con­tarla da cro­ni­sta. Mar­tedì 27, Luigi Zanda con­voca i sena­tori in assem­blea, non si sa per discu­tere cosa. Il diret­tore del gruppo mi chiama due volte: «Vieni?», «par­te­cipo a tutte le riu­nioni», «Sta­volta Zanda ti vuole». Capisco.

Si aprono le danze. Il capo­gruppo loda i suoi sena­tori, «siete il soste­gno della legi­sla­tura - dice - e dun­que della Repub­blica». Loda per­sino chi «gli ha fatto male» votando in dis­senso sulla riforma costi­tu­zio­nale, «ma almeno con loro ho par­lato, con la Amati, con Cas­son, ho par­lato con Tocci». Solo Mineo è stato sleale: «Non è venuto nella mia stanza a dirmi che avrebbe votato con­tro. E que­sto (severo!) viola il nostro statuto».

Ma lo sape­vano tutti, l’avevo detto nel gruppo, nei cor­ri­doi, ovun­que. Cosa non ho fatto? Ho omesso di baciare la pan­to­fola del Pre­si­dente. Subito si sca­tena il pro­cesso: durerà due ore e mezzo. Pro­ta­go­ni­sti, nel ruolo della base indi­gnata, sena­tori incra­vat­tati e sena­trici tiratissime.

«Mi ha fatto male vederlo inviare un tweet dopo che il governo era andato sotto sul canone Rai». «Lo hanno applau­dito i gril­lini! (Alzando la voce)». «Rag­giun­giamo un com­pro­messo sul senato, nep­pure siamo con­tenti e lui viene in aula a demo­lirlo!». «Vuole farsi espel­lere per­ché cerca visi­bi­lità». «Un par­tito non è un pol­laio e Renzi ha vinto».

Ci sono stati anche inter­venti di tenore diverso, pochi!. Tocci, sull’assurdità di imporre una disci­plina da cen­tra­li­smo demo­cra­tico nel par­tito in fran­chi­sing di Mat­teo Renzi. For­naro, che ha ricor­dato come la nar­ra­zione ren­ziana demo­nizzi la mino­ranza prima che la mino­ranza parli o pensi. Lo Giu­dice, per il quale la libertà non può valere solo quando con­viene al ver­tice (come per le unioni civili).

Poi Zanda con­clude pro­nun­ciando la parola «incom­pa­ti­bi­lità» (tra me e il suo magni­fico gruppo). E cala l’asso: li avrei defi­niti «servi», in aula, quando avevo obiet­tato alla Finoc­chiaro che Pon­zio Polito non era stato affatto, come ella pre­ten­deva, un poli­tico inca­pace di deci­dere, ma un servo ipo­crita del suo padrone, l’imperatore, che con­di­vi­deva le ragioni del Sine­drio e voleva che si man­dasse a morte Gesù. Se qual­cuno del gruppo si è sen­tito offeso - avevo scritto a suo tempo a Zanda dopo aver subito una con­te­sta­zione in aula ad opera di taluni del Pd - se qual­cuno s’è sen­tito offeso deve avere una gigan­te­sca coda di paglia. Zanda sapeva.

Nel par­tito della nazione con­vive tutto e il con­tra­rio di tutto, ma la nar­ra­zione deve essere una sola, quella del segre­ta­rio pre­mier. Tutto qui. Ora imbian­che­ranno i sepol­cri dicendo che la mia uscita era scritta, che l’assemblea non c’entra, che il par­tito di Renzi non espelle. E que­sto è vero, non espelle, usa la sua mac­china nar­rante per far sì che i dis­si­denti si auto espel­lano, uno alla volta. Civati, Fas­sina, Mineo. E domani, chi? Men­tre gli iscritti e gli elet­tori se ne vanno più nume­rosi. Ma che importa, basta vin­cere anche per un voto, anche se al bal­lot­tag­gio voterà meno della metà degli ita­liani. L’importante è vin­cere, con­tro un avver­sa­rio che si cerca di costruire come perdente.

E ora? Gruppo misto, bat­ta­glia in senato dove la mag­gio­ranza balla e bal­lerà ancora. Lavoro nelle città e con le per­sone, per­ché «c’è vita a sini­stra». A con­di­zione di saper essere uni­tari e gene­rosi. E di rilan­ciare una bat­ta­glia cul­tu­rale, dopo un quarto di secolo di subal­ter­nità alla cul­tura della destra.

postilla

Sempre più spesso si sentono storie che ricordano il processo raccontato dal senatore Mineo. Dalle scuole agli uffici, dalle fabbriche alle giunte comunali chi vuole esprimere un dissenso nei confronti di chi comanda è costretto a tacere; oppure ad andarsene. Il regime feudale instaurato da re Renzi, con la complicità dei cortigiani, dei servi e degli ignavi sta completando il suo progetto. Libero di raccontare ciò che non condivide è soltanto chi ha le spalle coperte: da una ricchezza personale, o da una pensione, o da un laticlavio.

Berlusconi e il berlusconismo hanno trovato, si sa, il lori prolungamento. La penna affilata del tenace critico di Silvio non abbandona la presa e ci ricorda quanto l'ideologa e le pratiche del Caimano vivano ancora nella banda vincente.

La Repubblica, 22 ottobre 2015

La stella berlusconiana, apparsa nel cielo politico d’Italia ventiquattro anni fa, impallidiva da un lustro e forse va dileguandosi ma lascia effetti permanenti. L’ascesa incubava i semi del collasso: un megalomane in abiti e pose da gangster marsigliese, furbissimo, molto temibile ma fortunatamente corto d’intelletto, non diventa d’emblée statista; già la discesa in campo segnalava una coazione morbosa a riempire i palchi; avesse del raziocinio, starebbe tra le quinte; quando anche sappia il da farsi, lo fa per caso, perché in via principale coltiva affari suoi. Ad esempio, ordinandosi à la carte una piccola legge, liquida in 3 o 4 milioni i 300 d’un debito fiscale Mondadori.

L’Italia berlusconiana deperiva a vista d’occhio in gaudioso marasma. Le istantanee d’epoca presentano figure d’atlante antropologico. Vedile in Repubblica, 30 agosto 2011. Da sinistra siedono al tavolo Marcello Dell’Utri, Flavio Carboni, Pasquale Lombardi, Arcangelo Martino, gentiluomini P3: Dell’Utri, ora recluso in espiazione d’una lunga pena, scambia pensieri profondi col crinito leonino Denis Verdini, già macellaio, allora triumviro forzaitaliota e banchiere d’avventura (ivi, 2 settembre); l’ancora più avventuroso Carboni possiede discariche tossiche dalle quali cavare oro muovendo pedine politiche (ivi, 3 settembre). L’arte del corrompere è motore immobile del Brave New World: Berlusco Magnus vi regna; inter alia, ha bandito una crociata contro gl’inquirenti intercettatori, affinché gli affari delicati corrano sicuri nei telefoni.
Tali essendo i virtuosi fondamenti, non stupisce il sèguito. L’Egomane cade, dimissionario, indi sfiora una clamorosa rivincita elettorale, ancora favorito dalla pantomima che riporta al Quirinale Neapolitanus Rex; ma nemmeno i santi possono salvarlo da una condanna irrevocabile (frode fiscale), perciò decade dal Senato nel quale aveva asilo, e sbaglia varie mosse: esigeva la grazia motu Praesidentis (sarebbe gesto irresponsabile); imponeva le dimissioni ai suoi ministri, stavolta disubbedienti; ogni tanto cambia idea e sostiene l’esecutivo. Dovendo scegliersi un successore, designerebbe l’ex sindaco fiorentino, ingordo boy scout rivelato dalla Ruota delle Fortuna su Canale 5, ma non è ancora rassegnato a farsi da parte e rimangia il consenso al governo.
Colpo rischioso: l’opposizione offre poche chances; i gregari marciavano nel deserto; la fedeltà era già incrinata da una secessione. Stava nel probabile che alcuni o molti cambiassero seggio, in cerca d’un futuro meno avaro. Offeso, li marchia felloni. Era forse meno prevedibile che guidasse gl’infedeli lo scudiero Denis Verdini: triumviro eminente, interloquiva nelle questioni capitali, impersonando l’establishment d’Arcore, dove pulpiti, turiboli, boiardi genuflessi governano masse adoranti (intervista al Corriere della Sera, 15 luglio 2010); organicamente devoto, nella triste notte 4-5 novembre 2011 consigliava a Sua Maestà d’eclissarsi (c’erano anche Gianni Letta e Angelino Alfano); lo sapevamo intento a ritessere l’unità del partito.
Dev’essere stato un trauma in casa B. il voto sull’art. 2 del ddl relativo al futuro Senato. Forte gesto politico. In primo luogo conferma quel che sapevamo su Matteo Renzi: i discorsi d’ideologia gli entrano da un’orecchia ed escono dall’altra; dopo il famoso colloquio al Nazareno (santuario Pd) dichiarava «profonda sintonia» col decaduto, cultore d’idee singolari sulla legalità. Stavolta parla scozzese: Verdini non è il mostro di Lochness; porta nove voti al nascente «partito nazionale» e i dissidenti cantano fuori tempo. I valori della sinistra? Dopo il bagno nel postcomunismo dalemiano a stento esisteva come nome vuoto. L’Olonese liquida gl’idoli ma ha punti deboli nella storia privata: colossali interessi gl’imbrogliano i passi in politica; ottant’anni pesano; commette gaffes; perde i carismi e quando appare il sindaco in pose d’ultimo grido, l’agnizione è fulminea. Ecce homo novus.
Non lo sarebbe se conservasse maniere, icone, parole d’ordine, riti. Se n’è disfatto senza scrupoli. Il suo futuro è nel polimorfo schieramento postberlusconiano: forzaitalioti rimasti nella vecchia casa, gli esitanti, precursori «diversamente berlusconiani» e l’appena nata Alleanza liberalpopolare. Verdini, già legato alla famiglia R. ratione loci et negotiorum, è insostituibile alchimista, arruolatore, Gran Visir. Da questo lato Renzi ha poco o niente da temere, mentre sarebbe inquieta la gestione d’un partito nel quale contino qualcosa esponenti della soi-disant sinistra. Il predecessore deve rassegnarsi ed è abbastanza scaltro da capire che rischio corra giostrando solo o male accompagnato.
Lo junior resta in «profonda sintonia », quindi non lesina i corrispettivi: supponendo vacante il Quirinale, gliel’offre senza pensarvi due volte; l’abbiamo visto risoluto e cinico. L’incognita sta negli elettori disgustati, non essendo infallibili i trucchi studiati nell’Italicum. Insomma, s’è premunito, diversamente dal quasi omonimo tribuno romano. Va meno bene all’Italia. Sotto i mirabilia quotidianamente annunciati, il «partito nazionale» ha pesanti contropartite in politica interna: la chiamano moderna democrazia liberale ma i «moderati » consorti esigono una linea lassista, anzi criminofila. Vedi lo scempio dei giudizi: assurdi termini mandano in fumo processi e delitti; la procedura diventa fuga dall’equazione penale. In lingua poetica, abitiamo una «terra desolata» (T.S. Eliot, The Waste Land): sviluppo economico, sensibilità etica, tasso intellettuale presuppongono una società le cui risorse siano equamente divise; in misura patologica qui se le divorano i parassiti. La Corte dei conti lo ripete invano. Lobbies intanate tra governo e parlamento lavorano sotto indecenti eufemismi.

