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Il manifesto, 21 maggio 2016 (p.d.)

Il Presidente del Consiglio l’11 aprile scorso ha aperto la campagna elettorale sul referendum costituzionale annunciando che, per vincere, è disposto ad «usare anche argomenti demagogici». Un annuncio senza novità, la «demagogia», largamente coniugata alla forma «cialtronismo», è stata la cifra della sua comunicazione politica (propaganda) fin dai tempi della Leopolda.

Il «cialtronismo» è elemento fluidificante della «demagogia». In un contesto frutto di una coltivazione quasi trentennale di plebeismo, il «cialtronismo» può passare come aspetto disinvolto, popolare della comunicazione politica. Renzi può citare male e fuori contesto Chesterston, attribuire a Borges versi non suoi, attribuirsi una compartecipazione al traforo del Gottardo ignorandone persino la localizzazione (le televisioni svizzere si sono indignate e/o divertite; quelle italiane hanno sorvolato), ecc,.

E’ la continuità con Berlusconi, completa: ambedue demagoghi ed ignoranti, e di un’ignoranza di cui non hanno né coscienza né consapevolezza, hanno trasformato tale loro condizione in punto di forza. D’altra parte la «demagogia» si manifesta in maniera più persuasiva se può scaturire da una base «naturale». Sottovalutare le possibilità d’incidenza del connubio cialtronismo-demagogia nello scontro sul referendum costituzionale sarebbe un grave errore. Così come sarebbe un errore pensare al meccanismo propagandistico renziano solo come una sorta di fenomeno di superficie al di sotto della quale ci sarebbe il vuoto.

Al di sotto, invece, c’è una struttura materiale dura: la logica e la realtà evocate nel 2010 da Marchionne quando ha dichiarato: «Io vivo nell’epoca dopo Cristo; tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non mi riguarda e non mi interessa».

Nel tornante del secolo per Marchionne si è verificato il passaggio, a suo parere definitivo, tra la centralità del lavoro, la tensione verso l’uguaglianza, secondo Costituzione, alla riduzione dell’umana forza-lavoro a pura funzione del capitale. Renzi è totalmente interno a tale dimensione dei rapporti economico-sociali che reputa «naturali, esattamente come la sua antropologia culturale. Per questo, con tutta naturalità appunto, ringrazia ripetutamente il padrone globalizzato per la generosità con cui porta occupazione in Italia, mentre redarguisce severamente «certi sindacalisti» che, difendendo i diritti del lavoro, impediscono lo svolgimento della logica di mercato coincidente con la benevolenza padronale.

«Cevital…Merci», si può leggere in un manifesto apparso a Piombino, in una delle città italiane, cioè, dove per quasi un secolo la coscienza di classe è stata elemento essenziale della crescita civile. Cevital è la multinazionale del magnate algerino Issad Rebrab che investirà a Piombino nel settore siderurgico. Dunque un benefattore e bisogna ringraziarlo. Ed infatti, come è visibile in una foto celebrativa dell’evento, festeggiano il benefattore, eletto a «personaggio dell’anno 2015» da un giornale locale, i maggiorenti toscani del Pd, del governo nazionale e del territorio. Una posizione tanto più forte in quanto non frutto di quella che, del tutto impropriamente, viene chiamata «mutazione genetica» renziana.

Ricordiamo perfettamente Massimo D’Alema che nel luglio 2012, confrontandosi davanti a Montecitorio con un picchetto di operai Irisbus, diceva: «Non serve a nulla… tutto questo non serve a nulla … se lo mandiamo affanc…quello chiude e non lo vediamo più».

Ebbene la Costituzione, nello spirito e nella lettera, si pone in una dimensione antitetica rispetto al complesso dei rapporti sociali sotteso ai pronunciamenti di Renzi, D’Alema, e del ceto politico Pd di ogni livello. Del resto l’attacco alla Costituzione, il suo svuotamento, la sua continua manomissione proprio per questa sua incompatibilità con tutte le forme dell’ordo-liberalismo, non è certo cominciato con la riforma Boschi-Verdini, bensì con l’accettazione di fatto e di diritto (costituzionalizzazione del Fiscal compact) di un ordine europeo le cui normative confliggono con il documento fondante della Repubblica.

Si comprenderà, dunque, come la «ditta», ora «sinistra» Pd, che tale processo o ha promosso, o ha accettato, non possa ora opporvisi sulle questioni di fondo. I suoi residui esponenti se ne stanno nell’ombra e attendono (non si sa bene chi e che cosa) mentre pigolano sempre più piano.

Proprio nei giorni scorsi il neo ministro allo Sviluppo economico, fortemente voluto da Renzi, ha chiarito in maniera esemplare il nodo centrale della riforma Boschi-Verdini. Ha sostenuto che gli accordi di libero scambio Ttip e Ceta «sono fondamentali» (per chi?), per cui non si possono lasciare i parlamenti nazionali arbitri della loro approvazione. Dunque, ha concluso, «la governance deve essere ristrutturata sennò ammazzerà la nostra (?) politica commerciale» («Eunews» 13 maggio. I virgolettati sono nel testo).

La riforma costituzionale su cui voteremo a ottobre è tappa decisiva della ristrutturazione della governance su cui insistono da tempo i poteri dominanti internazionali. Renzi-Calenda dicono le stesse cose che un gigante della finanza globale come Jp Morgan Chase ha suggerito ai governi europei in un documento del 28 maggio 2013: liberatevi delle «Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione europea».

Questo è il punto centrale che demagogia e cialtronismo tenteranno di occultare. Questo è il punto centrale da rendere chiaro con tutti gli strumenti di demistificazione di demagogia e cialtronismo.

Il Fatto Quotidiano, 4 maggio 2016 (p.d.)

Nei giorni scorsi ai capigruppo del Pd e, via loro, agli esperti legislativi è arrivata da Palazzo Chigi una richiesta un po’strana: c’è modo di anticipare il referendum costituzionale dalla fine all’inizio di ottobre? Come vedremo è possibile, ma non è così scontato che ci si riesca. Ma il motivo della richiesta arrivata da Renzi qual è? È in una frase pronunciata dal presidente della Consulta Paolo Grossi –curiosamente a Firenze - a proposito del ricorso sull’Italicum: “Lo esamineremo martedì 4 ottobre”. Non è detto che venga accolto, ma il rischio c’è.
Questa uscita, però, al di là dei particolari tecnici, è suonata come un allarme alla presidenza del Consiglio. Il cortocircuito è evidente: se va molto male, le ultime due settimane di campagna elettorale si faranno sulle critiche della Consulta alla legge elettorale renziana. Il referendum sul ddl Boschi –quello in cui il premier si gioca tutto, come ripete ogni volta che può – era infatti programmato per la seconda metà di ottobre: domenica 23 la data più gettonata. E allora? Potrebbe domandarsi il lettore. Ebbene, persino a Palazzo Chigi e dentro il Pd ritengono che la legge elettorale iper-maggioritaria appena approvata dal Parlamento sia borderline quanto a costituzionalità, soprattutto alla luce della sentenza sul Porcellum.
Anche volendo immaginare che la Consulta salvi il premio di maggioranza abnorme, è data praticamente per scontata la censura sulle cosiddette “candidature multiple”: ’intende l’abitudine di capi e capetti politici di candidarsi in diversi collegi e scegliere solo dopo in quale risultare eletti, avendo così potere di vita e di morte su chi li segue in lista. Come si evince dalla sentenza della Consulta sul Porcellum, questo viola il principio della conoscibilità dell’eletto da parte del cittadino. Insomma, secondo lo stesso Pd i giudici delle leggi dichiareranno incostituzionale almeno questa parte. Non che Renzi o i dem ne farebbero un dramma: furono Angelino Alfano e Silvio Berlusconi – si era ancora ai tempi degli incontri del Nazareno – a chiedere le candidature multiple, ma la figuraccia costituzionale mentre si tenta di vendere agli italiani una nuova Costituzione non sarebbe un bel biglietto da visita.

È così, insomma, che è saltata fuori la richiesta di Matteo Renzi ai suoi tecnici: vedete se c’è il modo di spostare il referendum e schivare la Consulta. La data buona, in questo senso, è domenica 2 ottobre, due giorni prima che l’Italicum finisca davanti ai giudici delle leggi. La risposta degli uffici legislativi è arrivata, ma non è risolutiva. In sostanza è: è possibile, ma forse no.

Breve spiegazione. La legge prevede al l’ingrosso questo: dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della riforma costituzionale, che nel caso della Carta Boschi/Renzi è il 15 aprile, chi volesse sottoporla a referendum deve presentare la richiesta entro tre mesi (cioè il 15 luglio). E chi può farlo? Un quinto dei membri di una Camera, cinque consigli regionali o i cittadini che raccogliessero 500 mila firme, esattamente quel che stanno facendo i costituzionalisti per il No o “professoroni” in renzese. Sono loro che rischiano di impedire al premier l’anticipo del referendum.
Motivo. A decidere sulla legittimità del referendum è la Cassazione, che allo scopo ha 30 giorni (più altri 7 per eventuali ricorsi): questo tempo viene in genere utilizzato quasi tutto in caso di referendum indetto con raccolta firme per verificarne il numero e la veridicità. Diciamo 10-15 agosto: a quel punto il presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei ministri, può indire il referendum tra i 50 e i 70 giorni successivi. Così per il 2 ottobre siamo sul filo o anche oltre, senza contare l’evidente forzatura istituzionale: se invece non ci fossero le 500mila firme, ma solo la richiesta dei parlamentari, il via libera della Cassazione sarebbe rapido e votare prima della possibile figuraccia alla Consulta non sarebbe un miraggio.

Il Fatto Quotidiano, 24 aprile 2016 (p.d.)

All’indomani della sua intervista a Otto e mezzo, a stupire Nicola Gratteri, neo procuratore di Catanzaro, è che tra tutte le sue dichiarazioni solo una sia stata ripresa dai principali quotidiani: “È vero, ho detto che Davigo ha sbagliato, ma nella forma, non nella sostanza. Piercamillo è un provocatore intelligente, brillante, perbene e indipendente. Uno dei pochissimi che può permettersi di parlare. Provocatore nel senso che vuole smuoverci dall’apatia, aprire il dibattito sulle falle del sistema. Quando dico che ha sbagliato a generalizzare, intendo che ha dato modo a chi vuole parlar d’altro di attaccarlo, anziché rispondere nel merito. A ogni modo non ha bisogno di difensori, vista la sua storia professionale”.

Quindi concorda con Davigo sul fatto che, rispetto a Tangentopoli, la corruzione in politica non è diminuita?
La situazione è molto più grave rispetto a 20 anni fa, come documentano diverse indagini degli ultimi anni. C’è stato un abbassamento dell’etica e in parallelo una sempre maggiore legittimazione delle mafie, che danno risposte più credibili della politica.

Com’è cambiato il rapporto mafia-politica?

Ormai sono i politici a cercare i mafiosi, non viceversa. I candidati alle Politiche, Regionali e Comunali vanno dal capo mafia a chiedere i voti. Solo nella Locride le ultimi indagini han detto questo e altro.

La sua commissione ha depositato 16 mesi fa le proposte per far funzionare la giustizia. Dove sono adesso?

La relazione si trova a Palazzo Chigi ed è stata anche inviata, su richiesta della presidente Bindi, alla commissione Antimafia. Quasi tutti i parlamentari ne hanno copia. Qualcosa, come il processo a distanza, è stato approvato alla Camera e aspetta di passare al Senato. Si discute anche dell’Agenzia dei beni confiscati. Ora è sotto esame l’ordinamento penitenziario, anche se stanno scrivendo l’esatto opposto di quel che abbiamo suggerito noi (volevamo la sostanziale abolizione del Dap per dare più poteri alla polizia penitenziaria, in nome di una maggior trasparenza). A occhio, han recepito circa il 5% del nostro lavoro.

Ma non è stato Renzi a volere questa task force?

Io mi aspettavo, o quantomeno sognavo che almeno parte delle riforme che Renzi mi ha chiesto passasse per decreto. Come quella più urgente, che dovrebbe essere meno controversa, per abbattere tempi costi del processo penale.

Invece nulla. Perché?

Abbattere i tempi del processo significa non arrivare alla prescrizione, specie per i reati ordinari, i tre quarti dei quali oggi non fanno in tempo ad arrivare in Cassazione. Rimettere in piedi un sistema efficiente è fondamentale anche per la lotta alla mafia. Se risolvi il problema di una truffa, magari l’imprenditore prende fiducia e la volta dopo ha il coraggio di denunciare un’estorsione. Forse, per questo tema così delicato, Renzi non ha i numeri in Parlamento. Queste riforme toccano centri di potere: se implementate, manderebbero in galera molti colletti bianchi.

Renzi ha ceduto pure a Napolitano, che non la voleva ministro della Giustizia.

Quella faccenda è andata ogni oltre previsione. Il veto c’è stato solo su di me, ma le ragioni non sta a me commentarle. È una domanda per l’ex capo dello Stato.

La sua commissione ha lavorato gratis per 6 mesi. Perché Renzi ve l’ha chiesto, se sapeva che avrebbe ignorato le vostre proposte?

Perché all’inizio era fortemente conscio della necessità di queste riforme. Quando ne parlavamo era entusiasta.

E adesso?
Non so. Una volta consegnato tutto, il mio compito è finito. E francamente questa situazione m’imbarazza: non sta a me convincerli a portare avanti un lavoro chiesto da loro.

I casi giudiziari che hanno investito la Guidi e indirettamente la Boschi gli avranno tolto un po’di entusiasmo.
Non dispero. Il lavoro resta attuale, non è superato. Il problema sono i centri di potere interni al Parlamento che non vogliono cambiare le cose.

Eppure il premier accusa solo i magistrati: “25 anni di barbarie giustizialista”.

I magistrati non sono marziani, sono il prodotto di questa società. La quasi totalità è perbene, onesta, preparata. Ma è ovvio che capita anche a noi di sbagliare, come al medico o all’avvocato. Solo che certi errori sono molto gravi, perché incidono sulla libertà delle persone. Abusi ce ne sono stati, ma han riguardato una minoranza della magistratura. E ricordo che, se sono venuti fuori certi “comportamenti” di magistrati infedeli, è perché altri magistrati li hanno indagati, rinviati a giudizio e in certi casi arrestati.

Renzi attacca i giudici, accetta i veti di Napolitano sul Guardasigilli e subisce un Parlamento che lavora per bloccare la giustizia. A un certo punto lei riconoscerà una responsabilità anche al premier o gli darà per sempre il beneficio del dubbio?

Io racconto la storia, le valutazioni fatele voi. Il mio dispiacere sta nella consapevolezza che molte di queste riforme sono determinanti.

Riforme - 416 bis e ter e autoriciclaggio - che ha sostenuto al Csm che la valutava per la Procura di Milano.

Urgenti e fondamentali. Basterebbe la volontà politica.

