«Le privatizzazioni servono a ridurre il debito, o è lo shock artefatto del debito ad essere messo in campo per poter proseguire con le privatizzazioni?»
ilmanifesto
, 8 ottobre 2016 (c.m.c.)
Se qualcuno avesse ancora dubbi sull’uso ideologico del debito come «shock» per procedere all’espropriazione di diritti e beni comuni, è ancora una volta la drammatica esperienza della Grecia a diradarli.
Con 152 voti a favore e 141 contrari, lo scorso 27 settembre il Parlamento greco ha approvato le nuove misure di austerità, proposte dal governo Tsipras per ottenere la nuova tranche di prestiti dalla Troika, finalizzata al pagamento del debito.
Con i nuovi provvedimenti, la Grecia, come previsto dal Terzo Memorandum, viene posta letteralmente in vendita: tutte le proprietà pubbliche vengono trasferite all’Hellenic Company of Assests and Partecipations (HCAP), un superfondo finanziario con l’obiettivo esplicito di «ricavare liquidità a breve termine, facendo fruttare il patrimonio pubblico oppure vendendolo».
Basta scorrere l’elenco per vedere quanti settori strategici e proprietà pubbliche saranno coinvolte in quello che è già stato definito il più grande piano di privatizzazioni messo in campo in Europa dopo l’istituzione nel 1990 del Treuhandanstalt tedesco, l’ente di gestione fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994, garantì, per la riunificazione della Germania, la dismissione di circa 8.000 aziende dell’ ex Ddr, per un valore patrimoniale pari a 307 miliardi di euro attuali.
Il piano di Tsipras prevede la vendita dell’aeroporto internazionale di Atene (a Lambda Development, con la costruzione di una città privata su 3 milioni di mq davanti al mare) e di 14 aeroporti regionali (già acquistati dal consorzio tedesco Fraport-Slentel); del porto del Pireo (consorzio cinese Cosco) e di quello di Salonicco (capitali russi); della Ferrovia Tranoise (questa volta arrivano i «nostri» di Trenitalia); delle autostrade; delle società pubbliche di energia elettrica, gas e petrolio; delle poste, della società di telecomunicazioni e –last but non least- delle compagnie Eydap e Eyath, che gestiscono rispettivamente l’acqua ad Atene e a Salonicco.
Il superfondo HCAP avrà la durata di 99 anni e sarà gestito da tre tecnici nominati dal governo greco e da due dell’ESM (European Stability Mechanism).
È l’ennesimo sacrificio per uscire dalla spirale del debito? Naturalmente no, e i dati sono lì a dimostrarlo: mentre l’economia greca è sprofondata del 40% (la stessa caduta delle economie europee durante la seconda guerra mondiale), il 95% degli «aiuti» finanziari dati alla Grecia è servito a mettere in sicurezza le banche europee che lì si erano sovra esposte; e il rapporto debito/Pil, che prima della crisi era del 130%, oggi veleggia sopra il 180%.
Alla luce di quanto sopra, alcune domande tornano utili: le privatizzazioni servono a ridurre il debito, o è lo shock artefatto del debito ad essere messo in campo per poter proseguire con le privatizzazioni?
La resa di Tsipras, dopo che la Commissione per la verità sul debito greco, istituita nella primavera del 2005 per iniziativa dell’allora Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou, aveva dimostrato la totale illegittimità e insostenibilità del debito stesso, e soprattutto dopo lo straordinario «No» del referendum popolare contro le misure imposte dalla Troika, era inevitabile?
L’attualità dimostra dove ha portato quella strada: oggi la Grecia è un paese in vendita e la democrazia un abito formale, dietro il quale i poteri finanziari estendono la propria sfera d’influenza sull’intera società greca.
A Tsipras non rimane che raccomandare alle forze dell’ordine di non usare i gas lacrimogeni contro le manifestazioni dei pensionati.

«Sbilanciamoci info, 13 giugno 2016 (c.m.c.)