«Lo show multimediale del premier sulla manovra mira a colpire più la fantasia che la ragione. E surclassa Berlusconi.Con Renzi una generazione di creativi è entrata nella stanza dei bottoni Il linguaggio del premier miscela tutto, dagli slogan del ’68 ai titoli di giornale, ai social». La Repubblica, 16 ottobre 2015

Signore e signori, ecco a noi il Renziting: evoluto prodotto di tecnologia del potere che annuncia, istituisce e santifica la compiuta sintesi fra l’arte di governo e il marketing. Per cui la legge di stabilità 2016, da vecchi e illeggibili libroni pieni di astruse cifre, si trasfigura in 25 tweet - «di buone notizie» naturalmente - che a loro volta si riassumono e si replicano in altrettante slide dal linguaggio inconfondibilmente pubblicitario e dai colori smaglianti, rosso, arancione, rosa shocking.
Sotto ogni diapositiva, in avveduto alternarsi di tondi e grassetti, il motto unificante della campagna, lo slogan per far credere, il claim per far vendere, il brand per incoraggiare e fidelizzare l’opinione pubblica – in verità, a quanto pare, sempre più distratta: #italiacolsegnopiù.

In conferenza stampa, nell’illustrare la ex finanziaria, Renzi ha fatto Renzi. Cioè il turbo-banditore del XXI secolo, la più aggiornata versione dell’eterno mercante in fiera. Nello specifico, ieri è apparso lievemente più sorvegliato di quando nel marzo 2014, sempre a Palazzo Chigi, inaugurò la proiezione istituzionale delle slide, in quell’occasione accompagnandola addirittura con un “venghino, siori!”; più simile semmai al Renzi che nel luglio scorso, per meglio sottolineare la necessità di prendere slancio e iniziativa, ha imposto alla direzione del Pd la veduta di alcune diacolor a base di Rocco, Herrera e Guardiola, catenaccio, tiki taka e altre variazioni calcistiche – a riprova, se si vuole, del fatto che le strategie di mercato sono oggi divenute così potenti da innervare e colonizzare ogni ambito della vita sociale.

Poi sì, certo, i provvedimenti sono quelli indicati, magari anche più dei 25 reclamizzati sui quali gli apparati di comunicazione del governo, d’intesa con l’agenzia barese Proforma, hanno stabilito di concentrare l’attenzione. Alcuni paiono innovativi. Alcuni buoni. Alcuni meno buoni. Alcuni, almeno a occhio, sembrano i soliti, quelli di sempre, perciò suonano irritanti, per quanto bene o male camuffati. Alcuni infine saranno anche pessimi e altri pura chiacchiera. Ma non è questo, almeno qui, il punto.La novità è che con Renzi una generazione di creativi è arrivata per così dire al potere; e che almeno nelle sue forme, quella che con qualche pigrizia si continua a definire “politica” ha ceduto la sua autonomia e quindi anche il suo campo alla potenza dei consumi.

Nel complesso, più che ottimistico, il messaggio della televendita vira verso l’euforia, almeno a livello cognitivo e quantitativo. Se si considera che di una lista di 25 “nuovi” provvedimenti, se va bene dopo un’oretta se ne ricordano 5 o 6, l’operazione punta a colpire più la fantasia che la ragione.
Ma ogni singolo pezzo che il fedele Franco, l’omino invisibile cui il premier si rivolge con sbrigativa familiarità, ha ieri proiettato sullo schermo di Palazzo Chigi, ogni singola misura e la loro scansione, i linguaggi, gli aggettivi, i verbi, le varianti cromatiche, i caratteri grafici, la punteggiatura, ecco, a livello di sviluppo tecnico e di energia professionale tutto questo ha mandato definitivamente a ramengo la comunicazione berlusconiana.

Senza farla troppo lunga: il nuovo leader ha stracciato il vecchietto; l’allievo ha superato il maestro; il figlio ha vinto sul padre, o quello che è. Nel merito dei testi, i sentimenti, gli incoraggiamenti, le semplificazioni e le emozioni (“orgoglio”, “ci preoccupiamo”, “insieme”, “finalmente”, “la ferita”, “intrappolate”) hanno il sopravvento. Si notano poi parecchi punti esclamativi. È menzionata – segno dei tempi – la parola “povertà”, anche se la vecchia formula berlusconiana “chi rimane indietro” è stata sostituita – se non è zuppa, è pan bagnato - da “chi arranca”.
A livello espressivo, per quel poco e per quel tanto che trasmettono le 25 schede, il renziting sembra basato su un sincretismo che sembra tenere insieme: il riutilizzo di alcune modalità non solo berlusconiane, ma anche proto-leghiste; la lingua sincopata dei social (con la triste soppressione dell’articolo e delle preposizioni); la titolistica dei giornali, dei siti e delle infografiche dei depliant.

Notevole il riciclaggio di slogan della contestazione (per cui l’antico “lavorare meno, lavorare tutti” diventa, per quanto riguarda la lotta all’evasione “pagare meno, pagare tutti”); e quantomeno curioso il ricorso al futuro ribattezzandolo, che dio perdoni i copy, “il dopo di noi”.

Ma qui, anche senza volerlo, si scivola sull’estetica. Per cui la vera perla sta nella bieca astuzia iper-commerciale della slide numero 31, che recita: “Ancora sgravi per chi assume”, e sotto “Meno di prima però, affrettarsi prego”. Là dove, come sa ogni imbonitore, il fatto che le cose mostrate o promesse non ci siano proprio non ha alcuna importanza rispetto alla loro efficacia. Anzi, il contrario.
«La manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus».

Il manifesto, 15 ottobre 2015

Con la legge di stabilità, il governo Renzi vuole varare un’operazione ambiziosa. Non sottovalutiamola. Da un lato si tratta di una legge dal chiaro sapore elettorale. Una lunga campagna elettorale, la cui prima tappa è costituita dalle amministrative della prossima primavera in quasi tutte le città più importanti del paese. Vere e proprie midterm elections in salsa italiana. Appuntamento dagli esiti non scontati per Renzi, visti i poco soddisfacenti risultati in precedenti elezioni locali. A dimostrazione che la distruzione dei corpi intermedi, asse strategico dell’azione renziana, che comincia dalla liquidazione del suo stesso partito, ha degli effetti collaterali indesiderati, quali la mancanza di una classe dirigente diffusa e fedele.

Dall’altro lato la manovra economica va al di là del puro ritorno elettorale. Vuole consolidare un blocco di potere articolato e allo stesso tempo coeso, di cui il Pd deve essere l’unico rappresentante politico, anzi il dominus.

Nello stesso tempo per Renzi è necessario aggirare i paletti posti da Bruxelles. I censori europei hanno già mostrato i denti a Rajoy. E’ da vedere quindi quale benevolenza otterrà Renzi dai propri padroni e sodali, visto che il suo governo ambisce ad essere niente altro che un’articolazione del sistema di potere delle elite economiche e politiche europee.

Da qui la centralità della cosiddetta riforma fiscale, definita con la consueta modestia una “rivoluzione copernicana”. A quanto riferisce la stessa Repubblica, non certo un organo antigovernativo, i proprietari di 75mila case di lusso e palazzi, ne trarranno ampi benefici, almeno 2800 euro in media a testa. Non importa se a farne le spese sarà la Sanità o altri istituti dello stato sociale. Un tempo misura della nostra civiltà. Diceva il grande Petrolini: quando bisogna prendere i soldi li si cavano ai poveri, ne hanno pochi ma sono tanti. Quindi, se si fa il contrario, ovvero si concedono generosi sgravi fiscali, meglio farlo con i ricchi, perché sono meno e hanno più potere.

Per questo la più grande “riforma fiscale di tutti i tempi”, secondo un’altra sobria definizione del suo autore, va oltre al copia e incolla di quella berlusconiana. Il vecchio leader di Arcore almeno ci metteva un po’ di populismo e parlava di una seconda fase dedicata a l’alleggerimento della pressione fiscale sulle persone fisiche. Invece Renzi prevede che il secondo step deve riguardare le aziende, cioè l’Irap e l’Ires. Il resto viene dopo, se viene. E Squinzi, dopo qualche incomprensione, si riaccende di amore verso il governo. Confortato anche dai propositi del leader di Rignano di intervenire di autorità sullo svuotamento della rappresentanza sindacale e sulla liquidazione del contratto collettivo nazionale, usando come piede di porco l’innocente salario minimo orario legale, ancora da definire.

Qui si scende negli inferi del diabolico. Il taglio dell’Ires verrebbe condizionato al via libera della Ue sulla flessibilità per i costi dell’ondata migratoria. Ovvero i migranti e i profughi, quelli che sopravvivono alla guerra per terra e per mare in atto contro di loro, verrebbero usati come merce di scambio per ridurre le imposte sul reddito d’impresa. Ma un occhio di riguardo bisogna pur tenerlo anche per gli evasori fiscali: non pagano le tasse, ma votano come gli altri. Ecco quindi sbucare l’innalzamento della quota di contante da mille a tremila euro per ogni singolo pagamento, in modo da renderne impossibile la tracciabilità.

Renzi vuole durare. Per farlo, dopo la distruzione sistematica dei corpi intermedi della società civile, deve dare vita a un nuovo blocco di potere con collanti tenaci. Vuole e deve risolvere la dicotomia di cui parlava Niklas Luhmann, su cui forse gioverebbe tornare a riflettere per capire le derive del presente. Quella tra potere e complessità sociale. La seconda viene compressa e strozzata dalle controriforme costituzionali, istituzionali e elettorali in atto (che speriamo di potere smantellare con gli opportuni referendum). Il primo va al di là di quel “mezzo di comunicazione”, di quel “sottosistema” autonomizzato di cui parlava Luhmann nella sua polemica con Habermas. In quanto articolazione di un potere superiore, quello espresso dagli organi a-democratici della Ue, diventa strumento di disarticolazione di ogni potenziale schieramento sociale antagonista e contemporaneamente di inclusione/corruzione di strati e settori sociali utili a puntellare un sistema che non sopporta la dualità sociale attiva. Cioè il conflitto.