Cosa deve pensare un cittadino di questi paradossi?

Lo so, la gente percepisce questa situazione e si pone delle domande, ma non spetta a me puntare il dito. Io faccio il magistrato, non il politico.

Ma non si arrabbia mai?

Io ho l’entusiasmo di un trentenne, ma quando ti scontri e vedi il mondo, capisci che oltre a un certo punto non si può andare. Fare il Masaniello non serve. Perché poi ti etichettano come un pazzo - è successo a molti - e quello che vuoi comunicare non viene più preso sul serio. Io posso solo continuare a lavorare, adesso ho la Procura di Catanzaro a cui pensare. Ma, di fronte alle polemiche degli ultimi giorni, la risposta saggia sarebbe discutere. L’approccio campanilistico della politica è sbagliato. La guerra non possiamo permettercela. Renzi dovrebbe cogliere l’occasione per discutere dei grandi problemi della giustizia, per aprire un dialogo con i magistrati in appositi incontri di studio. Invece pare ci sia una gara ad avvelenare il clima. E sono certo che non era questo l’intento di Davigo.
Ecco svelato dal nuovo presidente del Consiglio nazionale della ricerche, recentemente nominato da Renzi, il principio morale sul quale si basa la politica renzista: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici».

La Repubblica, blog Articolo 9", 24 aprile 2016

Qual è il rapporto tra renzismo ed etica?

La risposta a questa domanda spacca il Paese in due: gli antirenziani pensano che quel rapporto sia per lo meno ambiguo; i renziani pensano che la domanda sia mal posta, irrilevante, o maliziosa.

«L'Italia è ferma da anni. Siamo convinti di ciò che stiamo facendo e non ci fermeremo davanti a chi dice sempre e solo no. La musica con noi è cambiata», dice Renzi. E aggiunge: «Sbloccare l'Italia dalla burocrazia, dalle risorse ferme negli angoli del bilancio, della paura degli amministratori e dei dirigenti, dalle incertezze del governo centrale: questo l'obiettivo che ci eravamo dati due anni fa e che continuiamo ad avere in testa».

È la filosofia dello Sblocca Italia, che permette di ‘fare’ abbattendo drasticamente i controlli su come si ‘fa’. E questo è il punto: perchè non c'è dubbio che il Paese debba ripartire, ma il sospetto è che si vogliano invece far ripartire solo gli affari di una cerchia di amici. Modello Tempa Rossa, insomma.

Quando fu approvato, la Banca d’Italia fece notare, in un’audizione formale alla Camera, che «il disegno di legge Sblocca Italia fa ricorso, per accelerare la realizzazione di infrastrutture, a deroghe alla disciplina ordinaria che possono comportare rischi in termini di costi e tempi di esecuzione delle opere, nonché di vulnerabilità alla corruzione». A queste obiezioni la risposta è stato il solito mantra: «non ci fermeremo davanti a chi dice sempre e solo no». E quando le inchieste di Potenza sul petrolio hanno dato ragione a Bankitalia, Renzi ha insistito: «Siamo governo che sblocca le opere, se è reato io l'ho commesso».

Che questo venga ripetuto dai ministri, dal partito, dai commentatori allineati: ebbene, lo si può capire. Ma quando arriva a dirlo il presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche appena nominato dal governo: beh, significa che la classe dirigente italiana, adusa da secoli a servire, ha ormai metabolizzato fino in fondo il linguaggio dei nuovi padroni. E, come sempre succede in questi casi, il cortigiano ultimo arrivato è maldestramente esplicito, e finisce col dire a chiare lettere ciò che invece si dovrebbe solo sottintendere: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici». Il dono della chiarezza, finalmente: come sottolinea Enzo Boschi, in un ritratto al vetriolo del collega scienziato.

Ecco svelata la visione delle cose che sorregge lo Sblocca Italia e alimenta la sua retorica: una visione secondo la quale finora l’Italia sarebbe stata frenata non dalla corruzione, ma dall’etica. Un’analisi curiosa, per un Paese che, nelle classifiche sulla corruzione, sta fuori di ogni media europea, e anzi è messo peggio di Namibia o Ghana.

Ma nulla: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici». Che lo dica colui che presiede anche la commissione per l’etica della ricerca è un segnale drammatico per la comunità scientifica italiana: ma soprattutto è preoccupante il fatto che (quasi) nessuno trovi mostruose queste parole, mentre contemporaneamente fanno scandalo quelle normalissime del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Piercamillo Davigo.

Silenzio: «dobbiamo fare andare avanti l'Italia senza pensare a principi etici». L’obiettivo è raggiungere la Somalia e la Corea del Nord, che guidano la classifica dei paesi più corrotti. Niente paura: se non disturbiamo i manovratori, ce la faremo.

Non servono i carri armati per distruggere la democrazia: basta svuotarne le istituzioni. I Renzichenecchi hanno imparato bene a usare strumenti dolci, come quello di annullare l'esito dei referendum sgraditi con congiure di palazzo e con leggi e leggine approvate da un parlamento finto.

Attac Italia, 21 aprile 2016

Non sono passati più di tre giorni dalla rivendicazione da parte di Renzi dell’astensionismo nel referendum sulle trivellazioni (“referendum inutile”, come certamente hanno capito gli abitanti di Genova), che il governo e il Pd compiono l’ulteriore atto di disprezzo della volontà popolare.

Il tema questa volta è l’acqua e la legge d’iniziativa popolare, presentata dai movimenti nove anni fa, dopo aver raccolto oltre 400.000 firme. Una legge dimenticata nei cassetti delle commissioni parlamentari fino alla sua decadenza e ripresentata, aggiornata, in questa legislatura dall’intergruppo parlamentare in accordo con il Forum italiano dei movimenti per l’acqua.

La legge è stata approvata ieri alla Camera, fra le contestazioni dei movimenti e dei deputati di M5S e SI, dopo che il suo testo è stato letteralmente stravolto dagli emendamenti del Partito Democratico e del governo, al punto che gli stessi parlamentari che lo avevano proposto hanno ritirato da tempo le loro firme in calce alla legge.

Nel frattempo, procede a passo spedito l’iter del decreto Madia (Testo unico sui servizi pubblici locali) che prevede l’obbligo di gestione dei servizi a rete (acqua compresa) tramite società per azioni e reintroduce in tariffa l’”adeguatezza della remunerazione del capitale investito”, ovvero i profitti, nell’esatta dicitura abrogata dal voto referendario.

Un attacco concentrico, con il quale il governo Renzi prova a chiudere un cerchio: quello aperto dalla straordinaria vittoria referendaria sull'acqua del giugno 2011 (oltre 26 milioni di “demagoghi” secondo la narrazione renziana), sulla quale i diversi governi succedutisi non avevano potuto andare oltre all'ostacolarne l'esito, all'incentivarne la non applicazione, ad impedirne l'attuazione.

Il rilancio della privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici risponde a precisi interessi delle grandi lobby finanziarie che non vedono l'ora di potersi sedere alla tavola imbandita di business regolati da tariffe, flussi di cassa elevati, prevedibili e stabili nel tempo, titoli tendenzialmente poco volatili e molto generosi in termini di dividendi: un banchetto perfetto, che Partito Democratico, Governo Renzi e Ministro Madia hanno deciso di apparecchiare per loro.

Ma poiché la spoliazione delle comunità locali attraverso la mercificazione dell’acqua e dei beni comuni, necessita una drastica sottrazione di democrazia, ecco che lo stravolgimento della legge d’iniziativa popolare sull’acqua e lo schiaffo al vittorioso referendum del 2011 non rappresentano semplici effetti collaterali di quanto sta accadendo, bensì ne costituiscono il cuore e l'anima.

A tutto questo occorre rispondere con una vera e propria sollevazione dal basso, con iniziative di contrasto in tutti i territori e l’inondazione di firme in calce alla petizione popolare per il ritiro del decreto Madia, promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua all’interno della stagione appena aperta dei referendum sociali.

Oggi più che mai, si scrive acqua e si legge democrazia.

La reale entità del risultato del referendum e le prospettive che si aprono per fronteggiare il rischio che la prossima decisiva consultazione referendaria, quelle sulla "deforma costituzionale", si concluda con la vittoria definitiva del renzismo.

Il manifesto, 20 aprile 2016

Gli elettori italiani, malgrado le tante delusioni, sono sempre più concreti e seri di tanti loro rappresentanti. Anche questa volta la mia impressione è che chi era informato è andato a votare e che lo abbia fatto più per i contenuti del referendum che per motivazioni politiche generali o per seguire indicazioni di partiti ai quali sempre meno persone credono.

Parto da una constatazione: la percentuale di votanti di oggi, 32%, è perfettamente identica a quella dei sette referendum abrogativi del 2000 (tra il 31.9% ed il 32,5%). Per capire se il risultato debba essere interpretato come una vittoria o una sconfitta è opportuno ricordare alcune peculiarità. Ci sono, infatti, più che nelle occasioni precedenti, molti fattori che hanno agito nella direzione di una minore affluenza.

Vediamone i principali: 1)- in tutti in sondaggi dell’ultimo anno la somma di indecisi ed astenuti si è stabilizzata ormai intorno al 50%. 2)- questo referendum non è nato da una raccolta di firme con i tavolini dei promotori alcuni mesi prima. E’ stato richiesto da alcune regioni, istituzioni che non vivono di grande prestigio tra la gente ed il suo svolgimento è stato incerto fino all’ultimo.

3)- il quesito sul quale si è votato è l’unico rimasto dei sei di partenza perché cinque sono stati risolti depotenziando quello che restava; 4- il quesito rimasto riguardava un tema poco legato ad effetti visibili ed immediati ed interessava più “direttamente” solo alcune aree che lo hanno promosso (non a caso la percentuale di votanti dell’area adriatica è stata superiore di quasi dieci punti rispetto a quella delle altre regioni); 5- il connotato ambientalista che lo ha caratterizzato ha riproposto un tema divisivo come quello della contrapposizione ambiente-lavoro abilmente sfruttato e che ha diviso anche il sindacato; 6- l’informazione di merito avrebbe dovuto essere, proprio per la complessità detta, più ampia di quella registrata nelle precedenti occasioni; è stata, al contrario, molto più bassa.

Considerando l’insieme di questi aspetti, che sedici milioni di elettori siano andati a votare ed oltre tredici milioni abbiano votato Si è un fatto di non poco conto. Certamente i comportamenti elettorali sono stati influenzati dalle appartenenze politiche, ma solo in minima parte. Stando alle indagini sulle intenzioni di voto degli elettori dei singoli partiti avrebbero votato la metà degli elettori del M5S e della Sinistra Italiana, il 27% degli elettori di destra, ed, udite, udite, il 27% degli elettori del Pd. Poiché in tutti gli elettorati una parte consistente degli elettori che votano alle politiche non va a votare ai referendum questo 27%, orientato a votare, fa pensare che gli obbedienti a Renzi siano stati non molti di più di quelli disobbedienti.

Detto questo, però, non possiamo non vedere l’altra faccia della medaglia. Il mancato raggiungimento del quorum lo rende non valido e per chi puntava al suo fallimento è una vittoria perché quello che conta è il messaggio sintetico arrivato al paese. Il premier che non deve perdere mai non ha perso un minuto per cantare vittoria – a nome addirittura dei lavoratori che hanno salvato il loro lavoro – e questo messaggio ha offuscato tutte le altre interpretazioni apparse come le solite parole, rabbiose, di chi ha perso, ma non vuole ammetterlo.

Vincere, quindi, è stato facile. Ma diciamocelo: Renzi è un grande maestro nel giocare solo le partite che sa di vincere prima di giocarle. La sua carriera politica si è tutta snodata su questo principio di “buona” politica: scegliere il terreno di gioco (ha fatto decadere gli altri quesiti referendari tranne questo), assegnare i ruoli anche agli avversari (il governo per la difesa del lavoro nelle piattaforme, gli altri contro), scegliere il momento (non accorpamento con le amministrative).

La carriera del leader ha avuto un iter con tutti i passaggi tipici di un percorso professionale, ma ogni tappa è contrassegnata da una scelta: utilizzare lo scalino già raggiunto per preparare il balzo a quello successivo e farlo solo nel momento in cui si sono create le condizioni della vittoria sicura. Così è stato con la scalata al partito, poi con quella al governo, adesso col referendum. E, nel cronoprogramma, così dovrebbe essere col prossimo referendum costituzionale.

Ogni tanto opinionisti vari si cimentano col confronto Craxi – Berlusconi – Renzi. Ed in questa occasione il confronto era facile, il “non votare” di Renzi troppo simile al “tutti al mare” di Craxi.

I tre personaggi sono fortemente diversi per storia, cultura politica, personalità. Ma se le persone sono diverse, le politiche che essi rappresentano appartengono allo stesso ceppo e sono in perfetta continuità. Craxismo, berlusconismo, renzismo sono tre tempi della stessa politica, quella affermatasi come reazione alle conquiste nei diritti e nella distribuzione del reddito dei trent’anni seguiti al dopoguerra che nei paesi guida ha assunto le vesti della Thatcher e di Reagan ed in Italia quelle più italiote di Berlusconi.

Adesso il ciclo è al suo culmine: simbolicamente Craxi lo aprì con l’abolizione della scala mobile, Renzi lo conclude con quella dell’articolo 18. Ma a questo punto Renzi ha già compiuto un passo avanti perché dai predecessori ha imparato una cosa: se non si vogliono subire i contraccolpi delle politiche fatte che ne hanno segnato la sconfitta, occorre assicurarsi un potere assoluto di governo. Su questo punto i predecessori ci hanno provato senza riuscirci dovendo fare i conti con l’opposizione del Pci ed eredi. Renzi, perciò, ha prima conquistato gli eredi e subito dopo, con la riforma costituzionale e con l’Italicum, ha piantato i pilastri del potere assoluto di governo.

Così egli ha già segnato due punti a suo favore e col Si ad ottobre, avendo già incassato la legge elettorale, vuole garantirsi il potere per i prossimi cinque anni (solo gli ingenui possono credere che se vincerà il prossimo referendum resisterà alla tentazione di saltare i congresso del partito e di portarci alle elezioni). Proprio per questo egli ha caricato di significato il referendum e sta già preparando il passaggio al gradino successivo, il prossimo referendum costituzionale, saltando non ha caso le amministrative perché in questo caso la vittoria non è facile.

A sinistra, adesso, si pongono, alla luce del referendum svolto, problemi decisivi e non rinviabili. Li elenco solamente sperando che su di essi si possa sviluppare un ampio confronto: in queste elezioni amministrative è determinante che la linea Renzi venga sconfitta; il prossimo referendum non nasce da una processo partecipato di raccolta firme, dobbiamo farlo vivere tra le persone nei contenuti e chiedere, con i radicali, che i quesiti vengano disaggregati per impedire il referendum su Renzi Si o Renzi No; dobbiamo trovare il modo di modificare al più presto la legge elettorale prima dello svolgimento del referendum; la sinistra Pd in questi mesi si gioca il suo futuro e determinerà quello del paese: occorre allora che essa agisca alla luce del sole sul referendum ed occorre, nel concreto delle scelte da fare, costruire una relazione tra tutte le forze che vogliono contrastare la deriva renziana prima che sia troppo tardi per arrestarla.