Questo non è un accordo, è una tregua”. Con queste parole un funzionario europeo ha commentato al giornalista Stavros Lygeros l’esito della lunga a travagliata riunione dell’eurogruppo di fine maggio. Sette ore di discussione su un unico argomento: il debito greco, che alla fine del 2016 toccherà, secondo la Commissione, il 182% del PIL.
I termini della “tregua” sono subito spiegati dalla stessa fonte: “Il FMI non ha voluto assumersi la responsabilità politica di far fallire la riunione”. Un rischio reale dalle conseguenze non indifferenti. Fino a luglio le casse greche debbono pagare in titoli in scadenza, interessi e rate, circa 3,5 miliardi. L’Europa rischiava di vivere nuovamente il dramma dell’estate scorsa, con l’aggravante dell’imminenza del referendum britannico: “Il Fondo ha fatto un passo indietro e ha rimandato lo scontro al prossimo giro, quando le condizioni saranno sfavorevoli per Berlino.
La discussione sul debito, infatti, sarà condotta sulla base dello studio sulla sua sostenibilità che sta preparando lo stesso FMI. Schauble ha guadagnato tempo, ma è ancora imprigionato dentro una grossa contraddizione: non può permettersi di dire ai suoi elettori che il FMI non partecipa più al programma greco, che diventerebbe così esclusivamente europeo, ma non è disposto a cedere alla prima condizione posta dal FMI per partecipare: alleggerire il debito”.
Appena due mesi fa, per essere precisi, il responsabile per l’Europa del Fondo, Paul Tomsen, non aveva esitato di proporre una strategia estremamente pericolosa, in modo da far passare la strategia del FMI su tutta la linea. All’epoca, non era aperto solo il fronte tedesco ma anche quello greco. Gli accordi dell’estate scorsa imponevano alla Grecia un avanzo primario del 3,5% anno da ottenere nel 2018 e mantenerlo per almeno un decennio.
Secondo Tomsen, le misure di austerità previste da quell’accordo non erano sufficienti per raggiungere l’obiettivo, ci volevano ulteriori tagli per circa 3,6 miliardi. Per ottenere una soluzione “soddisfacente” bisognava replicare anche questa volta la strategia del 2015: far arrivare la Grecia alle scadenze estive con le casse a secco, con il rischio di un “incidente”, tanto indesiderato in quanto c’è il referendum britannico. In una situazione di urgenza, riteneva, in cui tutti avrebbero accettato le richeste del Fondo senza discussioni.
Wikileaks pubblicò l’intercettazione del colloquio via Skype di Tomsen con Delia Velculescu, la rappresentante del FMI nella “quadriga” (ex troika) che controlla i conti di Atene. L’effetto fu devastante: Tomsen si guadagnò una nuova reprimenda da parte del Board (e forse anche della stessa Lagarde) e le nuove misure furono criticate dagli europei con inusuale franchezza. Pochi giorni più tardi, Eurostat comunicò i dati sui conti greci e fu un nuovo schiaffo al Fondo: secondo Eurostat la Grecia aveva chiuso il 2015 con un attivo di bilancio dello 0,7% del PIL, mentre il piano concordato a luglio 2015 imponeva al paese almeno un + 0,25% e le stime del FMI parlavano di un disavanzo dello 0,6%.
Non era la prima volta che il Fondo sbagliava platealmente le sue previsioni, come ammesso da tutto lo staff economico. Basti dire che l’applicazione del primo programma di “salvataggio”, nel 2010, avrebbe dovuto portare alla crescita già nel 2011. Siamo sei anni dopo e le previsioni, ben più affidabili, della Commissione prevedono ancora recessione dello 0,3% alla fine dell’anno, con prospettive di crescita del 1,8% nel 2017. Lo stesso Tomsen era stato posto sotto inchiesta interna nel 2013 con l’accusa di non aver fornito stime affidabili ma ancor di più di non aver tenuto conto del dibattito in corso tra gli economisti del FMI nell’elaborazione del programma greco. Alla fine è stato rimosso e promosso a responsabile per l’Europa.
Per il governo greco risolvere il nodo del debito è un punto di primaria importanza. Darebbe per la prima volta il senso che la dura trattativa intrapresa da Atene con i creditori può dare finalmente dei risultati, dopo una serie ininterrotta di sconfitte. Le misure di austerità approvate a tamburo battente dal Parlamento greco pochi giorni prima della riunione cruciale dell’Eurogruppo hanno un enorme costo politico e sociale.