Nell'intervista di Antonrello Caporale a Massimo Cacciari il filosofo distilla gocce di saggezza sull'uomo che sta distruggendo l'Italia. La Repubblica, 12 ottobre 2015

Aiuto! Al Pd sono spariti i candidati. Affogati nel ragù renziano, invisibili, declinanti prima ancora di aver tentato il decollo. Il giovanissimo e atletico centrosinistra di Matteo annaspa ovunque in Italia. Non parliamo del centrodestra. Dei cinquestelle vale la regola della tripla al totocalcio: possono fare eleggere una nuova classe dirigente ma anche disperderla nella curva da ultras della rete.

Massimo Cacciari, il Pd governa in un deserto. Ha così tanto potere e così poca gente che nelle città lo sappia gestire.
C'è Renzi e basta. La sua vittoria non si innesta in alcun pensiero forte, tiene il comando in questo presente alla guida di un corteo composto da amici, parenti, affini, qualcuno incontrato per caso in piazza. I ministri, nel senso etimologico della parola, gli portano la minestra. Ha dato alla Boschi, poco più che trentenne, il compito di riformare la Costituzione. E ho detto tutto, sarò misericordioso.
Eppure nel dopo Tangentopoli, quando l'Italia fu svuotata dalla sua classe dirigente e onnipotente, nacque la stagione dei sindaci.
A decine erano, e bravi, efficienti. Dimentica che quella stagione fu promossa da una piccola grande rivoluzione: l'elezione diretta. Quel meccanismo fu una fionda, liberò energie, attrezzò nuove campagne elettorali, stimolò tanta gente a partecipare.
Quando ci siamo dati la zappa sui piedi?
Quando abbiamo ucciso il federalismo che avrebbe dovuto completare la riforma istituzionale. Trasformare le regioni in enti federati ed efficienti, smontare la burocrazia, la rendita parassitaria.
E la Lega di Bossi?
Ma per favore! La Lega è stata la tomba del federalismo. Volevano la secessione e null'altro. Bossi è stato una disgrazia. Adesso non c'è più niente da fare . Adesso si trasforma il Senato invece di abbatterlo, chiuderlo, azzerarlo. Col risultato che tutto sarà uguale a prima.
E manca un partito che sia uno.
Renzi vince perchè rappresenta una novità. C'era Bersani e quel mondo lì, assolutamente indigeribile. Però rischia molto. A Milano lo sa solo Allah come andrà a finire, Roma è tra le macerie, Napoli non pervenuta. Vogliamo parlare di Torino, di quel che c'è a Bologna, di come si è ridotta l'Umbria?
Zero carbonella.
Parliamoci chiaro. Quelli della prima Repubblica saranno stati anche fetenti, ma erano colti, leggevano libri. Ho conosciuto Chiaromonte, Amendola, Moro. Ricordo che con Fanfani si parlava di Max Weber e della scienza amministrativa.
Questi qua hanno avuto la play station.
Non c'è passione, manca la cultura, la competenza. Il premier è autocentrato, ha tanta cura per sé e un corteo che lo segue. Spero vivamente che quel corteo possa trasformarsi in qualcosa di meglio. Ma la vedo dura.
A Napoli è rispuntato Antonio Bassolino.
Qui c'entra la psicologia. Mi spiace per lui, perchè dimostra di essere un tossicodipendente della politica e purtroppo è una condizione che appartiene a molti. Ma il fatto che sia rispuntato denuncia la desolazione, il nulla intorno. Se uno come Renzi deve accomodarsi sulle gambe di Vincenzo De Luca per vincere la Campania...
Il centrodestra invece?
Fin quando avrà tra i piedi Silvio Berlusconi (un altro tossicodipendente della politica) sbatterà il muso contro il muro.
Resta il movimento dei cinque stelle.
Sta assumendo un rilievo meno ambiguo, riesce a portare in televisione gente che è pure capace di raccontare qualcosa. Si avvia a prefigurare per sé funzioni di governo. Ha molte possibilità di fare bene, e molte altre di fare male.
E la velocità di questo nuovo tempo non è una qualità finora vilipesa?
Vero. Ma velocità e talento da soli non bastano. Il talento ha bisogno di una squadra, di una struttura che organizzi e spinga in avanti. Di un altro nome forte, almeno uno, che nasca in periferia.
Lei crede che Renzi sia interessato a promuovere leadership alternative alla sua?
Anzitutto non è detto che debbano essere alternative o concorrenti. E comunque deve correre il rischio. Non sa chi mettere a Roma, chi mettere a Milano. A Torino c'è Chiamparino, uomo dei miei tempi, a Palermo ancora resiste Orlando, a Catania Enzo Bianco. Capisce il baratro che gli sta davanti?

S'era detto che avrebbe liberato energie.
Sì, s'era detto.

Il Fatto quotidiano, 10 ottobre 2015

Il professore Alberto Asor Rosa, icona degli intellettuali di sinistra, è stato il primo a usare la definizione di mutazione geneticanel linguaggio politico. Accadde nella Prima Repubblica, con il Psi di BettinoCraxi. Trent’anni dopo la stessa metafora scientifica accompagna, nellavulgata giornalistica, il Pd renziano nel suo grottesco viaggio verso la destrapeggiore di questo Paese, quella degli ex berlusconiani Denis Verdini eAngelino Alfano, futuri inquilini o alleati del Partito del la nazione.

Professore, che cosa sta diventando il Pd di Renzi?
«Un partito nuovo che non ha più una base di massa,rispon de al comando di un leader in contrastato e ha un gruppo dirigenteconservatore di destra».

È una perfetta definizione accademica, senza fronzoli. Un partito didestra, nemmeno di centro.
«È un dato di fatto che l’attuale vertice del Pd haescluso dal gruppo dirigente ogni erede della tradizione comunista, ma ancheprogressista o riformista. Sono tutti ex democristiani».

Una nuova Dc.
«No, perché ai vecchi democristiani non sarebbe maivenuto in mente di proclamare il Partito della nazione. L’obiettivo del Pdn èl’ulteriore perfezionamento in termini di destra di questa tradizionecentrista, che non ha ritegno a considerare interlocutori Alfano e Verdini».

Risultato: Verdini non è il mostro di Loch Ness (Renzi dixit) ma Marinosì.
«La liquidazione di Marino può essere annoveratatra le molteplici iniziative di Renzi e del renzismo di avere sull’Italia uncontrollo totale. Quando questo controllo non c’è si ricorre all’aggressività».

Marino ci ha messo del suo.
«Il sindaco di Roma non ha rivelato quella tempradi condottiero necessaria, ma non ho dubbi che abbia prevalso, contro di lui,una spinta eversiva e catastrofica proveniente da tante parti».

Com’è possibile che il Partito di Loch Ness nasca a sinistra, anziché adestra?
«La risposta è facile. Per metterein moto questo processo occorreva che la forza trainante fosse una parvenza disinistra dietro cui nascondersi, altrimenti ci sarebbe stato un coro disghignazzamenti, se non di manifestazioni di piazza».

Quindi il berlusconismo è stato meno pericoloso del renzismo.
«Sì, “Silviuccio” non era in grado di elaborareculturalmente una simile invenzione. E politicamente la piazza glielo avrebbeimpedito».

A Renzi no, invece.
«Può fare quello che sta facendo perché il Pd èmutato nelle sue radici e la mutazione genetica ha investito anche i suoielettori. Non dimentichiamo che lui arriva dopo una sequela pluridecennale difallimenti del centrosinistra e la gente ha pensato: “Almeno questo faqualcosa”».

Il fatidico 40 per cento alle Europee.
«Renzi ha un consenso vasto anche se il puntoculminante del suo successo è già alle nostre spalle».

All’orizzonte c’è però l’autoritarismo della nuova Costituzione.
«Qualsiasi atto del presidente del Consiglio miraal restringimento della democrazia, in termini di spazi e di base del consenso.Contano solo i vertici del potere, dalle rappresentanze politiche al presi de-managerdella scuola. Per renzismo, intendo questo».

Combattere il renzismo dall’interno del Pd non sembra possibile.
Sulla minoranza del Pd, in questi giorni, mi sonovenute in mente solo due parole».

Quali?
«Ridicola e penosa. Ridicola perché ha fatto riderela battaglia su alcuni particolari della riforma Boschi. Penosa perché ilrisultato ha dimostrato che la minoranza non conta nulla. Poi ha superatoanche il limite etico-politico perché non si è vergognata di votare con Verdini».

Fuori dal Pd c’è un deserto a sinistra?
Deserto mi pare eccessivo. Ci sono tanti pezzettisparsi ma non c’è nessuno in grado di convogliare queste forze verso la stessadirezione.

Un effetto collaterale della mutazione genetica?
«Dalla crisi dei grandi partiti di massa natidall’antifascismo e dalla Resistenza non c’è stata nessuna vera scintilla».

Come si qualifica una mutazione?
«Quando cambiano natura, vocazione e cultura».

Nel Pd renziano?
«Si parte dall’idea che i conflitti sociali sianodannosi per cui i sindacati diventano il nemici. Così la cultura della nazioneimpone una ratio comune che è quella del grande capitale e della grandefinanza. Il terzo punto è il restringimento della democrazia. Il Partito dellanazione, sviluppato sino in fondo, comprenderà anche Berlusconi e iberlusconiani, non solo Verdini e Alfano» .
«“L’Italia capisce bene l’esigenza di investire in personale umano e in capacità che sono richieste per mantenere la nostra difesa comune al fianco degli alleati Nato”. Sul piatto c’è altro. La Siria, dal punto di vista degli Usa. E da quello italiano soprattutto la Libia». Il Fatto Quotidiano, 8 ottobre 2015 (m.p.r.)

«Non c’è ancora un orientamento preso dal governo», ma l’Italia ha già deciso «con i nostri alleati di contrastare con forza il Daesh». Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, chiarisce così, durante una conferenza stampa con il capo del Pentagono, Ash Carter, a che punto è la questione bombardamento in Iraq. La decisione formalmente non è presa, e il governo assicura che ci sarà un voto del Parlamento, ma Matteo Renzi un impegno di massima con l’alleato americano l’ha preso a New York, durante l’Assemblea generale dell’Onu. Un’offerta di “sostegno risoluto”, che gli Usa hanno accolto con favore, ma non hanno particolarmente sollecitato.