«Con l’introduzione della cosiddetta autorizzazione unica, le società estrattive non sarebbero state costrette a pagare alla Regione e agli enti locali le compensazioni ambientali necessarie». Il Fatto Quotidiano, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Lo ha detto il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano: Renzi non può dare la colpa alle Regioni e accusarle di essere d'ostacolo alle strutture strategiche italiane “di pubblica utilità”, non può accusare le amministrazioni di bloccare opere pubbliche che danno lavoro e favoriscono lo sviluppo economico. Non può farlo perché, almeno nel caso di Tempa Rossa e dell’adeguamento delle strutture della raffineria di Taranto per lo stoccaggio del greggio proveniente dalla Basilicata, non è vero.


Il ruolo della Regione
«Ti hanno detto male, Matteo, se ti hanno riferito che la Regione Puglia si opponeva a Tempa Rossa - ha detto il governatore pugliese nel suo intervento in Direzione Pd, lunedì pomeriggio - la Puglia quel progetto lo ha approvato». In effetti, è stato autorizzato nel 2011, rispettivamente con l'esito positivo della Valutazione d'impatto ambientale (la cosiddetta Via) e con quello dell'Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia). Perché allora la necessità dell'emendamento sblocca Tempa Rossa inserito nella legge di Stabilità, che rende strategiche tutte le opere connesse all’attività estrattiva come gasdotti, porti, siti di stoccaggio?
L'interesse delle aziende
Una delle risposte è che sia per evitargli problemi con gli enti locali e altre spese. Il governatore della Puglia lo spiega alla fine dell'incontro: Renzi lo ha fatto perché così le società (con l’introduzione della cosiddetta Autorizzazione unica) non sarebbero state costrette a pagare alla Regione e agli enti locali le compensazioni ambientali necessarie quando si realizzano infrastrutture di elevato impatto ambientale, come oleodotti o impianti di stoccaggio. Compensazioni che la Regione discute con le aziende coinvolte e che gli permette o di ottenere in cambio servizi e nuove opere, o di mettere da parte soldi per far fronte a eventuali incidenti come contrappeso del rischio e dell’eventuale inquinamento.
Compensazioni
Nel 2011, ad esempio, la Regione Puglia - a quel tempo governata da Nichi Vendola - aveva elaborato una proposta di deliberazione che prevedeva, come contrappasso, compensazioni per l'inquinamento dovuto al traffico navale, per il rischio di inquinamento delle coste circostanti “a forte vocazione turistica ed elevato pregio ambientale” in caso di incidenti di navigazione o avarie. Inoltre, si proponeva un potenziamento nel vicino Parco delle Gravine con la realizzazione, a carico di Eni, di impianti fotovoltaici (con devoluzione in conto energia) su ospedali, università e centri di ricerca della Regione. Un dialogo che quando un'opera diventa strategica, come è successo nel caso degli oleodotti e degli impianti di stoccaggio grazie all’emendamento Guidi, non è più necessario perché decide tutto il governo. Le aziende possono fare ciò che vogliono senza dover trattare con le Regioni.
L'Ilva
A ostacolare il progetto di adeguamento delle raffinerie di Taranto, tra il 2011 e il 2014, in realtà è stato il timore che al disastro ambientale dell ’Ilva si sommasse Tempa Rossa. La pressione e lo scontento dei cittadini e degli ambientalisti ha reso cauti gli enti locali, tanto che a settembre del 2014, la Regione Puglia chiede il riesame del parere di Via sul progetto Tempa Rossa, su suggerimento dell'Arpa, l'Agenzia Regionale di Protezione Ambientale, che riteneva non fosse stato elaborato tenendo conto della vicinanza con l’Ilva.
Le opportunità
Quelle per il territorio, secondo i dati della stessa Total, sono molto limitate. Le royalty per la Regione (tra le più basse del mondo e in Europa) provenienti dai pozzi Tempa Rossa, a regime sarebbero pari a 180 milioni di euro all’anno. Dato calcolato su un prezzo medio di 100 dollari a barile. Oggi, che il petrolio è sui 37-38 dollari, spiegano i Verdi, si scende a 68 milioni l’anno. E quanto incassa la Total? Con un investimento di 1,6 miliardi di euro, prende un miliardo di euro all’anno a prezzo di barile. E va in profitto nel giro di due anni mentre in Basilicata diminuisce il numero di residenti nelle città delle trivelle e il comparto agricolo si riduce (dati Corte dei conti 2014).
«Tra i membri del comitato sulla sicurezza ambientale sulle licenze offshore spunta la Marina militare. Incaricato ne è addirittura il sottocapo di Stato maggiore. Cosa ci fa un simile alto papavero in una struttura con compiti assolutamente civili».

Il manifesto, 5 aprile 2016 (m.p.r.)

Il mare non bagna Tempa Rossa, il pozzo di coltivazione che sorge nell’alta Valle del Sauro, in Basilicata, ma tanti altri pozzi dello stesso tipo potrebbero sorgere all’orizzonte. La legge che dovrebbe vegliare sul non ripetersi di gravi danni ambientali in relazione all’estrazione di idrocarburi a mare esiste da appena sette mesi ed è stata fortemente voluta dall’Europa. Ma gli ambientalisti contestano il modo con cui il governo Renzi, con legge delega, ha recepito la direttiva europea nel settembre scorso.

La legge è nata per tutelare il mare da gravi rischi ambientali, ma nella sua traduzione italiana risulta incongruente con le indicazioni europee, viziata di conflitto di interessi, inficiata da un indebito interventismo del ministero dello Sviluppo economico fino alla scorsa settimana guidato da Federica Guidi, con tutte le sue relazioni familiari e politiche, tanto da sollevare pesanti interrogativi alla luce dell’ingerenza della lobby petrolifera che l’inchiesta della procura di Potenza sta iniziando a delineare.

Legambiente ha già avviato le procedure per impugnare la normativa per il rilascio di nuove licenze (la numero 145/2015) in sede comunitaria e sta valutando se presentare anche un ricorso all’Alta corte per incostituzionalità. Andiamo per gradi.

All’inizio fu il disastro della piattaforma offshore della Bp nel Golfo del Messico, una catastrofe che mise il mondo in allarme e non solo dal punto di vista dei possibili danni all’ambiente ma anche sui costi delle bonifiche e sulla capacità degli Stati di farli pagare alle compagnie estrattive. Era il 2010, la Commissione Ue impiegò tre anni per redigere una direttiva severa in materia per tutti i mari, ampiamente trivellati ormai, che circondano il vecchio continente.

Mentre in Italia le lobby estrattive scalpitavano, a cominciare dai francesi del consorzio Vega, per riprendere e in modo massiccio le trivellazioni offshore anche davanti alle nostre coste così parche di giacimenti di una certa consistenza. Ma con un piatto ricco di agevolazioni statali all’investimento privato nel settore.

E la normativa alla fine è arrivata, redatta dal governo, delegato dal Parlamento, con largo anticipo sul termine ultimo fissato dall’Europa al prossimo 19 luglio. Ma del tutto stravolta rispetto alla prescrizione fondamentale della direttiva 30/2013, che era quella di assicurare l’indipendenza dell’autorità di controllo sulla solidità gestionale, tecnica e finanziaria degli operatori, autorità che non avrebbe dovuto confondersi con l’ente statale erogatore della licenza di estrazione (l’articolo 3 della direttiva per una volta obbliga tutti gli Stati Ue, esplicitamente, a evitare «conflitti d’interessi»).

Invece l’articolo 8 della legge di recepimento italiana istituisce come autorità di controllo un fantomatico comitato che ha persino sede presso il ministero dello Sviluppo economico (Mise), lo stesso ministero responsabile della concessione delle licenze, che ne fa anche parte ai massimi livelli, e risulta dunque controllore di se stesso. Non solo.

Come per magia tra i membri del comitato sulla sicurezza ambientale sulle licenze offshore spunta, a fianco di capitanerie di porto e guardia costiera, la Marina militare. Incaricato ne è addirittura il sottocapo di Stato maggiore. Cosa ci fa un simile alto papavero in una struttura con compiti assolutamente civili e casomai ispettivi? Un’anomalia a livello europeo, dove nessun altro stato ha fatto una scelta tanto bizzarra. In Senato infatti la scelta è stata aspramente contestata nel parere della commissione mista Ambiente-Industria.

«Sappiamo ancora poco dell’inchiesta potentina - dice Giorgio Zampetti, responsabile scientifico di Legambiente - ma le intercettazioni e il coinvolgimento del capo di Stato maggiore della Marina De Giorgi fanno sorgere il sospetto che continui a esserci una forte pressione anche sulla legislazione da parte dell’industria estrattiva. Attendiamo gli sviluppi e maggiori informazioni ma è chiaro che questi possibili legami riaprono il dibattito anche su questa legge».

Un'analisi lucidissima ed impietosa del nostro premier e di ciò che svela la sua comunicazione, pronunciata da un prestigioso intellettuale che ci osserva dall'altra parte dell'Atlantico. La voce di New York, online, 31 marzo 2016 (m.p.g.)

Questa mattina Matteo Renzi parlerà a Harvard. Penso che abbia voluto venirci, oltre che per promuovere se stesso, per promuovere in Italia la sua riforma dell’università. Il premier italiano lo disse chiaramente, alcuni mesi fa: bisogna imitare il modello americano. E ora è venuto per far vedere ai suoi connazionali ed elettori che lui quel modello lo conosce. Harvard è la più prestigiosa università del mondo e questo gli basta: non si domanda con quali criteri e scopi siano stilate le classifiche di eccellenza o quali siano le condizioni e implicazioni di una simile preminenza (per esempio che Harvard sia una corporation con un capitale di più di 36 miliardi di dollari che ammette lo 0,04% degli studenti che ogni anno vanno al college) o tanto meno quale sia il livello delle altre 4139 università americane: no, lui tornerà tutto contento in patria e proclamerà che l’università italiana, la più antica del mondo, deve diventare come quella americana, convinto che se lo diventasse non sarebbe una scopiazzatura fuori contesto e fuori tempo (l’America sta cominciando a guardare all’Europa per rimediare ai disastrosi scompensi del suo sistema educativo) ma una sua grande innovazione. Un po’ come se gli riuscisse di aprire uno Starbucks in Piazza della Signoria a Firenze; o ancor meglio in Piazza della Repubblica a Rignano sull’Arno.

Ma non è per questo che stamattina non andrò a sentirlo. E neppure per via del mio radicale dissenso con il suo progetto di reaganizzare l’Italia (e per di più in ritardo, quando gli altri paesi stanno cercando rimedi): non andrò a sentirlo perché è venuto a Harvard con lo stesso spirito con cui sarebbe andato a inaugurare un centro commerciale o ad aprire il nuovo anno alla Borsa di Milano. Tutte cose che un primo ministro deve fare: ma accorgendosi che sono differenti e rispettando le loro differenze. Per Renzi invece sono la stessa cosa: occasioni di visibilità, interamente prive di contenuti.

Significativamente, non parlerà alla Kennedy School of Government, dove avrebbe avuto senso per il ruolo istituzionale che ricopre. E neppure a economia, in riconoscimento delle sue riforme liberiste. Parlerà in un museo, all’Harvard Museum. Scelto, immagino, per confermare l’immagine che dell’Italia hanno gli americani: il paese della cultura e della bellezza. Forse chi lo ha invitato ricordava la sua foto insieme a Angela Merkel sotto il David, al meeting di un anno fa alla Galleria dell’Accademia: senza accorgersi (o peggio: senza curarsi) di quanto non autentica fosse quella cornice: ambienti carichi di storia abusati per promuovere politiche globaliste, volte a distruggere proprio quell’identità culturale.

Più che un rottamatore Renzi è in effetti un disneyficatore: che banalizza tutto ciò che tocca riducendolo a evento mediatico, dunque equivalente a qualsiasi altro che attiri l’attenzione dei giornali e dei network televisivi, senza gerarchie, distinzioni, senza valori di riferimento. La sua dimensione è quella della pubblicità e dei reality, in cui si fa finta di essere veri ma facendo in modo di non essere davvero creduti, in cui ci si maschera ma mantenendo una distanza ironica che impedisca equivoci, guardandosi bene dal correre il rischio che possa diventare un’esperienza autentica e dunque cambiare qualcosa.

In ciò Renzi è integralmente liberista, impegnato nella sistematica deregulation dei princìpi e specificamente dell’autenticità: contro la quale impiega collaudate tecniche come la cazzata, che toglie di significato (scrisse il filosofo Harry Frankfurt in un celebre saggio) all’opposizione verità-menzogna e realtà-virtualità.

Non so di cosa parlerà a Harvard. Gli annunci del suo intervento non aiutano: “A keynote address”, “un discorso ufficiale”, senza ulteriori specificazioni, a confermare che non è venuto perché avesse qualcosa da dire. C’è venuto per far sapere che c’è stato. Presumo che abbia messo qualcosa insieme all’ultimo momento, cercando su Google qualche aneddoto su Harvard; come fece poco più di un mese fa in un’altra università, quella di Buenos Aires, dove al termine di un discorso confuso e infarcito di perle da Baci Perugina (“Non c’è parola più grande dell’amicizia per descrivere la storia di popoli diversi”: qualcuno mi spieghi cosa significa) citò in spagnolo dei versi di Borges. Solo che non era una poesia di Borges, subito notò El País, bensì un falso che compare su internet quando si inserisca la coppia di parole borges-amicizia.

Qualcuno ricorderà il concetto rinascimentale di sprezzatura, teorizzato nel Cortegiano, uno dei libri italiani che più influenzarono la civiltà europea. Castiglione pretendeva dalla classe dominante, in cambio dei suoi privilegi, capacità e stile senza ostentazione: bisognava sapere tutto e saper fare tutto però come se fosse una cosa naturale. Ma quella era una società fortemente regolamentata. Nell’età della deregulation i vincenti alla Renzi seguono un precetto opposto: ostentazione senza capacità né stile.

Per questo stamattina non andrò a Harvard ad ascoltarlo.
Perché a differenza di Berlusconi e di tanti altri politici, Renzi non si limita a ignorare la cultura o magari disprezzarla. La cultura può sopravvivere all’ignoranza e al disprezzo. No, Renzi la svuota. Con la sua programmatica trivialità svilisce la ragione e il linguaggio, riduce la comunicazione, ossia la facoltà più propriamente umana e sociale, a rumore. La chiarezza e il rigore costringono a una certa misura di coerenza; le improprietà deresponsabilizzano, rendono tutto indifferente, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, le qualità e i difetti, i profittatori e le loro vittime. E quando il vuoto diventa uno stile e un programma, la fine della democrazia è pericolosamente prossima.