Tsipras ha strenuamente resistito alle pressioni a tagliare la spesa pubblica procedendo a licenziamenti e a tagli alle pensioni esistenti e ha preferito puntare sull’aumento delle entrate. Malgrado i tentativi generosi di distribuire il peso fiscale in maniera più equa del passato e malgrado alcuni successi non trascurabili nella lotta alla diffusissima evasione fiscale, alla fine il governo ha dovuto ricorrere all’aumento dell’IVA dal 23 al 24%, anche nelle isole. Una misura che perfino Schauble ha definito “stupida” e che rischia di colpire il settore primario dell’economia greca: il turismo, arrivato oramai a coprire il 20% del PIL.
Secondo la ministra del Turismo Elena Koundourà per l’anno in corso l’aumento dei prezzi non si farà sentire, al contrario. La chiusura dei mercati turistici concorrenti, come la Turchia e l’Egitto, farà aumentare il flusso turistico verso la Grecia fino a 27 milioni di visitatori. Ma l’aumento dell’IVA rimane comunque una misura recessiva che rischia di abbattere i consumi e non portare alle casse pubbliche gli introiti previsti e tanto desiderati. Questo è avvenuto parecchie volte nella lunga crisi greca.
Ma non tutto è stato vano. L’Eurogruppo ha costretto i tedeschi a cambiare posizione e a riconoscere, per la prima volta, che il debito greco è insostenibile. Schauble, per la verità, ha ripetuto la sua posizione che “non c’è urgenza” ad affrontare la questione, visto che per la restituzione delle somme del secondo e del terzo memorandum è previsto un periodo di grazia fino al 2022 e i tassi sono fermi all’1,5%. Ma ha dovuto accettare la posizione di Atene del FMI che senza un alleggerimento non ci sarà garanzia di stabilità per l’economia greca, visto che si tratta di un fattore che certo non incoraggia gli investitori. Alla fine i tedeschi hanno ceduto ma a condizione che la questione venga affrontata solo dopo le elezioni tedesche previste per l’autunno dell’anno prossimo.
Un impegno simile era stato già preso dall’allora Troika nel 2012, a condizione che la Grecia avesse ottenuto un avanzo di bilancio. L’avanzo era stato ottenuto nel 2014 ma l’allora governo di destra non ha voluto sollevare la questione. La posizione dell’allora premier Antonis Samaras era che il debito era sostenibile, nella consapevolezza che qualsiasi riferimento alla possibilità di taglio avrebbe provocato malumori a Berlino.
Ora però le cose sono cambiate: non solo a causa del cambiamento di governo ad Atene ma anche perché il debito greco sta creando seri problemi all’interno del FMI. E’ noto infatti che il suo statuto non gli permette di finanziare debiti insostenibili e per partecipare al “salvataggio” greco nel 2010 dovette procedere a un affrettato cambio, provocando discussioni che nel tempo di sono acutizzate.
Tsipras ha ottenuto inoltre l’abolizione di fatto della clausola irrealistica dell’avanzo primario del 3,5% per un decennio, un obiettivo difficilmente raggiungibile anche per economie fiorenti, figuriamoci per quella greca. Anche questo sarà oggetto di trattativa ma già all’Eurogruppo si è raggiunto un accordo per un impegno greco per un avanzo “significativo”, in pratica dell’1,5- 2%. In caso di deragliamento dei conti, è stato sancito un meccanismo di “garanzie di salvaguardia”.
La tranche del finanziamento sarà divisa in due parti. La prima, di 7,5 miliardi, sarà versata alla fine di giugno, il resto, di 2,8 miliardi, a settembre. La metà dei soldi che saranno incassati a giugno andrà a pagamento dei debiti accumulati dall’amministrazione pubblica greca verso i privati, circa 3,6 miliardi, un’altra parte a pagamento del debito e quello che rimane a sostenere il piano di sviluppo elaborato dal governo e presentato in Parlamento agli inizi di giugno. Anche questo è stato un punto in favore di Atene, visto che con il governo precedente le somme andavano o a coprire il debito oppure la ricapitalizzazione delle banche.