Perché poi, si parla di armare 4 Tornado, che nell’ambito di un’operazione come quella in Iraq sono abbastanza irrilevanti. E dunque, a Obama interessa fino a un certo punto questo cambio della natura della missione italiana, ma di certo lo gradisce. E a Renzi costa tutto sommato poco, ma può usarlo per accreditarsi con gli Usa. Tanto è vero che Carter, arrivato in Italia l’altro ieri per un viaggio deciso da tempo (ieri è stato ricevuto dal presidente della Repubblica, Mattarella e poi ha avuto due ore di faccia a faccia con la Pinotti) non ha chiesto formalmente il cambio delle regole di ingaggio dei nostri militari. E pubblicamente si è limitato a dire: «L’Italia capisce bene l’esigenza di investire in personale umano e in capacità che sono richieste per mantenere la nostra difesa comune al fianco degli alleati Nato».
Sul piatto c’è altro. La Siria, dal punto di vista degli Usa. E da quello italiano soprattutto la Libia, dove il premier rivendica da mesi un ruolo centrale. Al Colle, l’Iraq non è proprio entrato nei radar. Ma Carter ha detto che gli Usa sarebbero disponibili a riconoscere all’Italia un ruolo di punta in Libia, per la stabilizzazione del paese. E poi, ha insistito a lungo sulla Siria, criticando la strategia russa: «Continuano a colpire obiettivi che non sono l’Isis». La critica a Mosca ha un particolare significato in Italia, visto che Renzi ci ha tenuto in questi mesi a tenere un rapporto con Putin ed è stato il primo a chiarire che l’Italia non avrebbe attaccato in Siria.
Alla luce di tutto questo si capiscono meglio le motivazioni della posizione sull’Iraq: con il «sostegno risoluto» offerto da Renzi durante il “summit contro il terrorismo” indetto e presieduto da Obama, il 29 settembre, a New York. Contro l’Isis, c’è in campo «la più grande coalizione mai vista. Offro al presidente Obama tutto il sostegno dell’Italia sul fronte dell’azione antiterrorismo»: sono parole che già contengono in nuce un salto di qualità nella presenza dell’Italia in Iraq. Anche a New York Renzi ha insistito sulla Libia. Prospettando dalla tribuna dell’Onu, una leadership italiana per una missione che non c’è (e prevedibilmente non ci sarà).
Però, in Libia, una volta arrivati a un governo di unità nazionale si tratterà di fare ancora non ben definite operazioni di stabilizzazione. Dove l’Italia rivendica un ruolo. Da notare che a sostituire Bernardino Leon, come inviato Onu, sarà il tedesco, Martin Kobler. E nell’ultimo vertice trilaterale a Parigi, con cena annessa, tra i ministri degli Esteri di Francia, Germania e Gran Bretagna, l’Italia è stata esclusa. E dunque, si tratta comunque di un posto, caso mai, di coordinamento. La Pinotti ieri ha negato in conferenza stampa che ci siano correlazioni tra Libia e Iraq. Ma tutte le fonti, da Palazzo Chigi in giù, insistono sul fatto che l’ “Italia si muove con la coalizione, all’interno di una strategia politica complessiva”.
Sui tornado, dunque, Renzi aspetta di vedere come reagisce l’opinione pubblica. Anche perché lo stesso Mattarella è piuttosto freddo. Il punto è che il premier di certo avrebbe voluto “governare” la notizia: invece in realtà l’accelerazione data con lo scoop del Corriere lo ha messo in difficoltà, anche nella prospettiva di far passare un ’operazione militare agli occhi degli italiani. A dare l’impulso sono stati i militari. Che vogliono un ruolo più forte nella missione, ma soprattutto evitare i tagli alle spese annunciati dal ministro dell’Economia, Padoan nella legge di stabilità. Peraltro, per martedì sera era prevista in Commissione una discussione sul Libro Bianco della difesa. Altri tagli di cui non si è discusso, vista l’attualità. Intanto, ieri Carter nel colloquio al Colle ha mostrato grande considerazione nei confronti del Presidente. E ha trattato l’Itali a come un partner decisamente affidabile. Ma Renzi sa che per accreditarsi davvero deve essere pronto a bombardare appena arriva la richiesta formale degli Usa.

Sindacati e sovrintendenze, burocrazia e Senato, Presidente del Senato e lavoratori: solo bersagli dell'arroganza del Monarca. Ma «Le ultime villanie del premier dicono qualcosa di nuovo su noi tutti: che ci stiamo assuefacendo a una volgarità e una violenza che dovrebbero destare allarme e forse scandalizzare». Il manifesto, 27 settembre 2015

Ne ha dette, ne dice gior­nal­mente tante e tali che non ci si dovrebbe più far caso. Ma una delle ultime ester­na­zioni del pre­si­dente del Con­si­glio urta i nervi in modo par­ti­co­lare, sì che si stenta a dimen­ti­car­sene. «I sin­da­cati deb­bono capire che la musica è cam­biata», ha sen­ten­ziato con rara ele­ganza a mar­gine dello «scan­dalo» dell’assemblea dei custodi del Colos­seo. Non sem­bra che la dichia­ra­zione abbia susci­tato rea­zioni, e que­sto è di per sé molto signi­fi­ca­tivo. Eppure essa appare per diverse ragioni sin­to­ma­tica, oltre che irricevibile.

In effetti la roz­zezza dell’attacco non è una novità. Come non lo è il fatto che il governo opti deci­sa­mente per la parte dato­riale, degra­dando i lavo­ra­tori a fan­nul­loni e i sin­da­cati a gra­vame paras­si­ta­rio che si prov­ve­derà final­mente a ridi­men­sio­nare. È una cifra di que­sto governo un that­che­ri­smo ple­beo che liscia il pelo agli umori più retrivi di cui tra­bocca la società scom­po­sta dalla crisi. Sem­pre dac­capo il «capo del governo» si ripro­pone come ven­di­ca­tore delle buone ragioni, che guarda caso non sono mai quelle di chi lavora. E si rivolge, com­plice la gran­cassa media­tica, a una pla­tea indi­stinta al cui cospetto agi­tare ogni volta il nuovo capro espiatorio.

Sin qui nulla di nuovo dun­que. Nuova è invece, in parte, l’ennesima caduta espres­siva. Un les­sico che si fa sem­pre più greve, pros­simo allo squa­dri­smo ver­bale di un novello Fari­nacci. Così ci si esprime, forse, al Bar Sport quando si è alzato troppo il gomito. Se si guida il governo di una demo­cra­zia costi­tu­zio­nale non ci si dovrebbe lasciare andare al man­ga­nello.

«La musica è cam­biata», «tiro dritto» e «me ne frego». Senza dimen­ti­care i benea­mati «gufi». Quest’uomo fu qual­che mese fa liqui­dato come un cafon­cello dal diret­tore del più palu­dato quo­ti­diano ita­liano. Quest’ultimo dovette poi pron­ta­mente slog­giare dal suo uffi­cio, a dimo­stra­zione che il per­so­nag­gio non è uno sprov­ve­duto. Sin qui gli scon­tri deci­sivi li ha vinti, e non sarebbe super­fluo capire sino in fondo per­ché. Ma la cafo­ne­ria resta tutta. E si accom­pa­gna alla scelta con­sa­pe­vole di sele­zio­nare un udi­to­rio di faci­no­rosi, di fru­strati, di sma­niosi di vin­cere con qual­siasi mezzo — magari ven­den­dosi e sven­den­dosi nelle aule parlamentari. Secondo un’idea della società che cele­bra gli spi­riti ani­mali e ripu­dia i vin­coli arcaici della giu­sti­zia, dell’equità, della soli­da­rietà.

Di fatto il tono si fa sem­pre più arro­gante, auto­ri­ta­rio, duce­sco. Gli altri deb­bono, lui decide. Ne sa qual­cosa il pre­si­dente del Senato, trat­tato in que­sti giorni come quan­tità tra­scu­ra­bile. E qual­cosa dovrebbe saperne anche il pre­si­dente della Repub­blica, che evi­den­te­mente ha altro a cui pen­sare, visto che non ha fatto una piega - un silen­zio fra­go­roso - quando Renzi ha minac­ciato di chiu­dere il Senato e tra­sfor­marne la sede in un museo - per for­tuna non più in «un bivacco di mani­poli». E forse pro­prio qui sta il punto, ciò che non per­mette di libe­rarsi di que­sto fasti­dioso rumore di fondo.
Que­sta enne­sima vil­la­nia non aggiunge gran­ché a quanto sape­vamo già dell’inquilino di palazzo Chigi, del suo pro­filo, del suo, diciamo, stile. Dice invece qual­cosa di nuovo e d’importante su noi tutti, che ci stiamo assue­fa­cendo, che ci disin­te­res­siamo, che regi­striamo e accet­tiamo come nor­male ammi­ni­stra­zione una vol­ga­rità e una vio­lenza che dovreb­bero destare allarme e forse scan­da­liz­zare. Tanto più che non si tratta, almeno for­mal­mente, del capo di una destra nerboruta.

Nes­suno ha pro­te­stato, nes­suno ha rea­gito: men che meno, ovvia­mente, gli espo­nenti della «sini­stra interna» del Pd, in teo­ria attenti alla qua­lità della nostra demo­cra­zia e alle ragioni e alla dignità del mondo del lavoro. Que­ste parole sono sci­vo­late come acqua sul marmo, segno che le si è assunte come del tutto nor­mali, cose giu­ste dette al momento giu­sto. In effetti da un certo punto di vista indub­bia­mente lo sono. Quest’ultima aggres­sione si armo­nizza appieno con la «musica» che que­sto governo suona da quando si è inse­diato. Ma la forma è sostanza, soprat­tutto in poli­tica. E il sovrap­più di aggres­si­vità e di vol­ga­rità che la con­trad­di­stin­gue stu­pi­sce non sia stato nem­meno rilevato.

Evi­den­te­mente ci va bene essere gover­nati da uno che - al netto delle sue scelte, sem­pre a favore di chi ha e può più degli altri - non sa aprir bocca senza minac­ciare insul­tare sfot­tere ridi­co­liz­zare. Ci va bene la tra­co­tanza, ci piace la sup­po­nenza, ci seduce l’arroganza. Apprez­ziamo la vio­lenza che scam­biamo per forza e per auto­re­vo­lezza. Dovremmo riflet­terci un po’ su. Dovremmo fare più atten­zione alle parole dette e ascol­tate, avere mag­giore rispetto per noi stessi. E chie­derci final­mente che cosa siamo diven­tati e rischiamo di diven­tare segui­tando di que­sto passo.
L'intervento in aula di un senatore che conosciamo e stimiamo. Siamo certi che è tra quelli che non voteranno l'orrida proposta di cui illustra l'intima nefandezze e la pesante lesione delle regole della convivenza democratica, e quindi contribuirà a bocciarla. Ma ci domandiamo ancora una volta come faccia a rimanere in quel partito

Quando gli storici di diritto costituzionale studieranno questa revisione della Carta, noteranno un'anomalia che noi non possiamo oppure non vogliamo vedere. Con i voti di un premio di maggioranza viziato da illegittimità si riscrive quasi tutta la seconda parte. La famosa sentenza della Corte raccomandava di approvare subito la legge elettorale per andare a votare al più presto, ma non chiedeva di riscrivere la Carta. Lo fa la classe politica proprio per evitare le elezioni. So di dire una cosa che suona sgradevole e mi viene quasi di scusarmi con voi. È come se ci fosse un inconsapevole accordo a non parlarne qui. Che la dice lunga sullo straniamento di questo dibattito.

Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l'approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l'Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.

Si affidano le sorti del paese all'arbitrio di una minoranza che diventa maggioranza per i rinforzi artificiali del premierato invece che per i consensi liberamente espressi dai cittadini. Si crea un governo maggioritario in una democrazia minoritaria, segnata sempre più da una disaffezione elettorale che allontana dalle urne ormai quasi la metà della popolazione.