P.S. È giusto precisare che ad accorgersi della gaffe di Renzi non furono gli argentini e neppure El País bensì Miru e Sten sul canale YouTube “Mia sorella”. Solo dopo la loro segnalazione i giornali di tutto il mondo diedero risalto alla superficialità del premier italiano.

«Gli uffici legislativi delle due ministre scrissero la norma in contatto costante con Eni, Shell e Total».

Il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2016 (m.p.r.)

Potenza. Il concetto - non letterale suona così: «Mandatemi solo gli scritti e stop con gli incontri». L’autore della mail è Roberto Cerreto, capo di Gabinetto del ministro per i Rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Il via vai di bozze, correzioni, proposte, valutazioni sull’emendamento è incessante. E così, se non siamo dinanzi a una dettatura, poco ci manca. Siamo a dicembre 2014. L’emendamento che serve alla joint venture di compagnie petrolifere interessate al Tempa Rossa - Total, Shell e Mitsui - ha già subìto un inciampo poche settimane prima. Avrebbe potuto vedere la luce nel decreto Sblocca Italia. Ma non è andata come auspicavano le compagnie. E neanche come desiderava Gianluca Gemelli, compagno di Federica Guidi che, secondo l’accusa, stava realizzando, spendendo il ruolo dell’ex ministra, il reato di traffico di influenza illecita per incassare, attraverso la Total, un subappalto da 2,5 milioni di euro.

Negli stessi giorni in cui Cerreto chiede di ridurre gli appuntamenti personali, che si sono fatti sempre più frequenti, c’è un altro capo di Gabinetto impegnato a gestire i rapporti con le compagnie: si chiama Vito Cozzoli. È il braccio destro del ministro Guidi. Fino al caso Tempa Rossa e ai fibrillanti giorni di fine 2014, le compagnie petrolifere, per gestire i propri interessi, erano abituati a confrontarsi con l’uomo più competente per materia, ovvero Franco Terlizzese: è il direttore generale per le risorse minerarie ed energetiche. Ma evidentemente è necessario rapportarsi meglio con la sponda più politica del ministero: il capo di Gabinetto Cozzoli. E così la traiettoria cambia, le compagnie iniziano a discutere, oltre che il braccio destro della Boschi, anche con l’omologo della Guidi.
È vero ciò che dice il premier Matteo Renzi che ieri, intervistato da Lucia Annunziata a In 1/2 ora, ha confermato quanto anticipato ieri dal Fatto: «Quell’emendamento l’ho voluto io»: fu scritto inizialmente dal suo ufficio legislativo. Ma è anche vero che, nel dicembre 2014, dopo la “bocciatura”nello Sblocca Italia, il politico più ricercato dalle compagnie è un altro: Maria Elena Boschi. Il motivo è semplice: le lobbies petrolifere, proprio per l’inciampo subìto in prima battuta, hanno compreso che è necessario curare un aspetto che, prima di allora, non avevano valorizzato adeguatamente: il rapporto con il Parlamento.
È questo il momento in cui Boschi inizia a essere “corteggiata” dalla diplomazia internazionale, incluso l’ambasciatore inglese, come lei stessa ha confermato, che la segue con attenzione, nonostante debba confrontarsi con l’inglese incerto della giovane ministra. Non è un caso che la stessa Guidi, intercettata con il suo compagno, alla vigilia dell’emendamento nella legge di stabilità commenti: “Se è d’accordo Maria Elena...”. L’“accordo”di Maria Elena è ritenuto fondamentale, proprio per i “rapporti con il Parlamento”, principalmente dalle lobby petrolifere: è lei il cavallo vincente per non ripetere il fiasco di pochi mesi prima, quando l’emendamento “ideato” da Renzi, non è riuscito a transitare nello Sblocca Italia. I timori delle compagnie sono tutti concentrati sul ruolo che svolgerà l’Eni sulla partita esportazione che Total, Shell e Mitsui si stanno giocando per far partire il petrolio da Taranto.
La joint venture - raccontano al Fatto fonti qualificate - diffidano così tanto che non coinvolgono nell’azione lobbistica l’Assomineraria che, secondo loro, è ostaggio Eni. Nel frattempo si individuano le scrivanie dove far pervenire modifiche all’emendamento, idee di sub emendamenti, correzioni alle correzioni delle correzioni. Tra queste scrivanie, la più importante, è quella del capo di Gabinetto della Boschi, Cerreto che con Cristiano Ceresani, all’ufficio legislativo, deve rendere digeribile il seguente concetto: se le autorità locali - ovvero Regione Puglia e Comune di Taranto - non sono d’accordo con il progetto di costruire una banchina nel porto, che consenta alle compagnie di esportare il petrolio, nei fatti il governo può intervenire per sbloccare la situazione.

Il problema della joint venture infatti è superare l’avversità dei pugliesi al progetto. Le compagnie sono certe che, grazie all’apporto della Boschi, si potrà riuscire dove prima, con l’emendamento “targato” Renzi, non si era riusciti. Il loro interesse è esportare. Punto. Il petrolio del Tempa Rossa non è quindi destinato ai consumi interni. L’Eni non dovrà neanche utilizzare le sue, peraltro datate, raffinerie: il processo avverrà all’estero. L’unico beneficio che resterebbe in Italia sono le royalty - piuttosto esigue - per l’estrazione. E ovviamente i posti di lavoro. La pressione delle compagnie è elementare: se strozzi il progetto dell’esportazione, diminuisco la produzione, l’Italia perde royalty e posti di lavoro. In cambio Renzi, Boschi e Guidi, decidono di offrire alla joint venture una città come Taranto. Negandole la possibilità di decidere.

«Spiace per Matteo Renzi ma da questo punto di vista in Italia non è cambiato proprio niente: la politica non riesce a darsi né un limite né un’etica, se non quando incappa, e meno male che ci incappa, nelle indagini della magistratura». I

nternazionale, 1 aprile 2016

Con noi le cose cambiano. Noi siamo diversi dal passato. La ministra Federica Guidi non ha fatto nessun illecito, ha fatto solo una telefonata inopportuna ma si è dimessa, a differenza della ministra Cancellieri sotto il governo Monti: segno che in Italia qualcosa è cambiato”. Matteo Renzi dixit, dagli Stati Uniti dove oggi si è occupato di Libia ma fino a ieri sproloquiava, guarda un po’, di politica energetica. Altro che abilità comunicativa: sono parole che lasciano allibiti.

Una telefonata inopportuna: starebbe qui il nocciolo delle dimissioni della ministra dello sviluppo economico? E se sta qui, perché allora accettarle in fretta e furia, prima dei tg delle 20 di giovedì perché tanto quello che conta è sempre e solo l’audience? Informare il proprio compagno, dirigente Total, che grazie a uno dei soliti blitz parlamentari del governo l’affare che gli garantirà carriera e subappalti sta per realizzarsi significa solo fare una telefonata inopportuna? O significa fare a lui e alla sua lobby di riferimento – l’Eni guarda caso, la stessa che sta dettando la politica italiana nei confronti dell’Egitto di Al Sisi – un gran favore, abusando del proprio ruolo di potere? Non c’è “nessun illecito” in quella telefonata e in quell’abuso? Nell’esercizio del potere è tutto lecito se non è penalmente sanzionato, anche quello che va eclatantemente sotto le rubriche del familismo, del clientelismo e del conflitto d’interessi? Spiace per Matteo Renzi ma da questo punto di vista in Italia non è cambiato proprio niente: la politica non riesce a darsi né un limite né un’etica, se non quando incappa, e meno male che ci incappa, nelle indagini della magistratura.

Qualcosa è cambiato, invece, grazie alla tinteggiatura rosa del governo. Le ministre sono schiave delle lobby quanto i ministri, pari e patta, però leggere di un signore che scodinzola con i suoi capi esibendo le news che gli arrivano da una fidanzata più potente di lui è una bella soddisfazione. I pm lo chiamano “traffico di influenze illecite”, perché la legge Severino punisce con un paio d’anni di galera chi ricava o promette denaro e altri vantaggi sfruttando le proprie relazioni con un pubblico ufficiale o un incaricato di servizio pubblico, ma ammettiamolo: meglio così di quando le mazzette e i subappalti erano solo gli uomini di casa a procurarli. Ringraziamo la ministra Guidi per questo significativo riscatto del secondo sesso.

E passiamo alla sostanza politica che c’è sotto quella “telefonata inopportuna”, e su cui non è possibile glissare. Renzi infatti non glissa, anzi rivendica: quell’emendamento che sbloccava l’affare Tempa Rossa “era sacrosanto”. Portava sviluppo e posti di lavoro. Sono gli stessi argomenti che il premier sbandiera a sostegno delle trivelle, e qui di nuovo qualcosa in Italia è cambiato, ma in peggio, perché da decenni non si sentiva, nel campo che si vorrebbe di centrosinistra, una scotomizzazione così netta delle ragioni dell’impresa e dell’occupazione da una parte e dell’ambiente dall’altra. Renzi rinfaccia un giorno sì e l’altro pure a Bersani di non aver vinto le elezioni, ma farebbe bene a ricordarsi che lui e il Partito democratico stanno comunque governando sulla base della mezza vittoria del centrosinistra del 2013, e che quella mezza vittoria fu ottenuta sulla base di un programma che in materia di politica dell’energia e dell’ambiente diceva il contrario esatto di quello che lui sta facendo oggi.

Infine ma non ultimo. L’emendamento salva-Eni, salva-Total e salva-fidanzato della ministra era stato bocciato il 17 ottobre 2014 nel dibattito parlamentare sul decreto sblocca-Italia, per essere riproposto il 17 dicembre, Maria Elena Boschi consenziente, all’interno di un maxi-emendamento del governo alla legge di stabilità. Un percorso che è un mirabile concentrato dell’arte di governo di Renzi e dei suoi, Boschi in primis, un’arte fatta di voti di fiducia, maxi decreti, maxi emendamenti e canguri, che ha ridotto il parlamento a nulla più che un ufficio notarile dei voleri del Capo. Ed è solo l’antipasto del menù che ci aspetta qualora la riforma costituzionale Boschi-Renzi diventasse realtà. Non si tratta di aprire gli occhi solo sul referendum anti-trivelle. Si tratta di spalancarli anche sul referendum costituzionale. Se questo fosse l’effetto, perfino le dimissioni di una ministra incapace di distinguere l’interesse pubblico da quello del suo compagno non sarebbero state vane.

».

Il manifesto, 1 marzo 2016

“Il tentativo del governo di far sì che chi ritarda il pagamento di sette rate del mutuo sia costretto a cedere la proprietà della sua casa alla banca è abominevole”. Anche Pippo Civati si aggiunge alla lista dei parlamentari, di ogni colore politico (Nunzia De Girolamo di Fi, Alessandro Di Battista del M5S, Giorgia Meloni di Fdi, e in prima battuta gli ex pentastellati di Alternativa libera), che stanno denunciando la peculiare chiave di lettura con cui l’esecutivo di Matteo Renzi vuole armonizzare nella normativa italiana una direttiva Ue, la 17/2014.

Il caso sta facendo sempre più rumore. Non solo per gli effetti pratici della futura legge, in un paese dove quasi l’80% degli abitanti ha, o si sta facendo, una abitazione di proprietà. Anche per i motivi politici — leggi aiuto alle banche – che ne avrebbero aiutato la genesi. Perché con la normativa riveduta e corretta dal governo, gli istituti di credito si potrebbero impossessare subito della casa, senza prima passare dal giudizio della magistratura.

“La direttiva europea nasce come strumento per la protezione dei consumatori nel settore dei contratti di credito relativi ai beni immobili – ricordano i parlamentari di Alternativa libera – in altre parole contiene solo norme a tutela dei mutuatari in difficoltà. Mentre la legge di recepimento, così come è stata scritta, butterà in mezzo alla strada migliaia di famiglie, consentendo alle banche di bypassare le aste e di vendere direttamente i beni a prezzi ridicoli”.

Pietra dello scandalo è l’atto del governo nr. 256, bozza di un decreto legislativo sui finanziamenti ipotecari che intende modificare il Testo unico della finanza. Secondo il progetto del governo, alle banche sarebbe consentito di inserire nei contratti di mutuo, anche dopo la stipula, questa clausola: “In caso di inadempimento del consumatore, la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale, o dei proventi della vendita del medesimo, comporta l’estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all’eccedenza”.

Traduzione: il provvedimento governativo cancella in sostanza l’articolo 2744 del codice civile. In caso di inadempimento del mutuatario – un ritardo nel pagamento di sette rate, anche non consecutive, così come stabilito dal Testo unico della finanza — non sarebbe più obbligatorio per le banche rivolgersi al tribunale per poter entrare in possesso dell’immobile ipotecato e metterlo all’asta. Di più: la mano libera alle banche è anche fiscale, vista l’esenzione dal pagamento delle normali imposte del 9% sul valore dell’immobile a favore del creditore o degli acquirenti in asta, a patto che questi ultimi rivendano poi l’immobile a un acquirente finale. Che in teoria potrebbe essere anche una filiazione dello stesso istituto di credito che vende la casa. Insomma una legge-disastro.

Pippo Civati tira le somme: “Non c’è futuro per un paese che pensa di risolvere i problemi togliendo garanzie e la casa a chi ha difficoltà economiche”. Con il gruppo di Al, Civati chiama a raccolta i colleghi: “Faccio appello a tutti i parlamentari che credono nei valori della solidarietà, e che pensano che lo Stato sia al servizio dei cittadini e non delle banche. Si dia rapidamente vita a un intergruppo lampo, al di là dei gruppi di appartenenza, per correggere le aberranti previsioni contenute nell’atto del governo numero 256”. Del possibile intergruppo potrebbe far parte la forzista Nunzia De Girolamo, che tuona: “Grazie a Renzi e Padoan si rischia che chi non paga sette rate di mutuo perde la casa che passa direttamente alla banca. Sono folli?”. Dal canto loro, quelli di Alternativa libera hanno lanciato una petizione su change.org, anch’essa esplicita: “Renzi fermati! Non regalare alle banche le case di chi non può pagare il mutuo”. Ora la parola passa al parlamento.

Il Senato ha votato una mediocre legge sulle Unioni civili e non è stato un bello spettacolo. Non è stato bello vedere all’opera i nostri talebani contro le «checche isteriche», contro le adozioni proibite ai «contro natura», contro l’obbligo di fedeltà per le coppie gay dovendo restare — la fedeltà — esclusiva prerogativa del matrimonio. Quell’Italia anni ’50 radunata al Family day può dirsi soddisfatta. E’ stata egregiamente interpretata da un dibattito parlamentare intossicato da incivili argomenti, ed è ben rappresentata dalla sparuta truppa di Alfano, con la benedizione dello stato maggiore vaticano.