Per ottenere per il denaro, Tsipras deve risolvere le ultime questioni rimaste in sospeso: la “quadriga” esige che i crediti inesigibili delle banche siano ceduti ai funds speculativi, mentre Atene vorrebbe porre delle clausole riguardo alle piccole imprese, circa il 56% degli interessati (già in autunno erano stati esclusi i mutui per la prima casa). Bisogna inoltre sbloccare la privatizzazione dell’area del vecchio aeroporto di Hellikon, acquistato per una somma ridicola nel 2013 dal Gruppo Latsis e bloccata da una serie di sentenze della magistratura.
Il governo greco vuole inserire anche questa area nella nuova “super Cassa” che gestirà (non necessariamente privatizzando) tutta la proprietà pubblica, i creditori vogliono risolvere la questione al più presto. Infine ci sono gli introiti dai pedaggi dell’autostrada Egnazia, che unisce Igoumenitsa a Costantinopoli, che i creditori vorrebbero andassero per intero al debito.
Le condizioni veramente difficili per Tsipras sono attese però per settembre, quando la “quadriga” passerà all’attacco cercando di smantellare quello che è rimasto del diritto del lavoro. I creditori chiedono di abolire il divieto vigente a effettuare licenziamenti in massa e anche il valore giuridico dei contratti nazionali e aziendali di lavoro. Tsipras finora è rimasto granitico nel rifiutare qualsiasi cedimento in questo campo.
Anche se le previsioni della Commissione parlano di un rovesciamento dell’andamento dell’economia già nel secondo semestre di quest’anno (“l’economia greca ha mostrato resistenze inimmaginabili”, ha confessato, in un impeto di inconsapevole autocritica, il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem) è evidente che si ripropone per ben sei anni la stessa ricetta fallita. L’abbattimento del costo del lavoro e il restringimento dei diritti sindacali non hanno portato a nessun investimento, ma solo disoccupazione e miseria.
Anche il tipo di sviluppo prospettato dai creditori rimane vago oppure, nel migliore dei casi, complementare alle economie del nord europeo (puntando solo sul turismo, con una punta di agroalimentare). La speranza di Tsipras è di resistere fino al 2018, quando la prospettiva di sbarazzarsi di buona parte del debito diventerà più concreta e finirà finalmente il programma di “salvataggio” della Grecia. Solo allora il governo greco potrà sviluppare i suoi progetti di sviluppo e allentare e misure di austerità.
Il primo passo sarà il congresso di SYRIZA che si terrà a settembre. Un anno di ritardo, con una dolorosa scissione di mezzo. Ma è evidente oramai che il partito ha avuto enormi difficoltà a tenere il passo, già dall’indomani dell’impetuosa avanzata alle elezioni del 2012, la vittoria elettorale di gennaio 2015 e la retromarcia dell’estate scorsa. Obiettivo del leader è far uscire SYRIZA dal minoritarismo e la cultura della protesta e farlo diventare uno strumento efficace di elaborazione di proposte di governo.
Se parliamo di politica e non di farfalle, allora bisogna ammettere che l'Alexis di"l'Altra Europa con Tsipras ha vinto, e che Syriza non ha nulla a che fare col PD di Matteo Renzi (né con la "sinistra tremula").
Il manifesto, 23 settembre 2015
Con la netta vittoria elettorale di domenica, Syriza e Alexis Tsipras si affermano saldamente alla guida della Grecia e al centro della politica europea. E’ un risultato straordinario per tutti noi, in primo luogo perché dimostra che il piano degli oligarchi, greci ed europei, perseguito con ottusa arroganza fin dal 25 di gennaio, è fallito. Volevano liberarsi dell’anomalia greca. Dell’unico governo di sinistra che si opponeva al loro modello fallimentare. E se lo ritrovano più vivo che mai nelle urne, legittimato da un nuovo, testardo, indiscutibile consenso elettorale.