I giuristi sono soliti fare la prova di resistenza delle leggi, cioè di valutarne gli esiti nello scenario peggiore. Proviamo anche noi. Un leader che raccoglie meno di un terzo dei consensi conquista il banco, è in grado di governare da solo - e fin qui si può accettare - ma può anche modificare le regole fondamentali con spirito di parte senza essere costretto a discuterne con tutti. Può decidere da solo sui diritti fondamentali di libertà, sull'indipendenza della Magistratura, sulle regole dell'informazione, sui principi dell'etica pubblica, sulla dichiarazione di guerra, sulle prerogative del ceto politico, e infine riscrivere le leggi elettorali e perfino ulteriori revisioni costituzionali al fine di prolungare sine die la vittoria che lo ho portato al potere.

Per tutto ciò il premier dispone di una maggioranza ubbidiente di parlamentari che ha scelto personalmente come capilista. D'altro canto, con l'Italicum i tre quarti dei parlamentari, sempre nel worst case scenario, sono sottratti al controllo degli elettori, non solo al momento del voto ma durante il mandato. Al contrario il premier riceve un'investitura diretta, seppure minoritaria, nel ballottaggio. Si crea così un forte squilibrio di legittimazione tra il capo del governo e l'assemblea, che si traduce in supremazia del potere esecutivo sopra il legislativo e indirettamente anche sull'ordinamento giudiziario.

I tre poteri fondamentali di una democrazia sono decisamente fuori equilibrio, e il principale fattore di questo squilibrio è il numero dei deputati. La Camera - unica depositaria del voto di fiducia - è sei volte più grande del Senato. Di fatto è un monocameralismo. Niente di male in linea di principio, lo proponeva con ardore anche il mio caro maestro, il presidente Pietro Ingrao, e tanti altri nella Prima Repubblica, ma tutti lo compensavano con legge elettorale proporzionale. Nessuno lo avrebbe mai accettato con una legge ipermaggioritaria. Eppure, eliminare lo squilibrio numerico sarebbe facile e doveroso. In nessun paese europeo si arriva a 630 deputati. E la proposta iniziale del governo faceva della riduzione dei parlamentari la priorità della revisione costituzionale. Perché allora non si riduce il numero dei deputati? Perché si cambia tutto tranne il numero della Camera? Da più di un anno questa domanda rimane senza risposta. Mi rivolgo in extremis alla ministra Boschi: abbia almeno la cortesia istituzionale di dare in quest'aula una spiegazione seria e convincente.

Il risultato è un Senato senza funzioni e senza autorevolezza. Anzi un vero pasticcio: da un lato un eccesso di potere costituzionale, improprio per un'assemblea composta anche da figure amministrative, e dall'altro la mancanza di poteri ordinamentali e soprattutto di penetranti controlli - inchieste, audizioni dei dirigenti, analisi dei risultati ecc. - che andrebbero a pennello per il ramo sprovvisto della fiducia e quindi più libero dal condizionamento di governo. Che senso ha mantenere in vita una gloriosa istituzione svuotata di prestigio? Meglio allora eliminarla del tutto. Non c'è niente di peggio di un'assemblea senza poteri, con il rischio che li ottenga tramite il consociativismo col governo, degradando ulteriormente la trasparenza e l'efficienza del sistema.

Non rinnego il Senato elettivo a base proporzionale che ho sostenuto insieme ad altri. Rimango convinto che avrebbe rinsaldato il rapporto tra eletti ed elettori, oggi essenziale per ricostituire la fiducia nelle istituzioni. Avrebbe ricordato al premier - che è assoluto nei poteri ma carente nei consensi - quali siano gli orientamenti popolari profondi. La presidente Finocchiaro lo considera un freno inaccettabile, ma sarebbe un importante contrappeso. In questo senso abbiamo parlato di un Senato di garanzia, per i poteri e per il mandato elettorale diretto.

Ma non mi innamoro delle proposte. In teoria la garanzia si può ottenere anche in una sola camera, magari eletta con i collegi uninominali, ricorrendo a voti qualificati, superiori al premio di maggioranza, nella legislazione dei diritti fondamentali. E i costituzionalisti sarebbero in grado di suggerire tanti altri modi di compensazione. È dirimente l'equilibrio generale, non la singola proposta, neppure quella a me cara del Senato elettivo. La legislazione costituzionale non è altro che produzione di sistema. La qualità di una legge costituzionale si misura nell'effetto di sistema. Qui la misura è negativa sotto i punti di vista; anche la mediazione che si affaccia sulla quasi elezione dei senatori, un passo avanti certamente positivo, non è in grado di modificare l'impianto, non riduce lo squilibrio del premierato assoluto. Non cancella la mia valutazione negativa.

Si è persa anche l'occasione della riforma del bicameralismo. Perché si è raccontato un falso all'opinione pubblica da almeno trent'anni. Le famose navette che vanno da una camera all'altra riguardano solo il 3% delle proposte di legge, per lo più a causa di testi scritti male dal governo. Non è vero che ci sia un problema di velocità del procedimento legislativo, anzi è vero esattamente il contrario: è troppo facile, c’è una bulimia delle leggi, se ne scrive una nuova prima che la precedente sia applicata. Lo sanno bene i cittadini, le amministrazioni e le imprese ormai sommersi da un'alluvione normativa che soffoca la vita quotidiana. Il nuovo bicameralismo dovrebbe aumentare la qualità e non la velocità, per produrre poche leggi organiche, brevi e leggibili anche per i cittadini.

A tale compito dovrebbe dedicarsi un nuovo Senato di alta legislazione, per curare i grandi Codici, lasciando alla Camera la responsabilità di attuare il programma di governo entro una cornice solida ed efficace. Questa è la riforma mancata del bicameralismo. Non si è potuto neppure discuterne perché c'è il feticcio del Senato federale. Era una grande idea, certo dell'Ulivo e di altri. Molti di noi hanno speso le migliori energie giovanili per una Repubblica federale. Ma si è rivelato un disegno disastroso, le regioni oggi sono al punto più basso di credibilità come dimostra la bassa partecipazione alle ultime elezioni; nel frattempo gli squilibri territoriali, a cominciare da quello Nord-Sud, si sono aggravati.

Si doveva fare un bilancio serio del fallimento del federalismo in sede parlamentare. Il governo lo ha fatto da solo, togliendo poteri alle regioni e compensando il ceto politico con il pennacchio del Senato. Il risultato è deprimente. Non abbiamo più il vecchio regionalismo, non abbiamo più il federalismo, rimane solo un rapporto confuso che diventerà ancora più litigioso con le funzioni ripartite secondo una doppia competenza esclusiva, che - lo dice la logica - è difficile da mediare. Bisogna invece ridurre il numero delle regioni, come propongo con un emendamento. Una decina di macroregioni potrebbero trovare un rapporto più costruttivo con lo Stato, rendendo più compatto il sistema paese nella competizione internazionale.

Sulla base di queste considerazioni di sistema, e non solo per il Senato elettivo, lo scorso anno ho espresso il mio disagio, insieme ad altri, non partecipando al voto, sperando che nei passaggi successivi si potesse migliorare. L'equilibrio, a mio avviso, è peggiorato, il debole passo avanti sul senato elettivo è vanificato dall'approvazione dell'Italicum e dal diniego della riduzione del numero dei deputati. Alla seconda lettura siamo chiamati a una valutazione definitiva, per questo il mio voto sarà contrario, non essendoci sulla materia costituzionale un vincolo di partito.

Sento già il ritornello - “allora vuoi far cadere il governo?” È la domanda più stupida che si legge sui giornali. È una strabiliante inversione tra causa ed effetto. È inaudito che il governo ponga in sede politica una sorta di fiducia sul cambiamento della Costituzione. Non è mai accaduto nella storia della Repubblica. Il fatto che oggi venga considerato normale, che si dia quasi per scontato, che venga messo all'indice chi si sottrae, è la conferma che il dibattito pubblico italiano è malato, che già nell'agenda di discussione, prima ancora che nelle soluzioni, si vede un pericoloso sbandamento dei principi e di valori.

Si è costruita artificiosamente un'emergenza costituzionale per conferire una legittimazione politica a un governo sprovvisto di un diretto mandato degli elettori. È l'ennesima anomalia italiana. In un paese normale il governo non si occupa della Costituzione. In un paese normale l'esecutivo governa secondo un programma presentato agli elettori. Si può derogare a queste semplici regole in situazioni straordinarie e per breve tempo. Da noi lo stato d'eccezione durerà per quasi tutto questo decennio.

Non si può dare la colpa solo agli ultimi venuti. Da venti anni si cambia la Costituzione per contingenti finalità politiche; prima il centrosinistra col titolo V per inseguire la Lega, poi Berlusconi nel 2005 per sigillare la sua maggioranza, poi lo ius sanguinis del voto all'estero per legittimare Fini e poi i tentativi di Tremonti di salvarsi modificando l'articolo 41. Tutte riforme costituzionali fallite, perché sbagliato era il metodo. Ma già negli anni ottanta, da quando persero la capacità di governo, i partiti hanno preso il vezzo di dire che non era colpa loro ma della Costituzione. Per non affrontare la crisi della politica hanno aperto la crisi delle istituzioni. Hanno cominciato a sfogliare l'atlante del modello francese, inglese, tedesco, spagnolo e americano.

Il perfettismo istituzionale è un sintomo della malattia della politica. Le Costituzioni sane sono imperfette perché prodotte dalla storia. Il modello decisionale americano è pazzesco, non prevede neppure il decreto legge, eppure ha gestito un impero. Le imperfezioni sono compensate dalla volontà politica, che è come il coraggio di don Abbondio, chi non ce l'ha non se la può dare. Da trent'anni la classe politica italiana invece di governare si consola con l'orsacchiotto di pezza delle riforme istituzionali.

Quando il presidente Renzi si vanta di fare le cose in programma da venti anni, non si accorge di parlare da conservatore. È il paradosso dei rottamatori che applicano l'agenda dei rottamati. Ripetono l'errore più grave, quello di servirsi della revisione costituzionale per finalità politiche contingenti.

La Carta sarebbe da cambiare in tante cose - non sono tra coloro che ne fanno un altare. Ma ci vuole umiltà. Cambiare la Costituzione significa servirla, non servirsene. La mia generazione non è stata all’altezza del compito. La notizia triste è che neppure la generazione dopo di noi se ne mostra capace. Forse devono ancora nascere i riformatori di domani in grado di migliorare il capolavoro ricevuto in eredità.

Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2015 (m.p.r.)