Nel Pd, con due eccezioni, Luigi Manconi e Michela Marzano, tutti hanno scelto di allinearsi al voto di fiducia. Nel partito di Renzi è subito scoppiata la pace, l’opposizione interna ha dato pieno appoggio alla linea del segretario-presidente. Con un largo giro di valzer, Monica Cirinnà, la paladina del provvedimento, dopo aver giurato che non avrebbe votato lo stralcio sulle adozioni, si è appuntata sul petto la coccarda del voto di fiducia. Finché si trattava di mettere una parola buona sui grandi principi di libertà e uguaglianza per i diritti, abbiamo assistito alla nobile gara a chi sosteneva di più le adozioni nelle coppie gay. Poi quando si è arrivati al dunque c’è stata la corsa a ripararsi sotto l’ombrellone della fiducia.

Inutile la buona volontà del presidente del senato Grasso, raggiunto dalle critiche del capogruppo del Pd, Zanda, per aver fatto il suo dovere togliendo di mezzo gli emendamenti-canguro. Una legge di iniziativa parlamentare è finita così bottino di governo. Con un vistoso anello portato in dote alla maggioranza (e al partito della nazione) dalla fiducia di Denis Verdini. L’organizzatore e il fedele custode del patto del Nazareno ha fatto il suo ingresso trionfale in maggioranza comunicando la decisione di votare la fiducia. Come dice Renzi per vincere e comandare non si fa l’analisi del sangue a chi ti vota. Il leader del partito democratico geneticamente modificato è sempre stato convinto che «senza i voti del centrodestra il Pd non vincerà mai le elezioni». E punta dritto all’obiettivo. Verdini e Alfano sono i due angeli custodi di questo presidente del consiglio e di questa legislatura.

I 5Stelle e Sinistra italiana hanno ingaggiato una forte battaglia di contenuti e di metodo. Contro l’amputazione della legge e contro i mostruosi canguri che erano solo una premessa per arrivare al voto di fiducia. E ora, insieme alle associazioni che hanno animato questa campagna per i diritti civili, contribuiranno alla mobilitazione nella società per togliere di mezzo le discriminazioni che una legge monca consente e alimenta, specialmente nei confronti dei bambini «illegittimi».

Se con le Unioni civili qualche discriminazione viene tolta alle coppie omosessuali e il bicchiere si può dire mezzo pieno, non altrettanto vale per le famiglie con i figli. Per loro non è ancora tempo di arcobaleni.

Alcuni dati interessanti sul peggioramento della nostra situazione provovato dai due anni del governo Renzi. Sbilanciamoci.info, newsletter n. 462, 24 febbraio 2016

A due anni dall’insediamento un contro bilancio dell’attività del governo Renzi. Tra le difficoltà sociali, la drammatica mancanza di lavoro e il degrado del sistema sanitario e scolastico

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Ci sono delle slide che Renzi – in occasione dei due anni dall’insediamento del suo governo (22 gennaio 2014)- non vi farà certamente vedere. Sono le slide che testimoniano la crisi del paese e l’inefficacia delle politiche del suo governo.

Un paese che non esce dalle difficoltà sociali e dalla drammatica mancanza di lavoro e che assiste al degrado del suo sistema sanitario e scolastico. Quello che non mancano sono la propaganda e gli spot di un governo che non riesce a far uscire dalla stagnazione l’economia nazionale (che sopravvive grazie agli aiuti esterni del calo del prezzo del petrolio e del quantitative easing di Draghi), che continua a regalare inutilmente una barca di soldi alle imprese e che ne spende tanti per le armi. Un governo che non ha riformato il mercato del lavoro, ma ha creato un inedito “mercato dei lavoratori”, senza diritti e sotto ricatto.

Visto che Renzi queste slide non ve le farà vedere, ve le proponiamo noi.

Renzi dice che ha rafforzato in questi due anni gli investimenti per la scuola e la sanità. Fantasie. Con l’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, la spesa pubblica per l’istruzione (in percentuale sul PIL) è passata dal 3,9% al 3,7% (e intanto si riducono le iscrizioni all’università) e quella per la salute dal 7% al 6,8%. Renzi dice che ha fatto crescere nel 2016 di un miliardo gli stanziamenti per la sanità. Non è vero. La (sua) ministra Beatrice Lorenzin il 14 luglio del 2014 (c’era Renzi, allora, no?) firma a nome del governo il Patto della Salute con le regioni che prevede l’ammontare della spesa pubblica per la sanità nel 2016 (con la crescita di fabbisogni e l’evoluzione naturale dei costi) a 115,4 miliardi. E quanto c’è nella legge di stabilità del 2016? Solo 111 miliardi, cioè oltre 4 miliardi in meno. Dice Renzi che ha fatto tanto per il sociale. Ma per il servizio civile (così importante per il nostro welfare) nel 2016 ha stanziato 215 milioni a fronte dei 300 milioni spesi nel 2015: significa 10mila giovani in meno per quest’anno. Ma non lesina i soldi per gli F35. Due anni fa nella legge di stabilità i fondi per gli F35 erano 500 milioni, mentre nel 2016 quasi 750 milioni: +50%. Un aumento percentuale così alto il “sociale” se lo sogna. Renzi davanti agli Scou

t a San Rossore aveva detto:“‘La piu’ grande arma per costruire la pace non sono gli Eurofighter o gli F35, ma la scuola. Quando fai delle spese che sono inutili, per il gusto di buttare via i soldi, ti senti piangere il cuore”. Solo chiacchiere: invece diminuiscono i soldi per la scuola e aumentano quelli per gli F35.

Ma a questo governo mancano i fondamentali dell’economia. Anche queste slide Renzi non ve le farà vedere. Intanto il debito pubblico negli anni del renzismo (nonostante i tagli drammatici agli enti locali e alla sanità) aumenta di ben quattro punti percentuali (siamo al 132,5%). E poi diminuiscono negli ultimi anni -e radicalmente- sia gli investimenti pubblici (che sono quelli che servirebbero per far ripartire l’economia), sia gli investimenti privati (quelli privilegiati dal governo, subalterno all’ideologia neoliberista), nonostante la valanga di soldi e di sgravi dati da Renzi a Confindustria e alle imprese private nelle ultime due leggi di stabilità.

Ci sono altre slide che Renzi non vi farà vedere e sono quelle che riguardano le tasse. Pavoneggiandosi come Giulio Tremonti (il taglio delle tasse era il suo pallino fisso), il nostro premier ha detto che questo è il primo governo che riduce le tasse, come quelle sulla casa (anche ai privilegiati e a chi non ne avrebbe bisogno). Peccato che l’ultimo DEF (Documento di Economia e Finanza) ci dica che la pressione fiscale nei due anni del suo governo sia passata dal 43,4% al 44,1% e che la Corte dei Conti ci informi che la pressione fiscale locale (a causa dei tagli del governo agli enti locali, che si vedono costretti ad alzare la tassazione locale per continuare ad erogare i servizi) è salita di oltre il 20%. Gli 80 euro vengono confermati, ma non per i precari, i disoccupati e i pensionati al minimo. Con una mano ti danno e con l’altra ti tolgono (di più). Delle tasse Renzi comunque le ha tagliate: quelle sui panfili e mega yacht. Voi continuete a pagare la tassa di proprietà sulla vostra utilitaria e i ricconi non pagheranno un’ero di tassa sul loro panfilo da due milioni di euro. Quando si dice: l’equità fiscale !

E poi c’è il lavoro. I dati di questi mesi sono contrastanti, ma quello che è certo è che molti dei nuovi contratti sono precari e sostitutivi (per avere le agevolazioni della decontribuzione) di quelli precedenti. Ma una slide che Renzi non vi fa vedere, ve la mostriamo noi. Nel gennaio del 2015 le ore di cassa di integrazione erano state 50milioni e nel gennaio 2016 quasi 57milioni (dati INPS): testimonianza che le fabbriche continuano a chiudere e gli operai a perdere il lavoro. Anche di più di un anno fa.
Guardatevi le nostre slide e capirete che quelle di Renzi sono in parte sbagliate o furbescamente artefatte, mentre molte altre mancano del tutto. Dalle slide di Renzi emerge molta propaganda e marketing. Ma questo paese ha bisogno di cambiare rotta, di abbandonare le politiche neoliberiste dell’austerità e di mettere al centro il lavoro, i diritti e la giustizia sociale. Proprio quello che Renzi e il PD non fanno: anzi fanno il contrario. E’ un cattivo compleanno questo del governo. Speriamo sia l’ultimo.

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a Repubblica, 25 febbraio 2016

«QUELLA di Human Technopole è una sfida complicata e difficile, ma ciò che sta accadendo è che dopo anni di ambizioni al ribasso la possibilità di avere il meglio viene finalmente messa in cantiere». Queste parole non sono state dette ad Hamelin dal pifferaio magico. Le ha pronunciate ieri a Milano il Presidente del Consiglio, presentando il progetto a suo dire “petaloso” per fare dell’ex area Expo un centro di ricerca di rilevanza mondiale. Progetto per il quale si investiranno un miliardo e mezzo di euro nei prossimi dieci anni. Risorse pubbliche, di tutti. La narrazione del premier in tema di politiche sulla ricerca fa sorgere il dubbio di essere spettatori della famosa favola dei fratelli Grimm.
Investire in innovazione e ricerca significa, nel mondo liberaldemocratico, dare spazio al confronto tra idee, per poi selezionare le migliori a beneficio di tutti.
PER farlo, prima ancora di scegliere su cosa e chi puntare le risorse, servono una programmazione e una valutazione terza, competente e indipendente delle proposte. Questa è politica per la ricerca. Il resto è un grande spot fondato sull’improvvisazione.

Che alla politica interessi e percepisca il valore di investire in ricerca in Italia è una favola a cui non crede più nessuno. Non è però questo il problema più grave. Peggio sono l’inaffidabilità, l’intermittenza, «la dispersione e la frammentazione» (cito il ministro Giannini) di quanto viene stanziato, i metodi di erogazione, cioè le procedure opache e con obiettivi vaghi di assegnazione dei finanziamenti, le valutazioni in itinere ed ex-post praticamente assenti. Il tutto condito da preoccupante approssimazione politica.

La stessa con cui si passa, indifferentemente, dalle public calls (i bandi pubblici) alle phone calls (le assegnazioni via telefono), o ai fondi top- down, assegnati dal decisore politico direttamente al beneficiario. E alla comunità scientifica che punta sulle idee anziché sulle relazioni privilegiate restano i bandi Prin, Firb e briciole varie.

I bandi per i Progetti di rilevante interesse nazionale (Prin) sono stati sbloccati lo scorso dicembre dopo tre anni di stallo, coprono tutte le aree del sapere con solo 92 milioni di euro per progetti di durata triennale. Oltre 4.400 quelli presentati. Dai revisori reclutati dai ministeri si ricevono tre righe di commento, spesso in contraddizione tra loro. Un abisso rispetto alle accurate valutazioni, ad esempio, delle revisioni dei bandi Telethon. Con i Prin 2015, poi, scopriamo che si può proporre il progetto anche in italiano. Scelta insensata per le discipline scientifiche, trattandosi di ricerche il cui valore si giudica su scala internazionale.

I vincitori dei Prin otterranno in media fondi per pagare la ricerca di un solo giovane ricercatore. Stop. Con queste risorse irrisorie i ricercatori lavorano per ottenere dati necessari per essere competitivi nei bandi europei. Si spiega così perché riportiamo a casa solo 8 dei 13 miliardi che diamo all’Europa. Al fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica del Miur sono stati destinati 58,8 milioni di euro nel 2016, con una riduzione di circa due milioni ogni anno fino al 2018. Con questa quota il Miur finanzierà sia i Prin sia il Fondo per gli investimenti della ricerca di base (Firb). Quindi a voler essere ottimisti, se un altro bando ci sarà, sarà al ribasso.

La legge di Stabilità 2016 ha tolto al Miur anche i fondi destinati a iniziative per la diffusione della cultura scientifica. Erano circa 10 milioni (ossia 20 volte meno rispetto ad altri paesi europei) ma nei prossimi tre anni si ridurranno ulteriormente del 40%. Scelta non proprio lungimirante visto il tasso di alfabetizzazione scientifica del Paese. È di poche settimane fa, poi, l’assegnazione di 21 milioni di euro al Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura, per il Piano triennale di ricerca agricola (il piccolo Lussemburgo investe nove volte di più), senza alcun bando pubblico per l’utilizzo di questi fondi.
Non solo si taglia ma si è schizofrenici nell’erogazione: ai bandi Prin non possono accedere direttamente studiosi del Cnr, ai bandi del ministero della Salute per gli Irccs non possono applicare i ricercatori universitari, poi ci sono i bandi Cnr per il solo Cnr, etc. Eppure gli obiettivi di ricerca spesso sono gli stessi.
E mentre la ricerca agonizza, spunta lo Human Technopole. Il presidente del Consiglio lo ha tirato fuori dal cilindro mesi fa definendolo “centro di ricerca mondiale su sicurezza alimentare, qualità della vita, ambiente” e affidandone (alla cieca) la gestione all’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova, fondazione di diritto privato. Per cui, mentre i ricercatori pubblici nemmeno sanno se esisterà un bando Prin 2016, un ente di diritto privato avrà garantiti 150 milioni di euro all’anno per dieci anni (ma allora le risorse ci sono!). Lo stesso a cui sono erogati da anni (sono già oltre 10) 100 milioni all’anno. Preziose risorse pubbliche che vengono stanziate dal governo di turno “senza accorgersi” che in buona parte sono accantonate in un tesoretto (legale ma illogico) che oggi ammonterebbe a 430 milioni. Risorse pubbliche per la ricerca “dormienti” depositati presso un fondo privato. Il progetto sul post-Expo è l’esempio più emblematico, tra i tanti possibili, delle distorsioni per fini politici, dell’improvvisazione e di come non si dovrebbero gestire i fondi pubblici per la ricerca. Un finanziamento top-down che crea una nuova corte dei miracoli (a prescindere che si chiami Iit) presso la quale c’è già chi si è messo a tavola.

L’Iit dice che non farà tutto da solo. Recluterà, con i soldi pubblici, ricerche (cioè idee) di altre istituzioni. Deciderà a chi e come distribuire i finanziamenti. Quali spazi assegnare e a chi. In altre parole l’Iit riceve e ri-eroga fondi pubblici, come un’Agenzia di finanziamento, come già in diversi casi succede ora (basta leggere i dati pubblici), quando ogni studioso avrebbe il pieno diritto di accedere ai fondi direttamente alla fonte pubblica, con l’idea di cui è depositario, senza pagare pegno al Re Mida di turno. Le collaborazioni tra idee e gruppi sono abituali nella scienza
e si sanciscono “alla pari” senza svendere le proprie idee a intermediari dell’erogatore pubblico.