Dopo una via crucis che avrebbe logorato qualunque altro governo nel mondo e che qui, invece, l’ha rafforzato. Volevano sterilizzare i loro lindi tavoli europei dalla presenza fastidiosa di un capo di governo non allineato ai loro voleri, e se lo ritrovano ora davanti, in questi stessi giorni, a quegli stessi tavoli, sopravvissuto al fuoco, a lottare per quello che ha sempre chiesto e che a luglio gli è stato negato: ristrutturazione del debito, abbandono delle folli politiche d’austerità, radicale riscrittura dei trattati, politiche redistributive, continuando a battersi lì per cambiare i termini del diktat «insostenibile» impostogli col ricatto e la minaccia a luglio. E insieme offrendo un punto di riferimento a tutte le forze che nello spazio europeo si battono per quegli obbiettivi.
Ed è questa la seconda ragione per gioire del risultato di Atene. Perché lì è nata, non più in embrione, ma ormai allo stato visibile, una sinistra europea, transnazionale e post-nazionale, dichiaratamente determinata a battersi nello spazio continentale della politica che viene, tendenzialmente maggioritaria perché impegnata a rappresentare l’enorme disagio che le politiche di questa Europa producono e a sfidare la «pratica del disumano» che le istituzioni europee contrappongono alla moltitudine sofferente che preme ai propri confini blindati. Sinistra nuova, diversa dai residui logori della vecchie social-democrazie, miseramente naufragate nella battaglia di luglio, fisicamente visibile sul palco di Piazza Syntagma dove si sono schierati i leader e le leader di Podemos e della Linke, dei Verdi tedeschi e del Partito della sinistra europea, stretti intorno a Tsipras in un patto che va al di là della tradizionale solidarietà internazionale, e che segna in potenza un «nuovo inizio».
Preoccupa, certo, nel quadro altrimenti confortante delle elezioni greche, l’alto livello dell’astensione. È, potremmo dire, il lato oscuro della forza, che i commentatori maligni di casa nostra non hanno mancato di sottolineare per tentare di ridimensionare il valore del risultato, pur essendo gli stessi che in ogni altra occasione ci avevano spiegato (ricordiamo l’Emilia Romagna, o le ultime regionali?) che è cosa normale, che le democrazie moderne funzionano bene così. Noi continuiamo a considerarlo, a differenza di loro, un grave problema, ovunque si manifesti, sapendo bene che, in particolare in questo caso, esso è sintomo di un fallimento, non certo dei greci (per i quali la notizia è tutt’al più l’altra, che abbiano continuato a votare a milioni e a crederci), ma dell’Europa. Della gabbia di ferro in cui ha chiuso i popoli, facendo di tutto per convincerli che la loro volontà (la «volontà popolare», appunto), non conta nulla. Che le regole che nessuno ha votato sono dogmi immodificabili. E funzionando così come una gigantesca macchina che erode e riduce ai minimi termini la democrazia, svuotandola di significato.
Indigna, d’altra parte, lo spettacolo, davvero indecente, della nostra stampa quotidiana. I commenti a caldo degli editorialisti embedded, impegnati in acrobazie spericolate per sostenere – sulla scia delle veline renziane — che la vittoria di Syriza e la sconfitta secca dei fuoriusciti di Unità popolare dimostrerebbe nientemeno che «non c’è spazio alla sinistra del Pd», come se Tsipras fosse Renzi (si sa benissimo che quel 12 luglio feroce Renzi era tra i ricattatori e Tsipras il ricattato, e nessuno può permettersi di nascondere la distanza abissale tra le politiche dei due, si tratti dei diritti del lavoro o dei rapporti con la Merkel). E come se, che ne so, Bersani e Cuperlo fossero Varoufakis (!). O Civati, Fratoianni e Ferrero Lafazanis. Sono, quei commenti senza pudore, la misura di quanto sgangherato sia il nostro sistema dell’informazione. Quanto servile, piegato ai voleri dei suoi tanti padroni, politici o economici. Ma soprattutto sono il frutto di una grande paura. Del timore che l’esempio greco possa diffondersi per contagio, e che cresca in Europa un’alternativa al sistema di privilegio di cui anche quel démi monde è parte.