Si scrive riforma, si legge pasticcio. E quella mediazione che è l’ossessione del Pd potrebbe anche peggiorarlo. Ufficialmente e renzianamente, la riforma del Senato è la via per arrivare a una democrazia efficiente, nella quale «il procedimento legislativo sarà più snello ed efficace» (Maria Elena Boschi dixit). Fuor di propaganda, è un ginepraio contraddittorio, da cui potrebbe scaturire una seconda Camera che conterà poco o nulla. Soprattutto, composta di nominati. «Questa riforma è un capolavoro di dilettantismo», scandisce l’amministrativista Gianluigi Pellegrino.

Ma quale elettività: articoli che sbattono
Il cuore della riforma è l’articolo 2 del disegno di legge costituzionale, e in particolare il secondo comma, approvato in doppia lettura conforme (senza modifiche) nelle due Camere: “I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori”. Renzi ha blindato il comma in base al regolamento di Palazzo Madama, secondo cui non si possono cambiare le norme già approvate in entrambi i rami del Parlamento. La possibile mediazione tra il premier e la minoranza del Pd, che invoca un Senato elettivo, sarebbe un nuovo comma 5. Ossia una norma in base a cui i cittadini sceglieranno i consiglieri regionali da inviare a Palazzo Madama tramite un listino. I Consigli di ogni singola Regione dovrebbero poi ratificare le nomine.
Ma Pellegrino stronca questa soluzione: «Il comma 2 prevede che i Consigli regionali eleggano i senatori con metodo proporzionale, ossia dando maggiore spazio ai gruppi politici più folti in Regione. Bene, secondo il nuovo comma 5, i cittadini dovrebbero votare i senatori con un listino. Ma come faranno a sapere quale sarà la composizione dei futuri gruppi in Consiglio, che dipende dall’esito del voto? È evidente che sulla volontà popolare prevarrà il criterio proporzionale, e quindi molti voti di preferenza saranno inutili». Come se ne esce? «Renzi non vuole toccare il comma 2, per non far ripartire da capo l’iter del testo. Ma se si punta a un sistema coerente la norma va modificata. Se il testo verrà approvato così, i senatori saranno dei nominati. E il comma 5 sarà superfluo».
Una transizione troppo scivolosa
Le contraddizioni proseguono: «Se si vuole davvero dare la parola ai cittadini va cambiato anche l’articolo 38 del ddl, già approvato in doppia lettura conforme, che è una norma transitoria (ossia colma il vuoto nel passaggio da una normativa all’altra, ndr). e che stabilisce la composizione del primo, nuovo Senato. Prevede che, finché non verranno eletti i nuovi Consigli regionali, ogni consigliere potrà scegliere i senatori ‘votando per una sola lista di candidati, formata da consiglieri e sindaci dei rispettivi territori’. Ma come combacia questa norma con la volontà popolare? Tanto più che c’è un rischio: perché entrino in vigore le nuove norme sull’elezione del Senato, bisognerà attendere una legge di attuazione. Poniamo che non si accordino sul testo: rischiamo di ritrovarci per anni con Palazzo Madama eletto solo dai consiglieri regionali».
Il ruolo di Grasso e quel precedente
Obiezione: il regolamento del Senato esclude cambiamenti per norme approvate in doppia lettura. Ma il legale replica: «Il regolamento afferma che si può intervenire sulle norme cambiate e su quelle a esse connesse. E allora, dato che Montecitorio ha notevolmente ridotto le funzioni del Senato, è ovvio che debbano cambiare anche gli articoli sulla composizione. Competenze e composizione vanno assieme». Non solo: «C’è il precedente del 1993, quando l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano ammise gli emendamenti sul nuovo articolo 68 della Carta. Come spiegò la Giunta per il regolamento, ciò era giustificato ‘dall’atipicità della revisione costituzionale». Quindi, il presidente del Senato Grasso dovrebbe ammettere tutti gli emendamenti all’articolo 2? «Certamente. Sarebbe inaudito se ne impedisse la discussione”. Infine: “Se si prevede che siano comunque i Consigli regionali a designare i senatori, sia pure su indicazione dei cittadini, si lascia spazio a un potenziale sovvertimento del voto”.

Il manifesto, 20 settembre 2015

Fanfare e rulli di tamburo annunciano la possibile intesa nel Partito democratico. Ma è vera gloria? L’intesa in sé riguarda segmenti di ceto politico e forse la sorte del governo. Questioni importanti, certo. Ma quel che conta è la qualità dell’intesa, il suo contenuto e l’effetto ultimo sulle istituzioni e sul paese.

Da questo punto di vista i troppo buoni direbbero che la montagna ha partorito il topolino, i pacati e gli equanimi che siamo di fronte a una truffa volgare.

A quel che si trae da notizie di stampa, l’accordo prevede che la durata del mandato dei senatori coincida con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, su indicazione degli elettori in base alle leggi elettorali regionali. Quanto alla coincidenza del mandato senatoriale con la durata di organi territoriali regionali o locali, nulla quaestio. È un principio che potrebbe essere reso compatibile anche con l’elezione popolare diretta dei senatori. I problemi vengono dopo.

Si rileva infatti che i senatori sono eletti dagli «organi delle istituzioni territoriali». Dunque, non dai cittadini nell’ambito territoriale di riferimento. Con questo si ribadisce il no all’elezione popolare diretta dei senatori, e si affida al consiglio regionale il potere di scegliere i rappresentanti in senato. Una conferma si trae dal fatto che agli elettori si attribuisce «l’indicazione». E, secondo il dizionario, con tale termine si intende una designazione, una proposta, una segnalazione, un suggerimento, non una decisione e tanto meno una scelta. I cittadini «indicano», il consiglio regionale «elegge». Una bella prova di democrazia mettere il popolo sovrano in una posizione di indiscutibile subalternità.

Si aggiunga che il tutto è rinviato alla disciplina posta con legge regionale, senza alcuna indicazione di principi di legge statale o comunque limiti da osservare. Tanto che sarebbe del tutto possibile una legge per cui il consiglio regionale scelga i senatori in una rosa più ampia formata dai candidati alla carica di consigliere regionale più votati, giungendo in concreto all’elezione dei senatori da parte dei consigli regionali al proprio interno, senza che la volontà espressa dal voto popolare sia in ultimo decisiva. Volendo evitare questo, e concedere al popolo sovrano di scegliere i propri rappresentanti, sarebbe quanto meno necessario prevedere in Costituzione un listino votato separatamente e la incompatibilità tra le cariche di consigliere regionale e senatore.

Per questo, siamo alla truffa volgare. Chi legge nel testo il ripristino della elezione popolare diretta dei senatori mente sapendo di mentire. L’essenza del senato voluto da Renzi non è toccata, e rimangono tutte le censure già argomentate su queste pagine. Ne gioirà Moody’s, che plaude alla riforma (e potremo ricordare che aveva già applaudito all’Italicum, e criticato la sentenza della Corte costituzionale sulle pensioni). E abbiamo dimenticato J.P. Morgan, che già nel 2013 sollecitava ad abbandonare le costituzioni antifasciste del dopoguerra, inquinate da elementi di socialismo? I poteri forti della finanza internazionale non si curano della salute democratica del paese. Ma il governo della Repubblica dovrebbe.

Per le riforme eterodirette della Costituzione abbiamo già dato, con l’art. 81 e il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio. Ma qui vediamo una vicenda di piccole miserie. Può solo interessare che, se la proposta si tradurrà in un emendamento all’art. 2, questo potrà aprire la via anche ad altri emendamenti e a nuovi scenari di confronto parlamentare. Non è infatti pensabile che la modificabilità dell’art. 2 venga limitata al solo emendamento risultante dall’accordo interno Pd.

Capiamo, ma non apprezziamo, le ambasce della minoranza Pd. Se si piega ha fatto molto rumore per nulla. La mediazione rimane sotto la soglia della decenza. Questi coraggiosi — si fa per dire — alfieri della verità e della giustizia devono pur chiedersi se accettare, magari per il miraggio di un piatto di lenticchie, sia nel loro interesse collettivo e individuale. È davvero dubbio lo sia, per la perdita di faccia e di credibilità. Di sicuro, non è nell’interesse del paese.

Lo scandalo c'è. Ma non è nell'assemblea organizzata dal sindacato e autorizzato dai rappresentanti del governo ai sensi di legge e con il dovuto preavviso, ma nella negligenza nell'informare con metodi adeguati i visitatori. Ma l'occasione è buona per colpire i lavoratori e le loro rappresentanze. Articoli di Arianna Di Genova e Riccardo Chiari.

Il manifesto, 19 settembre 2015


COLOSSEO, LA MACCHINA DEL CONSENSO È INCRINATe
di Arianna Di Genova
Beni culturali. L'assemblea al Colosseo mette in crisi Renzi e Franceschini: ma per fregiarsi della cultura, bisogna sostenerla e pagarla

«Non più cul­tura in ostag­gio dei sin­da­cati», cin­guetta Renzi. «La misura è colma», fa eco Fran­ce­schini. Anche il sin­daco della capi­tale, Igna­zio Marino, sem­bra su di giri: «è uno sfre­gio per il nostro paese», tuona. Fran­ce­schini e Renzi si spal­leg­giano, e men­tre si pro­fes­sano pala­dini del Colos­seo, chiuso per due ore a causa di un’assemblea sin­da­cale già annun­ciata, nei fatti dichia­rano guerra al patri­mo­nio stesso. Per­ché per tenere aperti musei e siti archeo­lo­gici, ren­den­doli quel pre­zioso biglietto da visita che in realtà sono per natu­rale dna, biso­gne­rebbe prima di tutto soste­nerli, trat­tarli dav­vero come beni comuni. Ma quella man­ciata di ore «rubate» ai turi­sti ha tenuto in scacco i vari pro­clami di Renzi&Co sulla cul­tura, dive­nuta una for­mi­da­bile mac­china per spre­mere con­senso. Ha lace­rato una maschera assai comoda da indos­sare, tra­vol­gendo un argo­mento così ama­bil­mente «social». Il ritardo di aper­tura dell’Anfiteatro Fla­vio è rim­bal­zato in rete, un fiume in piena che ha rotto gli argini: i più sma­li­ziati hanno trat­tato la noti­zia con iro­nia, altri con disap­punto, dif­fu­sa­mente il «disa­gio» ha pre­stato il fianco a una deni­gra­zione dei lavo­ra­tori, aiz­zata soprat­tutto dal governo.

A uno sguardo distratto, quella spe­cie di tsu­nami che ha attra­ver­sato il Par­la­mento, scosso di fronte ai turi­sti in fila fuori dal Colos­seo, dovrebbe far spe­rare per il meglio: i depu­tati, dopo anni di olget­tine, feste e cor­ru­zione tra­ver­sale hanno final­mente a cuore qual­cosa che li rende più umani. Il sog­getto, oltre­tutto, è bipar­ti­san. Se il Pd nazio­nale ha gri­dato allo scan­dalo («non si chiude la cul­tura» ) e addi­rit­tura un pasio­na­rio come Pedica si è offerto volon­ta­rio in veste di custode, altri a destra (e pure diversi a sini­stra) ne hanno appro­fit­tato per attac­care il diritto di scio­pero. Che poi era un’assemblea di due ore, come avviene in tutti i musei del mondo senza susci­tare iste­ri­smi: la Natio­nal Gal­lery di Lon­dra ha ser­rato le porte per 50 volte in un anno di fronte alla minac­cia di un pas­sag­gio in mani pri­vate.