Dieci anni fa il Gruppo 2003, gli scienziati italiani più citati al mondo, proponeva la nascita di una “Agenzia nazionale della ricerca”. Da allora la discussione sull’Agenzia langue. Per escogitare Human Technopole è bastata l’ispirazione estemporanea di un giorno. Per pianificare l’investimento decennale di un miliardo e mezzo di risorse pubbliche è bastata l’urgenza di mettere una “toppa glamour” al dopo Expo. Servirebbe, invece, mettere un limite all’arbitrio della politica, che dovrebbe solo scegliere gli obiettivi da perseguire. Si lasci alla libera e meritocratica competizione tra idee la selezione dei mezzi migliori per raggiungerli.

La comunità scientifica ha finito con l’appellarsi all’Europa con la petizione pubblica “Salviamo la ricerca italiana” per superare una condizione di pura sussistenza e assurdità. Mai come ora si sente il peso della propaganda politica, della spettacolarizzazione che tutto divora, compresa la speranza dei più giovani.

Elena Cattaneo è docente all’Università Statale di Milano e senatore a vita

«».Il Fatto Quotidiano, 22 febbraio 2016

Roma. Il “partito della cricca” è trasversale per vocazione. E infatti, se da un lato fa da stampella al governo Renzi, dall'altro rianima Silvio Berlusconi, offrendo il candidato per la corsa al Campidoglio. Il soccorso a Renzi è firmato Denis Verdini, quello all'ex Cavaliere è sulle spalle di Guido Bertolaso, e sia l'uno sia l'altro sono imputati nei processi sui Grandi Eventi e sugli appalti del G8. Entrambi accusati di concorso in corruzione.

Il “sistema gelatinoso” ricostruito in migliaia di pagine d'inchiesta - condotta dal Ros dei carabinieri guidati dal colonnello Domenico Strada e dalle procure di Firenze, Perugia e Roma - è ancora protagonista della politica. Verdini e Bertolaso sono soltanto imputati. Potrebbero essere assolti - entrambi ne sono convinti - e, comunque, risultano non colpevoli fino al terzo grado di giudizio. Ma il nodo, più che giudiziario, è politico. Anche se una sentenza definitiva c'è stata. Il 10 febbraio. La Cassazione ha confermato condanne piuttosto pesanti, per la “cricca” che lucrava sugli appalti del G8.

Le condanne per Balducci e De Santis
Angelo Balducci (l'ex presidente del provveditorato ai lavori pubblici) e Fabio De Santis (ex provveditore delle opere pubbliche della Toscana) dovranno scontare 3 anni e 8 mesi. Gli imprenditori Francesco De Vito Piscicelli e Riccardo Fusi, invece, rispettivamente 2 anni e 8 mesi e 2 anni, con sospensione della pena. L'accusa: concorso in corruzione aggravata per l'appalto della scuola Marescialli di Firenze. Parliamo dello stesso filone d'inchiesta che vede Verdini a processo dinanzi al tribunale di Roma. La storia è nota: Fusi, dopo un contenzioso con lo Stato, aveva perso l'appalto, ma riuscì a riconquistarlo con la mediazione del trio composto da De Vito Piscicelli, Balducci e De Santis. Nel merito del contenzioso con lo Stato, va detto, Fusi aveva persino ragione. Il punto è che per assicurarsi la partita la “cricca” non esitò a foraggiare De Santis con un Rolex. E nel frattempo Fusi chiedeva l'interessamento di Verdini.
«Ci hanno fatto uno scherzetto bruttino...», dice a Verdini nel 2008, «... ha chiesto lasospensiva ... e per quella cosa dei Marescialli … doveva essere una formalità ... il fatto che venisse respinta ... perché non c'era le condizioni … giovedì c'è stata la sentenza … gli hanno concesso la sospensiva ...». «Allora - risponde Verdini - guardo di fissare in settimana un appuntamento con il nostro ... vieni, così si va ...». Otto anni dopo - al di là dell'esito dei processi -Verdini è politicamente più forte che mai e con i suoi parlamentari di Ala sostiene il governo Renzi. Ma c'è di più. È lo stesso Verdini che, emerge dagli atti d'indagine sulla P3, in passato ha avuto prestiti per qualche milione di euro dal senatore di Forza Italia, re delle cliniche ed editore di Libero, Antonio Angelucci e dal faccendiere Flavio Carboni. Ma il Pd e Renzi non riscontrano alcun problema nell'accettare il suo sostegno.
Anemone, Zampolini e l’affitto a via Giulia
A Roma, invece, Guido Bertolaso tira la volata con la quale Berlusconi vuole risalire la china. È paradossale immaginare Bertolaso, che con gli affitti un problema l'ha avuto, argomentare con tutti i soggetti implicati in affittopoli. Certo, sostiene Bertolaso, l'affitto dell'appartamento in via Giulia, in quei pochi mesi, fu pagato dal re della “cricca”, l'imprenditore Diego Anemone, attraverso l'architetto Zampolini, completamente a sua insaputa. Lui immaginava che quella soluzione provvisoria - era andato via di casa per problemi familiari, dovuti all'eccessivo ritmo del suo lavoro - gliel'avesse trovata un comune amico del cardinale Crescenzio Sepe, che ha citato in tribunale, per scagionarlo dalle accuse. L'argomento - dipenderà dal convincimento del giudice - può avere una valenza processuale.
Ma restano agli atti le testimonianze di Zampolini e del proprietario di casa, Raffaele Curi. «Diego Anemone - dice Zampolini ai giudici - mi chiese negli anni 2002 2003 un appartamento in centro in via Giulia per un uso personale... non me lo chiese ai fini del dottor Bertolaso... Un piccolo appartamento in affitto…». Insomma, Anemone chiede a Zampolini di trovargli una casa in affitto per uso personale che, però, sarà poi abitata da Bertolaso. Dopo un primo anticipo, incassato da Anemone, il signor Curi non vede più un centesimo: «Il proprietario - continua Zampolini . però non percepiva più l'affitto... mi dispiaceva averlo messo in questa difficoltà...».
La situazione dell'inquilino Bertolaso diventa surreale. Dice Zampolini: «A Curi suggerii: ‘guarda, cambia la serratura della chiave, perché... sennò con questo non se ne esce’. E lui in quell'occasione mi disse: ‘Ah, perché sai ho visto due tre volte... il dottor Bertolaso che ha utilizzato l'appartamento’...». Curi peraltro, sostiene Zampolini, non firmò il contratto d'affitto con l'ex capo della Protezione civile, ma direttamente con Anemone. E i soldi dell'affitto non li incassava neanche da quest'ultimo, ma da Zampolini: «Ma i soldi che lei ha appena detto», chiede il pm, «fu lei a consegnarli a Curi?». «Sì», risponde Zampolini. «E chi glieli diede?», continua il pm. «Diego Anemone», è la risposta.
Inquilino a sua totale insaputa Bertolaso, di questa girandola di soldi e persone, impegnate a risolvere il suo problema abitativo, sostiene di non aver saputo mai nulla. E quindi: ha vissuto in una casa senza informarsi su chi gli pagasse l'affitto o, quanto meno, senza rendersene conto. Con quali argomenti potrà convincere l'esercito di inquilini dell'affittopoli romana che lui, proprio lui, l'ex inquilino di via Giulia, avrà il compito di far sloggiare? Bertolaso è convinto di poter dimostrare la propria innocenza, anche sugli altri episodi della presunta corruzione negli appalti del G8 e nella gestione dei Grandi Eventi, sia quello dei 50mila euro ricevuti da Anemone, sia quello dei massaggi erotici nel Salaria Sport Village.
«È come se avessimo guadagnato cinquecento punti», dice Anemone quando viene intercettato, mentre Bertolaso, all’interno del Salaria Sport Village, usufruisce dei massaggi della brasiliana Monica. E se non bastasse manda uno dei suoi uomini a cercare gli eventuali profilattici rimasti in stanza. Profilattici mai trovati, per quanto emerge dalle stesse intercettazioni e mai utilizzati, sostiene Bertolaso, perché i massaggi in questione non avevano nulla di erotico. Resta da capire, però, perché Anemone - che già gli pagava l'affitto a sua insaputa - era convinto di aver guadagnato “cinquecento punti”.

Il massaggio da “500 punti”
Ecco, se Bertolaso venisse condannato, sebbene in primo grado, sarebbe stato corrotto dalla cricca. Se venisse assolto, avrebbe comunque ricevuto dalla cricca un appartamento in affitto, pur non essendone cosciente, e massaggi da “cinquecento punti”. Tra Verdini e Bertolaso, insomma, il partito della “cricca” sembra più agguerrito che mai.

Il rispetto della cultura in Italia è scomparso da tempo. Matteo Renzi continua sulla scia dei suoi predecessori: Mussolini, Scelba, Berlusconi.

La Repubblica online, bloc "Articolo 9", 19 febbraio 2016

Oggi, in una bellissima intervista a Repubblica, il fisico Guido Tonelli ha spiegato che è riuscito a studiare, grazie alle borse di studio e ai sacrifici della sua famiglia, perché «a quel tempo c'era un grandissimo rispetto per la cultura e lo studio». Ecco, se oggi l'Italia non è un paese per ricercatori, se oggi non investiamo in ricerca è forse soprattutto perché abbiamo perduto quel rispetto.

Veniamo da una lunga stagione di delegittimazione del sapere critico e della cultura. Nel ventennio berlusconiano l'ignoranza è stata sdoganata, e quasi celebrata, da un senso comune che si riflette tuttora in film, televisione, discorso pubblico di infimo livello intellettuale. Ma, anche prima, il potere italico ha spesso ostentato il suo disprezzo per la cultura: da Mussolini che si vantava di esser entrato in un museo due o tre volte nella vita, al «culturame» di Scelba.

Con Matteo Renzi non siamo usciti da questa tradizione, purtroppo. L'ex sindaco di Firenze parla continuamente di cultura, senza però esserne affetto: un portatore sano di cultura. Commentando un libro di Renzi (Stil novo, la rivoluzione della bellezza da Dante a twitter, Milano 2012), lo scrittore Paolo Nori rifletteva sulla singolare stranezza per cui «in tutte le 193 pagine di questo libro sulla bellezza non sono riuscito a trovare una frase che mi sembrasse non dico bella, ben fatta». Ecco, questo giudizio mi è tornato in mente sentendo il nostro presidente del Consiglio che, parlando non in un luogo qualunque, ma all'Università di Buenos Aires, faceva la monumentale gaffe di citare una poesia del massimo scrittore argentino, Jorge Luis Borges... che però non era di Borges. Quel testo, banale e imbarazzante come un motto da bacioperugina, si trova – attribuito a Borges – sulla rete: e copiare da internet senza controllare le fonti, e il tipico errore che si cerca di sradicare dalle matricole universitarie.

Nessuno pretende che Renzi vegli di notte per studiare Borges: ma investire così poco sul livello culturale del proprio staff pur volendo parlare continuamente di cultura, è una scelta che rivela una profonda mancanza di rispetto «per la cultura e per lo studio». E il punto non è la figuraccia di Renzi (una più o una meno...): il punto è il futuro della ricerca e della cultura in questo povero Paese.

Due articoli sull'inquietate vicenda dei droni killer impiegati dagli Usa per la guerra di Libia: la guerra non dichiarata divampa, e il PIL cresce

11 febbraio 2016
ASIGONELLA IL CENTRO SATELLITARE
PER TELEGUIDARE I DRONI KILLER USA

di Antonio Mazzeo

La base siciliana di Sigonella si prepara ad ospitare uno dei principali centri al mondo per il comando, il controllo satellitare e la manutenzione di tutti i droni delle forze armate statunitensi. Il 14 novembre 2015 il Naval Facilities Engineering Command Office per l’Europa e l’Asia sud-occidentale della Marina militare Usa con sede a Napoli ha pubblicato il bando di gara per la realizzazione nella stazione aeronavale n. 2 di Sigonella (NAS 2) dell’UAS SATCOM Relay Pads and Facility, un sito fornito di tutte le attrezzature necessarie a supportare le telecomunicazioni via satellite del Sistema degli aerei senza pilota (Unmanned Aircraft System - UAS) e assicurare “lo spazio per la gestione delle operazioni e delle attività di manutenzione” dei droni in dotazione all’US Air Force e all’US Navy. Il bando, classificato con il codice n. 3319116r1007, prevede la demolizione e la rimozione delle vecchie infrastrutture ospitate nell’area e la realizzazione del nuovo centro per il controllo satellitare dei velivoli senza pilota con relative strade d’accesso per un importo compreso tra i 10 e i 25 milioni di dollari. La società contractor dovrà consegnare i lavori entro 550 giorni dalla stipula dell’accordo con il Dipartimento della marina statunitense.

Il progetto per realizzare in Sicilia l’UAS SATCOM Relay Pads and Facility era stato presentato la prima volta al Congresso nell’aprile del 2011, ma l’approvazione è giunta solo in occasione della predisposizione del bilancio per le costruzioni militari per l’anno fiscale 2016. “Nel nuovo centro saranno installati dodici ripetitori UAS SATCCOM con antenne, macchinari e generatori di potenza con la possibilità di aggiungere altri otto ripetitori della stessa tipologia”, è riportato nella scheda progettuale fornita dal Dipartimento della difesa. “Il progetto prevede inoltre tutti i sistemi infrastrutturali, meccanici, elettrici, stradali, di prevenzione incendi ed allarme per supportare il sito per le comunicazioni satellitari”.

“Il Sistema degli aerei senza pilota richiede un’ampia facility che assicuri la massime efficienza operativa durante le missioni di attacco armato e di riconoscimento a supporto dei war-fighters”, aggiunge il Pentagono. “La costruzione di una SATCOM Antenna Relay facility è necessaria per supportare i link di comando dei velivoli controllati a distanza, in modo da collegare le stazioni terrestre presenti negli Stati Uniti con gli aerei senza pilota operativi nella regione dell’Oceano atlantico. Con il completamento di questo progetto saranno soddisfatte le richieste a lungo termine di ripetitori SATCOM per i “Predator” (MQ-1), i “Reaper” (MQ-9) e i “Global Hawk” (RQ-4). Il nuovo sito supporterà inoltre il sistema si sorveglianza aeronavale con velivoli senza pilota UAV Broad Area Maritime Surveillance (BAMS) di US Navy e le missioni speciali del Big Safari di US Air Force”. Il programma BAMS vede l’acquisizione di una quarantina di droni di ultima generazione “Global Hawk” da schierare nelle stazioni aeronavali di Jacksonville (Florida), Kadena (Giappone), Diego Garcia, Hawaii e Sigonella; il Big Safari è invece un articolato programma di acquisizione, gestione, potenziamento di speciali sistemi d’arma avanzati (velivoli senza pilota, grandi aerei da trasporto e per le operazioni d’intelligence e riconoscimento, ecc.) coordinato dal 645th Aeronautical Systems Group dell’US Air Force con sede nella base di Wright-Patterson (Ohio).