Da quella «grande paura» dovremmo trarre uno stimolo. E una conferma della nostra possibile forza. Ad Atene, su quel palco europeo, la sinistra italiana non era rappresentata. Per il fatto che non c’è. O meglio: «non c’è ancora». Resta la grande attesa, sempre in costruzione, mai nella realtà. Non la si faccia prolungare troppo quell’attesa. C’è un grande lavorio, dal basso e non solo. Si discute di date, di eventi, di processi costituenti. Non facciamone un eterno Godot. Facciamo subito quello che dobbiamo fare: una sinistra capace di andare oltre i propri frammenti e di prendere in Italia e in Europa il posto vuoto che in tanti si aspettano che occupi. Chiunque rallentasse o ostacolasse questo processo, tanto più ora, si assumerebbe una responsabilità tremenda.
«Nonostante la grande astensione Syriza resta primo partito e torna al governo con i nazionalisti di Anel. Tsipras festeggia in piazza e si prepara a giurare da primo ministro. Sonora sconfitta della scissione da Syriza di Lafazanis: Unità popolare fuori dal parlamento».
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
Alexis Tsipras vola, superando le più rosee previsioni: Syriza, con più della metà dei voti scrutinati, è al 35,5%, percentuale che le permette di eleggere 145 deputati, mentre il centrodestra di Nuova Democrazia segue a grande distanza, con il 28,7% e, al momento, 75 deputati. La principale conseguenza politica del voto è che Syriza, insieme ai Greci Indipendenti di Panos Kammenos, i quali sino ad ora sono al 3,7% con dieci deputati, potranno formare nuovamente, senza bisogno di altri partiti, un nuovo governo.
Il leader di Syriza e Kammenos si stanno per incontrare per sancire il proseguimento della loro “strana” alleanza, basata sulla lotta alla corruzione e alle politiche neoliberiste di austerità. Malgrado il difficile compromesso firmato ad agosto con i creditori, la chiusura delle banche dopo la riduzione della liquidità decisa dalla Bce e la martellante campagna televisiva di molti media contro la sinistra radicale, Syriza rimane protagonista della scena politica greca, e perde meno dell’1% rispetto alle trionfali elezioni di gennaio.
Si tratta, ovviamente, di un successo personale di Tsipras, che ha promesso di continuare a lottare contro le lobby corrotte, gli intrecci sotterranei tra economia e politica, per superare l’austerità e creare nuovi equilibri in Europa, anche se ci vorrà del tempo e sarà richiesta molta pazienza e tenacia.
Sino a questo momento, Unità Popolare, con a capo Panagiotis Lafazanis, formazione creata poche settimane fa dai dissidenti di Syriza, non riesce a entrare in parlamento: si ferma al 2,8%, mentre la soglia di sbarramento è in Grecia al 3%. È chiaro che sono rimasti schiacciati tra la scelta realista di chi ha voluto ridare fiducia alla Coalizione della Sinistra Radicale ellenica e chi, nella tradizione della sinistra comunista, è rimasto fedele al Kke.
Ex membri del governo che avevano lavorato con abnegazione, come la ministra aggiunto delle finanze Nadia Valavani, non sono riusciti a far arrivare ai greci, tramite Unità Popolare, una proposta fortemente identitaria. La bocciatura dell’Euro e la messa in discussione della stessa Unione europea, se necessario, non hanno pagato.
È senz’altro da non sottovalutare la forte astensione, che potrebbe superare il 45%, ma il grande successo del quarantunenne leader della sinistra greca sta nell’essere riuscito a convincere una grandissima parte degli indecisi: chi otto mesi fa aveva votato per lui e oggi era tentato di non andare ai seggi.
Fonti ufficiali di Syriza fanno sapere che entro tre giorni il nuovo governo sarà pronto per giurare e che domani mattina Tsipras riceverà dal presidente della Repubblica l’incarico di formare l’esecutivo.