Alla fine della gior­nata, è arri­vata la schia­rita: l’annuncio di un nuovo decreto-legge che inse­ri­sca la cul­tura fra i ser­vizi essen­ziali. Bene, ha affer­mato il soprin­ten­dente Pro­spe­retti, fermo restando il fatto che tutto era stato annun­ciato, non si è trat­tato di chiu­sura ma solo di un posti­cipo e avvisi mul­ti­lin­gue erano stati espo­sti sui monumenti.

In vista di una pri­va­tiz­za­zione dei beni cul­tu­rali a cui si punta con ogni ener­gia pos­si­bile – i com­mis­sa­ria­menti sono stati una cata­strofe, quindi una strada non più per­cor­ri­bile – ha preso forma un brac­cio di ferro tra sin­da­cati e governo. Una volta ven­ti­lato lo scio­pero nazio­nale, lo scon­tro è diven­tato epico: i custodi rivol­tosi come tanti Spar­taco che si rifiu­tano di aval­lare il nuovo hash­tag, «la buona cul­tura». Vale la pena, però, fare un passo indie­tro per sca­val­care l’onda emo­tiva e media­tica. E con un po’ di sano distacco, cer­care di capire cosa sia real­mente suc­cesso in una gior­nata poli­tica la cui agenda ad hoc è stata costruita fin dal mat­tino.

I turi­sti, invece della con­sueta fila di almeno un’ora per entrare nel cele­bre monu­mento, ieri ne hanno fatta una un po’ più lunga. Il Colos­seo — come altri siti ita­liani per­ché l’assemblea era nazio­nale — ha aperto più tardi rispetto al con­sueto a causa di un incon­tro fra lavo­ra­tori e sin­da­cati. L’oggetto? La man­canza del paga­mento da parte dello Stato – dal novem­bre scorso, quasi da un anno, del cosid­detto «sala­rio acces­so­rio», quello matu­rato per le aper­ture lun­go­ra­rio, e anche not­turne. Era il frutto di un accordo che avrebbe per­messo di non tenere, appunto, «la cul­tura in ostag­gio», secondo lo slo­gan ren­ziano. Però non è stato ono­rato: i 18,500 dipen­denti del mini­stero aspet­tano le inden­nità acces­so­rie (30% dello sti­pen­dio) da un’infinità di mesi. Oltre­tutto, siti impor­tanti come Uffizi e Pom­pei non sono stati chiusi, per dare un segnale posi­tivo. Palazzo Pitti sì: seb­bene la città di Firenze pul­lu­lasse di turi­sti, nes­suno è corso alle armi. Non sem­pre le richie­ste sin­da­cali sono del tutto con­di­vi­si­bili, ma sta­volta cono­scere le ragioni può aiu­tare a diri­mere la questione.

Il Colos­seo è aperto sette giorni su sette, da marzo a otto­bre (con visite gui­date) anche di notte, eppure sof­fre dell’endemica e cro­nica malat­tia dei nostri beni cul­tu­rali: la man­canza di orga­nico, vuoi stru­men­tale vuoi per difetto di finanze e tagli incon­sulti sus­se­gui­tisi a raf­fica. Se la riforma del Mibact è stata com­piuta e pure strom­baz­zata ai quat­tro venti – com­preso il fiore all’occhiello dei vari diret­tori ita­liani e esteri inse­diati nei «posti chiave», – poco o nulla si è fatto per col­mare quella scon­for­tante carenza di per­so­nale. Per fare un esem­pio: i custodi in ferie, durante l’estate sono stati sosti­tuiti con per­sone che veni­vano pagate 3,5 euro l’ora, get­tate nell’arena senza pre­pa­ra­zione né alcun corso. Riem­pire i buchi, di corsa e con il minor danno pos­si­bile (in ter­mini eco­no­mici), con­ti­nua ad essere la parola d’ordine. Nes­sun sistema strut­tu­rale per ovviare al disa­gio. Il «caso» l’ha creato il governo stesso, facendo la prima mossa, la più grave: non rispet­tando i patti. La cul­tura non c’entra pro­prio niente.

PROTESTE CHIUSE PER DECRETO
di Riccardo Chiari

Musei. Un’assemblea sindacale di due ore dei custodi del Colosseo scatena la vendetta premeditata del governo. Anche M5S contro i lavoratori. La Cgil attacca Renzi. La riunione era annunciata e autorizzata da tempo. Da mesi ai lavoratori non sono pagati gli straordinari. Ma il ministro ’costruisce’ il caso per un obiettivo che piace al governo: limitare il diritto di sciopero

«No alla cul­tura ostag­gio dei sin­da­cati». Pas­sano gli anni, ma il “bomba” Renzi, così come lo ave­vano ben pre­sto indi­vi­duato i com­pa­gni di classe del liceo Dante, pro­se­gue a spa­rarle in libertà. Il pro­blema, per gli ita­liani, è che in un modo o nell’altro il “bomba” è diven­tato pre­si­dente del con­si­glio. Suc­cede così che una nor­male assem­blea sin­da­cale, chie­sta per tempo — una set­ti­mana fa — e rego­lar­mente auto­riz­zata dalla Soprin­ten­denza spe­ciale per il Colos­seo, il Museo Nazio­nale Romano e l’Area Archeo­lo­gica di Roma, diventa casus belli. Di una guerra che ha come obiet­tivo finale il diritto di scio­pero. Da limi­tare, al momento, con un decreto legge deto­nante. Da ammaz­zare, entro breve, con una raf­fica di dise­gni di legge, già all’ordine del giorno della com­mis­sione lavoro del Senato e a quella affari Costi­tu­zio­nali. Fir­mati dai soliti Mau­ri­zio Sac­coni e Pie­tro Ichino.

Bastano le file all’entrata del Colos­seo a creare il caso. Dal nulla, visto che nei prin­ci­pali poli museali ita­liani, quo­ti­dia­na­mente presi d’assalto dai turi­sti, un paio di ore di coda sono fisio­lo­gi­che. Chie­dere per infor­ma­zioni ai visi­ta­tori della Torre pen­dente di Pisa, costretti a pas­sare uno per volta sotto il metal detec­tor per motivi di sicu­rezza. E di due ore e mezzo era la durata dell’assemblea, pun­tual­mente segna­lata sui quo­ti­diani, per­ché la comu­ni­ca­zione uffi­ciale della Soprin­ten­denza era arri­vata per tempo. Anche su alcune agen­zie di stampa. Ma pro­prio una di esse — la prin­ci­pale — di buon mat­tino lan­cia già, con evi­denza, la noti­zia: «Un’assemblea sin­da­cale tiene chiusi i siti archeo­lo­gici più impor­tanti della Capi­tale: Colos­seo, Foro Romano e Pala­tino, Terme di Dio­cle­ziano e Ostia Antica».

Da quel momento prende forma un cre­scendo inar­re­sta­bile. Scatta per prima, ma quando i can­celli del Colos­seo sono già stati ria­perti, la for­zi­sta Lara Comi: «Il paese è bloc­cato dai sin­da­cati». A ruota il capo­gruppo dem di Mon­te­ci­to­rio, Ettore Rosato: «Il Colos­seo chiuso per assem­blea è uno sfre­gio all’impegno di Roma per com­pe­tere con le grandi città euro­pee». Il colpo grosso arriva dopo mez­zo­giorno: «La misura è colma», detta il mini­stro Dario Fran­ce­schini, pronto ad annun­ciare che, in accordo con Renzi, pro­porrà al con­si­glio dei mini­stri di inse­rire musei e luo­ghi della cul­tura nei ser­vizi pub­blici essenziali.

L’idea non è nuova. Renzi & Fran­ce­schini ci ave­vano già pro­vato a luglio, quando ave­vano ven­duto come “sel­vag­gia” un’altra assem­blea indetta secondo le pro­ce­dure di legge, a Pom­pei. Ma è pro­prio la legge, peral­tro non certo per­mis­siva, ad essere nel mirino del governo e dei suoi sodali. Fra que­sti ultimi spicca Sac­coni: «Roma, caos turi­sti: ora fare legge su scio­pero e diritti sin­da­cali per pro­teg­gere utenti beni pub­blici». A dar­gli man­forte Ange­lino Alfano: «Appro­viamo subito le legge di Sac­coni su rego­la­zione scio­pero a tutela utenti beni pub­blici. Ieri è ini­ziato l’iter al Senato».

Chi non crede all’evidenza del pen­siero unico avrà da pen­sare guar­dando il “sin­daco anti­fa­sci­sta” Igna­zio Marino che si fa ripren­dere da una tele­ca­mera men­tre dice: «Sono com­ple­ta­mente d’accordo con Fran­ce­schini». Non fa una bella figura lo staff di Laura Bol­drini, che le per­mette di dire: “È giu­sto svol­gere l’attività sin­da­cale, ma non si può senza pre­av­viso». Deso­lanti i 5 Stelle: «Dopo Pom­pei, suc­cede di nuovo e que­sta volta a Roma». Unica voce fuori dal coro Paolo Fer­rero di Rifon­da­zione: «Sono inde­centi gli attac­chi ai lavo­ra­tori del Colos­seo e dei Fori. Fran­ce­schini dovrebbe occu­parsi piut­to­sto dello stato in cui versa il nostro patri­mo­nio arti­stico e cul­tu­rale, che cade a pezzi. Sono le risorse che man­cano e i tagli alla cul­tura che dan­neg­giano il turi­smo, non l’assemblea dei lavoratori».

È alli­bito Clau­dio Meloni, coor­di­na­tore per la Fp Cgil del Mibact: «Non è pos­si­bile che il mini­stro Fran­ce­schini non sapesse che le assem­blee avreb­bero potuto com­por­tare il rischio di aper­ture ritar­date. A Roma l’assemblea è stata chie­sta rego­lar­mente l’11 set­tem­bre e rego­lar­mente auto­riz­zata dal soprin­ten­dente, con largo anti­cipo. Vor­rei inol­tre ricor­dare al mini­stro che i beni cul­tu­rali già stanno nella legge che rego­la­menta i ser­vizi pub­blici essenziali».