I droni-spia e i droni-killer che opereranno sotto il controllo del nuovo centro di Sigonella saranno utilizzati per le missioni pianificate dai comandi strategici di Eucom, Africom e Centcom, in modo da fornire in tempo reale le “informazioni più aggiornate ai reparti combattenti”. “Il sito di Sigonella garantirà la metà delle trasmissioni del Sistema dei velivoli senza pilota UAS e opererà in appoggio al sito di Ramstein (Germania)”, aggiunge il Pentagono. “Senza l’UAS SATCOM Relay Site gli aerei senza pilota non saranno in grado di effettuare le loro missioni essenziali, non potranno essere sostenuti gli attacchi armati e si verificherà una riduzione significativa delle capacità operative odierne e un impatto negativo grave per le future missioni d’oltremare”.

La stazione per il controllo satellitare dei droni di Ramstein è stata completata nel secondo semestre del 2013 all’interno della foresta che sorge nei pressi del grande impianto di baseball utilizzato dal personale militare Usa di stanza nella grande installazione tedesca. Secondo quanto riportato in una lunga inchiesta pubblicata nell’aprile 2015 da The Intercept, il giornale fondato da Glenn Greenwald, l’UAS Satcom Relay di Ramstein è il vero “cuore hi-teach della guerra Usa dei droni”. “Ramstein fa viaggiare sia il segnale satellitare che dice al drone cosa fare sia quello che trasporta le immagini che il drone vede”, aggiunge The Intercept. “Questi dati viaggiano attraverso i cavi sottomarini a fibra ottica, ma è grazie al sistema UAS Satcom che il segnale riesce a viaggiare senza ritardi in modo da permettere ai piloti di manovrare un velivolo a migliaia di chilometri con la necessaria tempestività”. Dalla stazione di Ramstein i segnali sono trasmessi ai satelliti militari operanti nello spazio in banda Ku e alla grande base aerea di Creech (Nevada), la principale centrale di US Air Force per le operazioni planetarie dei droni. Il nuovo UAS Satcom Relay di Sigonella opererà come stazione “gemella” dell’infrastruttura ospitata in Germania, assicurando l’“indispensabile” backup alle operazioni d’intelligence e di telecomunicazione satellitare di Ramstein.

A Sigonella sarà realizzata pure un’ampia area per la sosta dei velivoli senza pilota USA. “Il costo delle infrastrutture di supporto è superiore del 25% di quanto calcolato preventivamente perché la facility deve essere realizzata in un’area sottosviluppata e delicata dal punto di vista ecologico”, spiega il Pentagono. “La SATCOM Communications Support Facility avrà un’estensione di 1.200 metri quadri e non potrà contare sull’apporto finanziario della NATO”. Quando la nuova stazione entrerà in funzione, verranno trasferiti a Sigonella 55 militari e 58 dipendenti civili dell’US Air Force.

La base aereonavale siciliana ospita stabilmente dal 2009 alcuni droni-spia “Global Hawk” della Marina Usa e dal 2013 pure uno stormo di droni-killer MQ-1 “Predator” dell’US Air Force, utilizzati per le incursioni in Libia, Somalia, Regione dei Grandi Laghi, Mali e Niger. A partire dal prossimo anno, Sigonella farà pure da centro di comando e controllo dell’AGS - Alliance Ground Surveillance, il nuovo programma di sorveglianza terrestredella NATO che verterà su una componente aerea basata su cinque velivoli a controllo remoto “Global Hawk” versione Block 40, che saranno installati anch’essi in Sicilia.

13 febbraio 2016
I GRANDI AFFARI DEI PROGETTISTI DEL CENTRO DRONI USA ASIGONELLA

«Dirà qualcuno: ma a rompere le relazioni diplomatiche si rovinano gli affari (opulenti, com’è noto: 30 mila pistole Beretta alle polizie di Al Sisi, tanto per cominciare). Allora si smetta di parlare di orgoglio nazionale, e meno che mai di diritti umani».

Micromega, 7 febbraio 2016

La parola “orgoglio” associata a “Italia” è stata sproloquiata da Matteo Renzi in tutte le occasioni possibili e inimmaginabili: dall’Expò di Milano all’inaugurazione dello Skyway sul Monte Bianco, dalla vittoria di Paltrinieri nei 1500 stile libero nei mondiali di nuoto (“strepitoso Gregorio, orgoglio Italia” è il twitter palazzochigiesco) al premio Oscar di Sorrentino, dal “decreto banche” al volo in Perù, dal Golden Globe per Morricone agli Us Open tennistici di Pennetta e Vinci, dalla festa dell’Unità di Milano al Job act agli impianti elettrici in Cile alle dighe in Etiopia e a qualsivoglia opera di imprenditori italiani all’estero …

Se di tutto questo orgoglio nazionale sventagliato e twitterato da Renzi urbi et orbi e coram populo come cosa propria c’è una sola oncia che non sia chiacchiera propagandistica per gonzi e giornalisti a bacio di pantofola, la cartina di tornasole sarà (è, ormai da giorni) l’orrenda fine di Giulio Regeni, torturato per giorni in modo efferato nell’Egitto di Al-Sisi e ucciso spezzandogli l’osso del collo.

Vogliamo anzi esigiamo la verità, tutta la verità, e altro bla bla bla è stata la giaculatoria che sotto la regia di Renzi le autorità italiane stanno biascicando da giorni. Ma quella verità, al netto di qualche dettaglio (i nomi degli esecutori) è lapalissiana, la scrive il Corriere della Sera, la scrive la Stampa, la scrive la Repubblica, la sanno anche i bambini e la capiscono i sassi, gli scherani di Al Sisi in forma di polizia politica del regime dittatoriale egiziano sono gli autori dei mostruosi giorni di tortura lenta e inenarrabile per strappare al collaboratore del manifesto i nomi dei suoi contatti nei sindacati indipendenti invisi ai militari al potere.

Ora, un governo che possieda orgoglio nazionale, dopo aver mandato i suoi inquirenti in Egitto, al primo depistaggio di Al Sisi richiama l’ambasciatore, al secondo rompe le relazioni diplomatiche, altrimenti vuol dire che per orgoglio intende chinare il capo al giogo della presa per il culo, giogo che non può essere tollerato come gioco. E il primo di depistaggio c’è già stato, con la pantomima oscena dell’arresto di due criminali comuni (seguirà confessione) dopo aver inizialmente parlato di incidente d’auto, il secondo è in pieno corso col muro di gomma ormai in atto.

Del resto Renzi il reato di tortura si è ben guardato dall’introdurlo nell’ordinamento italiano. Non gli faremo il torto di ricordare l’adagio “cane non morde cane” perché sappiamo che i morti per tortura di polizia in Egitto si contano a centinaia e forse migliaia, in Italia sulle dita di una mano.

Dirà qualcuno: ma a rompere le relazioni diplomatiche si rovinano gli affari (opulenti, com’è noto: 30 mila pistole Beretta alle polizie di Al Sisi, tanto per cominciare). Allora si smetta di parlare di orgoglio nazionale, e meno che mai di diritti umani, e la politica renziana dichiari papale papale i suoi principi non negoziabili: in nome del profitto tutto è lecito a chiunque, e chi si mette in mezzo pace all’anima sua, se l’è cercata.

Lezioni di Costituzione affidate a generali e ammiragli, concorsi spaziali con tanto di premi offerti dalle aziende produttrici di sistemi di morte, seminari e conferenze sulle missioni “umanitarie” delle forze armate italiane in Afghanistan, Iraq, Somalia, Libano e nei Balcani. La buona scuola dell’era Renzi sarà sempre più militare e militarizzata, riserva di caccia del complesso militare-industriale-finanziario e megafono dei pedagogisti-strateghi della guerra globale. Dopo il Protocollo d’Intesa sottoscritto nel settembre 2014 dalle ministre Stefania Giannini e Roberta Pinotti, il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca scientifica (MIUR) e quello della Difesa varano una serie di iniziative “didattiche e formative” per gli studenti delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, statali e paritarie, con lo scopo di “favorire l’approfondimento della Costituzione italiana e dei principi della Dichiarazione universale dei diritti umani per educare gli alunni all’esercizio della democrazia e favorire l’acquisizione delle conoscenze e lo sviluppo delle competenze relative per l’esercizio di una cittadinanza attiva a tutti i livelli del sistema sociale”.

Con circolare inviata il 15 dicembre 2015 dalla Direzione Generale per gli Ordinamenti e la Valutazione del Sistema Nazionale d’Istruzione, i dirigenti scolastici e gli insegnanti di tutta Italia sono stati invitati a contribuire al successo delle proposte educative della nuova partnership libri-moschetto. Le iniziative per l’anno scolastico in corso e per quello 2016-1017 occupano quasi tutti i campi disciplinari: dalla storia alle scienze, dalle nuove tecnologie al diritto, dallo sport all’educazione stradale. Per celebrare i 70 anni della fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, MIUR e forze armate hanno promosso il concorso Nazioni Unite per la pace: entro la data del 31 marzo, alunni e studenti sono chiamati a presentare composizioni scritte o figurative, progetti multimediali e/o interattivi sulle “sfide relative alla sicurezza di tutti gli Stati”. “In occasione della ricorrenza del 70° anniversario dell’ONU, nonché della prosecuzione delle celebrazioni per il centenario della Grande Guerra, appare opportuno che gli studenti riflettano sul contributo che le Forze Armate hanno offerto in questo periodo per la difesa della Patria e delle libere Istituzioni e per la tutela degli interessi nazionali nel più ampio contesto delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte”, riporta il comunicato a firma del MIUR e della Difesa. “Le tracce proposte dal bando di concorso Nazioni Unite per la pace costituiranno l’occasione per una riflessione sulla più grande organizzazione intergovernativa mondiale, con particolare riferi

L'implicito fascismo renziano «si palesa nel disprezzo delle regole e delle forme della democrazia, nelle spocchiose alzate di sopraccigli verso chi esprime dubbi, nelle sussiegose finzioni di rispetto verso gli altri poteri che nascondono arroganza e disprezzo, nelle arroganti risposte a chi dissente, nello sbrigativo impiego di manganelli verso chi protesta». Il manifesto, 26 gennaio 2016

«Non arretro!», «L’Italia va avanti…», «Non andremo più col cappello in mano», «Ci vorrebbero deboli e invece siamo tornati forti». E via seguitando in un repertorio di detti (troppi) e fatti (pochi), attribuibili al nostro presidente del Consiglio, che richiamano altri “capi”, in particolare uno, di parecchi decenni or sono. Se scrivo il suo nome, mi attiro insulti. A stupire non è Matteo Renzi, la cautela con cui le sue esternazioni da bullo verso l’Unione europea, vengono commentate, o peggio il silenzio imbarazzato in cui risuonano.

Possibile che non si colga negli accenti, nei toni, nei modi, oltre che negli argomenti, usate dal bullo di Rignano sull’Arno un sentore di fascismo? O forse è che davvero, come si insinua in un libro appena uscito (di Tommaso Cerno, A noi!, Rizzoli), in fondo noi italiani siamo avvezzi a quei toni, a quel lessico, a quei modi? In fondo non abbiamo mai fatto i conti con il fascismo, ed esso riemerge, non solo e non tanto nelle Case Pound et similia, ma proprio per queste vie. Si palesa nel disprezzo delle regole e delle forme della democrazia, nelle spocchiose alzate di sopraccigli verso chi esprime dubbi, nelle sussiegose finzioni di rispetto verso gli altri poteri che nascondono arroganza e disprezzo, nelle arroganti risposte a chi dissente, nello sbrigativo impiego di manganelli verso chi protesta. E, soprattutto, il fascismo affiora in prese di posizione all’insegna di un nazionalismo ridicolo, nella prosopopea dell’Italia “Grande Paese”, nel ritornello del “primato degli italiani”, nella retorica del “ve la facciamo vedere noi”, nel mostrare muscoli (che non si hanno) e nell’agitare pugni (che in vero son quelli di un bamboccio).

E più si fa la faccia feroce più si suscita commiserazione, anziché rispetto, fastidio anziché attenzione, insofferenza invece che apprezzamento. Con questo non dico che Matteo Renzi sia un fascista, ma dico che nei suoi comportamenti, nel suo stile, nelle sue parole richiama direttamente una stagione che in qualche modo persiste, e che, riveduto e lustrato, oggi proprio lui possa essere visto come il legittimo titolare di un nuovo regime in costruzione, autoritario, populista e plebiscitario.

Il referendum che sta invocando e proclamando da giorni, è il primo plebiscito della storia italiana, che assomiglia precisamente a quello del marzo 1929: siete con il duce o siete contro? La differenza è che allora alla porta del seggio c’erano i militi fascisti, e che l’elettore si trovava davanti due schede, una col Sì e una col No, in bella mostra.

Anche chi abbia a cuore, da un punto di vista liberaldemocratico, la dignità del Paese, non dovrebbe sottovalutare quello che sta accadendo. Come sempre, ci facciamo ridere dietro: emblematica l’ormai famosa conferenza stampa con il presidente del Parlamento europeo Martin Schultz, trasmessa alla televisione francese con i salaci commenti del giornalista in studio, con il nostro premier che sbadiglia, giochicchia col cellulare, manda messaggini, guarda in alto, quando parla Schultz, mentre, al contrario, questi è attentissimo e interloquisce opportunamente quando la parola è al collega italiano. Un video diventato giustamente virale. Ma non è solo questo. Non è solo l’eterna rappresentazione della commedia italiana. La parodia della politica stile Alberto Sordi, o, considerato l’epoca e i personaggi, nello stile di una modesta imitazione del grande Sordi.

Dicevo, non è solo questo, tuttavia. È proprio ricorrendo a tal genere di comportamenti, che si innescano processi che non si sono in grado di controllare, e di cui, soprattutto, non si è possono prevedere gli esiti. Se si vuole perseguire la rottura dell’Unione, o la fuoruscita dall’euro – obiettivi pesanti, discutibili, rischiosi, ma indubbiamente leciti -, non è certo questa la via maestra. Né sono scelte che possano essere demandate al governo e neppure al solo Parlamento.

Sono scelte che concernono tutta la popolazione ed essa nella sua interezza dovrebbe essere posta in grado di dire la sua. In ogni caso, la strada su cui si è incamminato il premier, con il suo partito piegato ai suoi voleri, invece è irrituale, come si dice in linguaggio diplomatico, tortuosa, piena di inganni e di disonestà. Ed è una via che non è consentita, in particolare, ad una nazione che nel Parlamento di Bruxelles-Strasburgo, non ha fatto proprio una gran figura, con i nostri deputati di solito personaggi trombati nel Parlamento nazionale, o tratti dai grandi vivai della radiotelevisione, da Iva Zanicchi a Gerry Scotti, notoriamente assenteisti, o vistosamente disinteressati al ruolo che hanno conquistato.