Inquietante, anche se purtroppo non imprevedibile, il terzo posto dei neonazisti di Alba Dorata, che sinora sono al 7,1%, con 19 deputati. La retorica e la prassi della violenza, malgrado il pesante processo a cui è sottoposto il gruppo dirigente del partito, ha comunque attratto una parte dei delusi e di chi ha pagato le conseguenze della crisi, malgrado la sfrontata dichiarazione del capo neonazista, Nikos Michaloliakos, che tre giorni prima delle elezioni si è assunto la responsabilità politica dell’omicidio del rapper di sinistra Pavlos Fyssas, compiuto due anni fa da un membro di Alba Dorata.
Il Pasok, che è al 6,41%, e i centristi di Potami– il Fiume, i quali non vanno oltre il 3,9%, restano a guardare: speravano in un esecutivo di unità nazionale, o di essere comunque necessari per la governabilità del paese, ma non è stato così. Una loro partecipazione al governo avrebbe comunque posto seri problemi riguardo alla coesione sulla politica economica e la lotta ai grandi interessi.
La grande sfida ora, per Alexis, è gestire e mitigare le conseguenze del memorandum firmato un mese fa, lavorando, contemporaneamente, ad una nuova politica europea orientata alla crescita e al reale superamento dell’austerità.
La fiducia dei greci, questa fortissima iniezione di energia, non potrà che facilitargli il compito.
Gli ellenici tornano al voto per la terza volta in meno di un anno. Tsipras è ancora il favorito nei sondaggi ma deciderà l’astensionismo. Il leader della sinistra greca spera di arginare la scissione del partito dopo l’accordo con la Ue.
Il manifesto, 20 settembre 2015 (m.p.r.)
Atene ha accolto la vigilia del voto con una splendida giornata di sole che ha offerto agli ateniesi la tentazione di fuggire dalla campagna elettorale verso un bagno ristoratore nel golfo Saronico. Chi aveva deciso di astenersi prolungherà la breve evasione anche oggi, a urne aperte. La percentuale degli astensiosnisti deciderà anche il vincitore di queste elezioni perché si sa che la maggior parte di loro sono ex elettori di Syriza delusi e scoraggiati dal brutto esito della trattativa. Lo sa anche Alexis Tsipras, che si è speso come non mai in questa campagna pur di farli tornare da lui.
La manifestazione di chiusura a Syntagma, venerdì sera, ha dimostrato che non è stato tutto vano. La piazza era piena. Non pienissima come alla vigilia del referendum ma sicuramente ha visto la più grande partecipazione di tutta la campagna elettorale. Una parte consistente del suo elettorato è tornato a dare fiducia a Syriza. La vittoria è a portata di mano, anche se l’obiettivo della maggioranza assoluta sembra lontano.
I greci sono testardi e orgogliosi. Se uno vuole farli infuriare basta che faccia cenno alla loro presunta «immaturità politica» e alla conseguente necessità che si lascino guidare da forze «responsabili» perché ispirate da centri stranieri. Ecco in breve il ritratto della destra in cerca di rivincita, alzando la bandiera dell’«unità nazionale». Un espediente made in Germany per neutralizzare per sempre gli antagonisti. No, il gioco è talmente scoperto che nessuno ci è cascato. Nuova Democrazia ha recuperato alcuni elettori, ma erano voti suoi che a gennaio si erano presi una libera uscita: non segnano uno spostamento a destra dell’elettorato.
La sinistra può aver sbagliato, essere uscita sconfitta nel negoziato, ma è sempre quella che ha tenuto testa ai diktat di Bruxelles e di Berlino, è quella che ha dato battaglia, mentre la destra si inchinava servile di fronte alla Merkel. Cose ben vive nella memoria collettiva. Tsipras lo sa e per questo è apparso ieri rilassato e sorridente al tradizionale incontro «Un ouzo con il capo» con i giovani di Syriza, in un locale alternativo di Monastiraki, il quartiere tradizionale sotto l’Acropoli. Nessuna dichiarazione prelettorale (la legge lo proibisce) ma una chiacchierata con i pochi studenti rimasti nel partito dopo la defezione di tutta l’organizzazione giovanile verso Unità Popolare. Domanda: «Presidente sarà ridotto il servizio militare?», ora della durata di 9 mesi. Risposta sorridente di Tsipras: «Andate a difendere la patria, sfaccendati». Risata generale.