Tutto inu­tile. A sera, finito il con­si­glio dei mini­stri, l’ineffabile Fran­ce­schini annun­cia: «Il decreto legato alla vicenda del Colos­seo pre­vede che sia aggiunta ai ser­vizi pub­blici essen­ziali anche l’apertura dei musei». Inu­tile anche lo sguardo fuori dai con­fini patri: «Ini­zia­tive ana­lo­ghe avven­gono in tutti i paesi d’Europa — ricor­dano Meloni, Giu­liana Gui­doni della Cisl Fp ed Enzo Feli­ciani della Uil Pa — ricor­diamo il caso dei lavo­ra­tori della Natio­nal Gal­lery di Lon­dra, in mobi­li­ta­zione da diversi mesi con­tro la pri­va­tiz­za­zione dei ser­vizi, o i lavo­ra­tori della Tour Eif­fel a Parigi, che l’anno scorso hanno chiuso per ben tre giorni il monu­mento più visi­tato di Fran­cia. Senza che a nes­suno degli espo­nenti poli­tici o dei media di que­sti paesi sia venuto in mente di met­tere in discus­sione i diritti fon­da­men­tali dei lavoratori»

L’ideologia del nuovo nècentro-nèsinistra. Da inserire nello stupidario, se l’autore non avesse un peso smisurato nel presente. Lo scritto rivela che non certo dalle sue idee nasce il peso che si è conquistato. Grazie alle debolezze altrui, o anche da più forti e oscuri poteri?

La Repubblica, 23 febbraio 2014

Vent'anni dopo l'uscita di "Destra e sinistra", il bestseller di Norberto Bobbio, l'editore Donzelli ripubblica una nuova edizione con una introduzione di Massimo L. Salvadori e due commenti di Daniel Cohn-Bendit e Matteo Renzi. Pubblichiamo l'intervento del presidente del Consiglio. Un vero e proprio manifesto del capo del nuovo governo

la parola "sinistra" era una parolaccia. Sacrificata al galateo della coalizione di centrosinistra, tanto da giustificare dibattiti estenuanti e buffi sul trattino, ricordate?

"Centro-sinistra" o "centrosinistra" era la nuova disputa guelfi-ghibellini, tra chi pensava il campo progressista come un litigioso condominio, caseggiato rumoroso di partiti gelosi delle proprie convenienze e confini e chi, invece, vagheggiava il Partito-Coalizione, area politica aperta, il cui orizzonte schiudeva l'universo del campo progressista.

In questo incrocio, che ha opposto due linee in parte intente a far baruffa ancora adesso, c'è il Partito democratico, la parola "sinistra" come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile.
Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura. Erano quelli gli anni dell'Ulivo, il progetto di Romano Prodi di abbattere gli steccati che separavano gli eredi del Partito comunista da quelli della Democrazia cristiana, di una forza che raccogliesse istanze liberal-democratiche, ambientaliste, in una nuova unità, una nuova cultura politica semplicemente, finalmente potremmo dire, "democratica".

Erano, nel mondo, gli anni della "terza via", di Bill Clinton e Tony Blair, una rotta per evitare Scilla e Cariddi, tra gli estremismi della sinistra irriducibile e la destra diventata, dopo Reagan e Thatcher, una maschera di durezze. Qualcuno pensò allora perfino che la sinistra fosse ormai uno strumento inservibile, non più adeguato a un mondo nuovo, sulla spinta di quella che si chiamava globalizzazione, dove finiva il XX secolo della guerra fredda e cominciava il XXI, tutto individuale e personal, dalla tecnologia alla politica.

A fare da sentinella, non per custodire e conservare, ma per richiamare alla sostanza delle cose, alla loro forza, il filosofo Norberto Bobbio - or sono venti anni esatti - pensò di tirare una linea, per segnalare dove la divisione tra destra e sinistra ancora teneva e tiene. Suggerendo che la scelta cruciale resti sempre la stessa, storica, radicale, un referendum tra eguaglianza e diseguaglianza, come dal XVIII secolo in avanti. Mi chiedo se oggi che la seduzione della "terza via" - che pure nel socialismo liberale, nell'utopia azionista di Bobbio, ha trovato più che un riflesso - si è sublimata perdendo slancio, la coppia eguaglianza/diseguaglianza non riesca a riassorbire integralmente la distinzione destra/sinistra. Basti pensare, a livello europeo, all'insorgere dei populismi e dei movimenti xenofobi contro i quali è chiamato a ridefinirsi il progetto dell'Unione europea, così in crisi. Un magma impossibile da ridurre alla vecchia contraddizione eguali/diseguali a lungo così nitida.[sic]

Dal punto di vista del sistema politico, infatti, sono e rimango un convinto bipolarista. Credo che un modello bipartitico, all'americana per intenderci, sia un orizzonte auspicabile, sia pur nel rispetto della storia, delle culture, delle sensibilità e della pluralità che da sempre contraddistinguono il panorama italiano. Ma riflettendo sulla teoria, sui principi fondamentali, non so se, invece, non sia più utile oggi declinare quella diade nei termini temporali di conservazione/ innovazione.

Tiene ancora, dunque, lo schema basato sull'eguaglianza come stella polare a sinistra? In una società sempre più individualizzata, sotto la spinta anche delle nuove tecnologie, dei social network, delle reti che connettono ma anche atomizzano, creando e distruggendo comunità e identità? Come recuperare, dopo anni di diffidenza, anche tra i progressisti, idee come "merito" o "ambizione"? Come evitare che, in un paesaggio sociale tanto mutato, la sinistra perda contatto con gli "ultimi", legata alle fruste teorie anni sessanta e settanta, mentre papa Francesco con calore riesce a parlare la lingua della solidarietà? Certo, l'eguaglianza - non l'egualitarismo - resta la frontiera per i democratici, in un mondo interdipendente, dilaniato da disparità di diritti, reddito, cittadinanza. Eppure era stato lo stesso Bobbio, proprio mentre scandiva quella sua storica dicotomia, a rendersi conto che forse la sua argomentazione aveva bisogno di un'ulteriore dimensione, un diverso respiro temporale, un'altra profondità. "Nel linguaggio politico - scrive Bobbio - occupa un posto molto rilevante, oltre alla metafora spaziale, quella temporale, che permette di distinguere gli innovatori dai conservatori, i progressisti dai tradizionalisti, coloro che guardano al sole dell'avvenire da coloro che procedono guidati dalla inestinguibile luce che vien dal passato. Non è detto che la metafora spaziale, che ha dato origine alla coppia destra-sinistra non possa coincidere, in uno dei significati più frequenti, con quella temporale".

Ecco perché, venti anni dopo il monito di Bobbio, è maturo il tempo per superare i suoi confini, modificati e resi frastagliati dal mondo globale, come insegnano Ulrich Beck e Amartya Sen. Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca. Che non dimentichi radici e origini, sempre da mettere in questione, da problematizzare, ma che, soprattutto, faccia i conti con i tempi nuovi che ci troviamo a vivere, ad attraversare. Aperto/chiuso, dice oggi Blair. Avanti/indietro, chissà, innovazione/conservazione.

E, perché no, movimento/stagnazione. Se la sinistra deve ancora interessarsi degli ultimi, perché è questo interesse specifico che la definisce idealmente come tale, oggi essa deve avere lo sguardo più lungo. Le sicurezze ideologiche del Novecento, elaborate sull'analisi di un mondo organizzato in maniera assai meno complessa di quello contemporaneo, rendevano più semplice il compito della rappresentanza delle istanze degli ultimi e degli esclusi, e del governo del loro desiderio di riscatto. A blocchi sociali definiti e compatti bisognava dare cittadinanza, affinché condizionassero le decisioni sul futuro delle comunità nazionali di cui erano parte. Per la sinistra che, dopo Bad Godesberg, si organizzava in Europa in partiti socialdemocratici postmarxisti (e anticomunisti) era un compito certo faticoso, ma lineare nel suo meccanismo di funzione politica.

Oggi quei blocchi sociali non esistono più ed è un bene che sia così! In fondo tutta la fatica quotidiana del lavoro della sinistra socialdemocratica, cara a Bobbio, era stato quello di scardinare quei blocchi. Allo scopo di offrire agli uomini e alle donne, che erano in quei blocchi costretti, l'opportunità di una vita materiale meno disagevole e di un'esistenza più ricca di esperienze. Con l'invenzione del welfare quella sinistra aveva provveduto a sfamare le bocche e gli animi degli ultimi e degli esclusi, liberandoli dal bisogno materiale - libertà fondamentale anche per la sinistra liberaldemocratica americana di Franklin D. Roosevelt - e fornendo loro l'occasione di realizzare se stessi. L'invenzione socialdemocratica del welfare aveva così conseguito due obiettivi storici. Da un lato, difatti, il welfare aveva soddisfatto la sacrosanta richiesta di maggiore giustizia sociale. Dall'altro, tuttavia, il miglioramento delle condizioni oggettive di vita degli ultimi aveva determinato un beneficio generale per tutte quelle comunità democratiche che non avevano avuto timore di rispondere "Sì!" alla loro domanda di cambiamento.

La sinistra cara a Bobbio, quella socialdemocratica e anticomunista, ha insomma vinto la sua partita. Ma oggi ne stiamo giocando un'altra. Quei blocchi sociali che prima rendevano tutto più semplice non ci sono più. Gli stessi confini nazionali che erano il perimetro entro cui si giocava la partita dell'innovazione del welfare sono ormai messi in discussione. Più che con blocchi sociologicamente definiti entro Stati nazionali storicamente determinati, oggi la nuova partita si svolge con attori e campi da gioco inediti. Quei blocchi sono stati sostituiti da dinamiche sociali irrequiete. I confini nazionali non delimitano più gli spazi entro i quali le nuove dinamiche giocano la loro partita.

Di fronte a questo potente mutamento di prospettiva sociale ed economica, culturale e politica, la sinistra deve mostrare di avere coraggio e non tradire se stessa. Deve accettare di vivere il costante movimento dei tempi presenti e accoglierlo come una benedizione e non come un intralcio. È questo straordinario, irrefrenabile movimento che sfonda la vecchia bidimensionalità della diade destra/sinistra e le dà temporalità e nuova forza. E invece spesso, in Italia e in Europa, la sinistra ne ha paura. Sembra non rendersi conto che il nuovo mondo in cui tutti viviamo è anche il frutto del successo delle proprie politiche, dei cambiamenti occorsi nel Novecento grazie alla sua iniziativa. Perché l'innovazione, quando ha successo, produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso. Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l'incarico più gravoso di tutti. Eppure non cambiare se stessi, in una realtà che si è contribuito a cambiare, condanna all'incapacità di distinguere i nuovi ultimi e i nuovi esclusi, e all'ignavia di non mettersi subito al loro servizio. Che è proprio quanto successo alla sinistra di tradizione socialdemocratica al cospetto delle sfide del secolo nuovo.

La sinistra è oggi chiamata a riconoscere e a conoscere il movimento continuo delle nuove dinamiche sociali, contro chi vorrebbe vanamente fare appello a blocchi che non esistono più e che è un bene non esistano più! In Italia, più che altrove, la capacità della politica di saper distinguere le dinamiche sociali che interessano gli ultimi e gli esclusi, di saperle intrecciare per dare loro rappresentanza e, infine, di saperne governare il costante movimento per costruire per loro, e per tutti, un paese migliore, è il compito del Partito democratico. È la missione storica della sinistra.

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