Ma non siamo ancora al punto cruciale, che invece mi pare un altro, e si tratta di una domanda: come mai Renzi “sfida l’Europa” (così alcuni titoli roboanti sui giornali), con tanta disinvoltura? Magari per ottenere consenso popolare in patria. Esattamente come il suo lontano, ma non dimenticato e sin qui innominato predecessore. Alzare il tiro, inventarsi dei nemici, per giustificare i mancati risultati, per rinsaldare il proprio potere, per annullare ogni dissenso. Nemici interni (i “gufi”, quelli che remano contro, gli “sfascisti”…), o esterni: la Germania, o l’Unione tutta.

“Molti nemici, molto onore”? Il consenso, uno statista lo cerca e lo ottiene, per vie democratiche (mi tocca ricordare che stiamo aspettando che il sig. Matteo Renzi venga legittimato da una votazione ai sensi di legge, non dai gazebo del suo partito), sulla base dei risultati ottenuti, concreti, verificabili; il leader autoritario-populista lo cerca per altra via, che è precisamente quella perseguita con tanta sfrontatezza da Matteo Renzi.

«Roma non è nuova a questi scenari», scriveva Antonio Gramsci nel 1924, e li definiva «polverosi». «Ha visto», continuava «Romolo, ha visto Cesare Augusto, e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo». E, possiamo rivelarlo, si riferiva a chi allora sedeva nelle stanze del potere, tal Benito Mussolini.
Intervista di Silvia Truzzi ad Alessandro Pace, presidente del Comitato per il No: «È una riforma sbagliata e votata dal Parlamento dei nominati».

Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2015 (m.p.r.)

Se chiedi ad Alessandro Pace perché è contrario alla riforma Boschi ti risponde così: «Le ragioni sono molte. Intanto perché privilegia la governabilità sulla rappresentatività; elimina i contro-poteri esterni alla Camera senza compensarli con contropoteri interni; riduce l’iniziativa legislativa del Parlamento a vantaggio di quella del governo; prevede almeno sei tipi diversi di votazione delle leggi ordinarie con conseguenze pregiudizievoli per la funzionalità delle Camere; nega l’elettività diretta del Senato ancorché gli ribadisca la spettanza della funzione legislativa e di revisione costituzionale; sottodimensiona irrazionalmente la composizione del Senato rendendo irrilevante il voto dei senatori nelle riunioni del Parlamento in seduta comune; pregiudica il corretto adempimento delle funzioni senatoriali, divenute part-timedelle funzioni dei consiglieri regionali e dei sindaci». Tutte queste ragioni saranno illustrate domani al primo incontro del Comitato per il No, i cui lavori saranno introdotti proprio dal presidente Alessandro Pace.

Da dove cominciamo?
«Dall’inizio, da quello che io credo essere il vizio d’origine della riforma. La Corte costituzionale, nel dichiarare l’incostituzionalità del Porcellum consentì espressamente alle Camere di continuare a operare, ma non in forza della legge elettorale dichiarata incostituzionale, bensì grazie al “principio fondamentale della continuità dello Stato”. La Corte aggiunse a tal riguardo che, al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione sia a prevedere, all’articolo 61, che, a seguito delle elezioni, sussiste la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti finché non siano riunite le nuove Camere; sia a prescrivere, all’articolo 77, che, per la conversione in legge di decreti legge adottati dal governo “le Camere anche se sciolte sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni”».
La sentenza della Consulta è di due anni fa...
«È vero, ma i due limiti temporali del principio della continuità dello Stato, richiamati dagli articoli 61 e 77, sono assai brevi (meno di tre mesi!). E quindi, ammesso che il Parlamento non potesse essere sciolto nei primi mesi del 2014 perché lo scioglimento avrebbe portato alle stelle lo spread, è però evidente l’azzardo istituzionale, da parte del premier Matteo Renzi e dell’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, di iniziare una revisione costituzionale di così ampia portata nonostante la dichiarazione d’incostituzionalità del Porcellum avesse fotografato un Parlamento di “nominati”, insicuri di essere rieletti, e quindi ricattabili ed esposti alla mercé del migliore offerente. Il che è dimostrato dal record, nella XVII legislatura, di passaggi da un gruppo parlamentare all’altro con 325 migrazioni tra Camera e Senato in poco più di due anni e mezzo, per un totale di 246 parlamentari coinvolti».
Renzi si è impegnato a dimettersi se il referendum bocciasse la riforma.
«Evidentemente nel lanciare questa sfida alle opposizioni e agli elettori, Renzi ha inequivocabilmente ammesso che la paternità della riforma costituzionale è del governo e non del Parlamento. Come invece dovrebbe essere e avrebbe dovuto essere. Il che risponde alla semplice, ma ovvia, ragione di non coinvolgere nell’indirizzo politico di maggioranza il procedimento di revisione costituzionale, che si pone a ben più alto livello della politica quotidiana, un livello nel quale anche le opposizioni dovrebbero avere un adeguata voce in capitolo».
Il governo voleva andare in fretta. I senatori Mario Mauro e Corradino Mineo furono rimossi dalla commissione Affari costituzionali del Senato per aver invocato il rispetto della libertà di coscienza per ciò che attiene alle modifiche della Carta.
Fu dapprima loro assicurato che, per i lavori in aula, diversamente da quelli in commissione, l’art. 67 Cost. sarebbe stato rispettato. Il che era ed è contraddittorio perché se sussiste la tutela della libertà di coscienza del parlamentare su dati argomenti, la tutela non viene meno a seconda del luogo o del contesto nel quale essa viene eccepita. Successivamente, venne altresì eccepito, dall’allora vice capogruppo del Pd in Senato, che la libertà di coscienza non poteva essere invocata perché “tra i principi fondamentali della Costituzione non rientrano certo le modalità di elezione del Senato”, evidentemente confondendo lo stravolgimento in atto del ruolo e delle funzioni del Senato con una semplice modifica del sistema elettorale».
Altre violazioni?
Quella commessa l’ultimo giorno dei lavori del Senato, il 2 ottobre, nel quale si trattava di votare l’art. 2 del disegno di legge che modificava l’art. 57 della Costituzione. La maggioranza, pur di non confermare l’elettività diretta del Senato, che consegue dall’art. 1 della Costituzione, che garantisce al popolo l’esercizio della sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ha partorito un monstrum inconcepibile nel testo di una Costituzione. Ha approvato, nello stesso articolo, due commi tra loro antitetici: uno che prevede che i senatori saranno eletti dai Consigli regionali, l’altro che tale elezione dovrà avvenire “in conformità alle scelte degli elettori”. Dunque o l’elezione da parte dei Consigli regionali sarà meramente riproduttiva della volontà degli elettori e quindi inutile; oppure se ne distaccherà, e in tal caso finirebbe per violare l’art. 1 sopra riportato, che garantisce appunto l’elettività diretta degli organi titolari della potestà legislativa, come tra l’altro sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014.

Libertaegiustizia.it, 30 dicembre 2015

Va bene così: se è il governo che stravolge la Costituzione è giusto che sia il presidente del Consiglio a fare la campagna per il referendum e a dichiarare la fine di una delle due Camere, perché gli italiani vogliono un’Italia “più semplice”.

Ed è anche giusto che se dovesse fallire in questa sua storica impresa (nel senso che mai nessuno prima di lui aveva osato tanto) tolga il disturbo e vada ad insegnare in qualche università dal momento che dice di sentirsi portato per l’insegnamento.

La conferenza stampa di fine anno di Matteo Renzi è servita soprattutto a lui per rivendicare meriti, obiettivi raggiunti, un paese di bengodi. E per annunciare anche che il 2016 sarà l’anno dei valori. Come se i valori fossero in qualche modo legati a una dimensione temporale. Quest’anno niente valori, ma l’anno prossimo aspettatevi sorprese.

Cerco di cogliere l’essenza dello sproloquio di Renzi, partendo dal disprezzo sostanziale contenuto nelle parole riservate alla libertà di stampa e dei giornalisti. Che a quel punto avrebbero anche potuto alzarsi e andarsene. Cosi’ avremmo fatto nella prima Repubblica…

Nessuno tocchi gli editori, nessuno tocchi la Rai perché mai come oggi ci sono tanti giornalisti nel consiglio di amministrazione.

Dunque, nell’anno dei valori, cioè nel 2016, avremo la campagna elettorale in tante città e subito dopo, nei mesi estivi, la grande discussione sulle tasse, che ovviamente saranno abbassate (o almeno ci sarà la promessa di abbassarle). Freschi di tale promessa eccoci arrivare all’autunno, cioè ad ottobre e al referendum costituzionale. Per la prima volta il capo di un governo sarà alla testa di una campagna di questo genere e gufo sia chi ricordasse distinzioni che erano ritenute fondamentali tra chi disegnò l’Italia dopo la dittatura: nessuna influenza del governo sulla discussione costituzionale. Addirittura l’esito sarà fatale per Renzi: se ne andrà se fallirà. Resterà ancora a Palazzo Chigi se vincerà.

La posta in gioco è questa Italia “più semplice”. Che vuol dire, non solo una Camera eletta con l’Italicum (cioè con i parlamentari che vuole lui), ma anche un Paese che si avvia alla perdita di tutti i diritti conquistati negli anni successivi alla Liberazione, nel mondo del lavoro, in quello della scuola, nel mondo dell’informazione, nella politica. Un Paese senza controlli e contrappesi. Un solo grande partito della nazione, un pensiero unico, il potere che diventa giorno dopo giorno più invasivo e unico anch’esso.

2016, l’anno dei valori: come c’è stato l’anno dell’Expo, o del Giubileo. Qualcosa che comincia e finisce e i valori cosa siano e per chi siano lo decide sempre lui. Il premier che l’Italia ha tanto atteso, l’uomo di destra (estrema, vedi Verdini e Berlusconi) che piace alla ex sinistra.

Se non ci fosse in ballo la Costituzione, se non fossimo decisi a difenderla comunque e anche a vincere il referendum ci sarebbe davvero da levare le tende. In cerca di un Paese dove i valori siano per tutti gli anni e per sempre.

l Fatto Quotidiano, 2 gennaio 2016 (m.p.r.)

Scena uno. Aprile 2014.Matteo Renzi, nella salastampa di Palazzo Chigi,annuncia il decretosugli 80 euro di bonus Irpef e irelativi tagli di spesa per finanziarlo:una slide dice che ibandi di gara dal 2015 sarebberostati pubblicizzati solo online- e non più con (l’obbligatoria) “pubblicità legale”sui giornali di carta - e così loStato “risparmierà 120 milionidi euro l’anno”. In realtà la Ragioneriagenerale, dopo, avrebbeparlato di “risparmio zero” per via di una legge diMonti che caricava sul vincitoredell’appalto il costo della“pubblicità legale” attraversouna sorta di tassa occulta.

Gli editori, comunque, nonla presero bene: 120 milioni diincasso non sono pochi, specialmentein tempo di crisi,specialmente se si è un grandegruppo editoriale - come ad esempioil Gruppo Espresso -che ha un sacco di quotidianilocali che drenano i bandi dienti locali e regioni. Le pressionisu Palazzo Chigi e Parlamentosi sprecarono e così siarriva alla scena due. Giugno2014: arriva l’emendamentocon cui tutto viene rinviato al1° gennaio 2016. E siamo allascena tre. Giugno 2015. Un emendamentinofirmato dai relatoriin Senato (uno del Pd euno di Forza Italia) al nuovocodice degli appalti cerca dicancellare l’obbligo di pubblicizzarei bandi di gara solo online:prima viene approvato,poi – e siamo a ottobre 2015 –bocciato. Insomma, gli editoristanno per perdere una tortache nel 2014 gli ha fruttato 120milioni.

La scena quattro è l’ultima.Siamo al 30 dicembre 2015 e inGazzetta Ufficiale arriva il solitodecreto Milleproroghe.Tra le altre mille, come il lettoreavrà già capito, c’è anchela proroga per il passaggio della“pubblicità legale” on line:gli editori, per tutto il 2016,continueranno a incassare.Non solo: viene pure prorogatodi un anno l’obbligo di passaggioal sistema di tracciabilitàdigitale di vendite e resedei giornali (e pure il relativocredito d’imposta). Il cartaceosarà anche in crisi, ma il premier- e il fido Luca Lotti, chegestisce i rapporti con gli editori- non vogliono guastare lerelazioni con l’ingegner DeBenedetti o la famiglia Agnelli(La Stampa e Corriere della Sera,con relative edizioni locali).

Prorogato di un anno pure ildivieto di incroci stampa quotidiana-tv:in sostanza, SilvioBerlusconi e Urbano Caironon possono avere un giornale.A spulciare il decreto di fineanno, però, ci sono anche altrecosette notevoli. Slitta ancoradi un anno, per dire, l’entrata aregime del sistema di tracciabilitàdei rifiuti chiamato “Sistri”(era previsto da un decretodel 2013 e se ne parla da moltoprima). Viene prorogato al31 dicembre 2016 pure il contrattodi servizio tra Stato eFerrovie, come pure il tempolimite per il ministero delloSviluppo per emanare un decretolegislativo che sistemi laquestione Uber, taxi e Ncc.

Certe proroghe, poi, denuncianoquanta distanza cisia tra le parole e i fatti. Ben trenorme, ad esempio, riguardanol’edilizia scolastica, uno deicavalli di battaglia di Renzi: èprorogato al 30 aprile 2016 iltermine per l’affidamento deilavori di messa in sicurezzadegli edifici scolastici (il chevuol dire, se ci si pensa, che nonli hanno affidati nei tempi stabiliti,nonostante la solita “cabina di regia”a Palazzo Chigi);conseguentemente slitta al 31dicembre 2016 il termine ultimoper spendere i fondi stanziatiper le “scuole belle”, le“scuole sicure” e via propagandando. Deliziosa l’ultima:slitta al 31 dicembre 2016 il terminedi attuazione delle disposizioniin materia di prevenzioneincendi per l’ediliziascolastica.

Altre proroghe, invece, sonouna delizia per come raccontanolo stato di confusionedel dibattito pubblico - gestitoanche da quelli che si godonola “pubblicità legale”– e dellastessa attività di governo. Comesi sa, infatti, c’è l’emergenza smog e si tengono i riscaldamentibassi e si deve andare inauto a passo d’uomo: inveceper i grandi impianti industrialianteriori al 2006 il termineper l’applicazione dei valorilimite di emissione (cosìcome definiti nel codicedell’ambiente) è prorogato al1° gennaio 2017. Mica per tutti,però: gli impianti in questionedevono avere presentato regolarmentele istanze di deroga(cioè aver richiesto il permessodi inquinare). Un caso pertutti, è l’Ilva. Equitalia, infine,che era la sentina di ogni vizioe che nessun sindaco volevapiù usare, è autorizzata a lavorareper i Comuni (cosa chenon vorrebbe fare, perché nonconviene) altri sei mesi: se cosìnon fosse, gli enti locali non saprebberocome recuperaremulte e tasse non pagate.

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