Il distacco di Syriza rispetto alla destra sarà di almeno quattro punti. Me lo conferma il direttore dell’agenzia di stampa ateniese Michalis Psilos, ossservatore neutrale ma disposto a scommettere anche in favore di una sconfitta ancora più umiliante per la destra. Che in questi ultimi giorni ha mostrato il suo volto peggiore: venerdì era il secondo anniversario dell’assassinio di Pavlos Fyssas e il fuhrer di Alba Dorata Michaloliakos ha rivendicato pubblicamente la «responsabilità politica» per l’uccisione. Alla fine di una delle tante manifestazioni per l’anniversario, un gruppo di anarchici ha assaltato a colpi di molotov il commissariato di Exarchia. Sette minorenni fermati sono stati selvaggiamente pestati dai poliziotti. Ecco la destra ellenica in tutta la sua magnificenza: pestaggi nei commissariati e gara con i nazisti su chi la spara più grossa nella retorica xenofoba. Il leader di Nuova Democrazia Vangelis Meimarakis aveva preso di mira anche l’ex ministra dell’Immigrazione Tasia Christodoulopoulou, rendendola un obiettivo visibile per le squadracce naziste.
All’incontro ha fatto la sua comparsa anche l’ex ministro della Cultura Nikos Xidakis, per tanti decenni responsabile delle pagine culturali di Kathimerini. E’ candidato di Syriza ma non è membro del partito. Anche lui è ottimista e mi espone con grande fervore la sua convinzione che la sinistra al governo greco può fare la differenza in Europa.
Ad Atene tutti sono convinti che i negoziati con i creditori non sono per niente finiti. Il terzo memorandum, quello sottoscritto da Tsipras il 13 luglio, non segue alcuna logica economica. E’ un testo messo su solo per ragioni politiche, per umiliare e delegittimare il governo di Atene. Ben presto quindi dovrà essere rivisto, se non si vuole continuare questo logorante braccio di ferro tra Atene e l’Ue per altri cinque anni. Se Tsipras riuscirà nel frattempo a portare avanti le riforme giuste, sarà in grado di rinegoziare gli aspetti più aspri. Con il vantaggio di aver ottenuto anche una seria ristrutturazione del debito, nei negoziati che iniziano a ottobre.
Tsipras insieme con chi? Le alleanze al governo sono il quiz della vigilia. I Greci Indipendenti, che hanno fatto la campagna Tv di gran lunga più spiritosa, rischiano di non superare la soglia del 3% e rimanere fuori dal Parlamento. In questo caso, oppure nell’eventualità che neanche i loro deputati siano sufficienti, ci sarebbe un accordo di massima già pronto. Non è con To Potami, come tutti credevamo, cioè la formazione di plastica del presentatore Tv Stavros Theodorakis, ma con i socialisti del Pasok. Secondo fonti di Syriza, la nuova leader Fofi Gennimatà ha ricevuto forti pressioni da alcuni partiti socialisti europei perché procedesse verso una rifondazione del socialismo ellenico. In pratica, mettere da parte gli esponenti più esposti e più chiacchierati, come l’ex leader Evangelos Venizelos, per poter collaborare con il premier Tsipras. Per la Gennimatà, politica inesperta e senza grande carisma, è un’occasione d’oro per affermare in pieno la sua leadership. Per Tsipras l’obiettivo sarebbe di condizionare gli equilibri interni del partito di centrosinistra in modo da sganciarlo dall’alleanza subalterna con la destra liberista europea.
E’ questa la politica sotto l’ombra del Partenone, antica passione dei greci, ora in mano a una sinistra che aspira a guidarla e condizionarla. Dal gennaio scorso molta acqua è passata sotto i ponti ma non inutilmente: «Sconfitta non è cadere per terra, sconfitta è non poter rialzarsi», ha gridato Tsipras nel suo ultimo comizio, parafrasando Humphrey Bogart. Stasera si rialzerà in piedi e getterà di nuovo il suo guanto di sfida all’Europa dell’austerità.