A chi appartiene il paesaggio? Chi è il legittimo “proprietario” del territorio, cioè di quel patrimonio costituito nel tempo dalla natura e dalla storia? Le popolazioni che lo abitano oppure l’intera nazione?
Di fronte allo scempio del Belpaese, consumato dalla distruzione dell’ambiente, dalla cementificazione selvaggia, dagli abusi edilizi, dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua, la tutela del paesaggio assume un valore culturale determinante per la difesa della nostra identità collettiva. E nel pieno dell’emergenza rifiuti che sta deturpando agli occhi del mondo l’immagine di Napoli, della Campania e purtroppo di tutta l’Italia, diventa una priorità nazionale per salvaguardare – oltre alla salute pubblica – anche gli interessi sociali ed economici dei cittadini, delle generazioni presenti e di quelle future.
La riforma del Codice dei Beni culturali e del Paesaggio predisposta dal ministro Francesco Rutelli e varata in extremis dal governo uscente, a quattro anni dalla legge-delega dell’ex ministro Giuliano Urbani, rappresenta perciò un’occasione decisiva per segnare una svolta nella vita della nostra collettività. Può essere, insomma, l’inizio di una rifondazione ecologica del Paese, la prima pietra di una “nuova Italia”, più ordinata, più pulita e dunque più vivibile. Se le Commissioni parlamentari a cui spetta ratificare entro tre mesi i 184 articoli del decreto legislativo avranno la capacità di approvarlo integralmente, magari al di là della logica degli schieramenti contrapposti, forse potrà partire proprio da qui un moderno “rinascimento” civile o quantomeno una fase virtuosa nella gestione dell’ambiente, inteso nel senso più largo come sistema di relazioni con la natura e con il prossimo.
Fondato sull’articolo 9 della Costituzione, in cui si sancisce in modo solenne che la Repubblica “tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”, il Codice interviene opportunamente sul nodo dei rapporti tra governo centrale ed enti locali, per riportare questa responsabilità nell’ambito di una visione più generale. Si riduce così un eccesso di delega che, in questo come in altri campi, ha prodotto una sovrapposizione e frammentazione di poteri decisionali tra Regioni, Province e Comuni, spesso a danno della trasparenza, della legalità e soprattutto dell’interesse collettivo. Se la salvaguardia del lago di Garda coinvolge contemporaneamente la Lombardia, il Veneto e il Trentino; o quella del lago Trasimeno riguarda la Toscana e l’Umbria; se l’infausto progetto dell’autostrada della Maremma attraversa (speriamo solo sulla carta) la Toscana e il Lazio; se la difesa della Sila, del Pollino o delle Murge chiama in causa la Calabria, la Basilicata e la Puglia, evidentemente l’unica autorità in grado di provvedere adeguatamente è proprio quella statale come punto di riferimento e di mediazione.
Al contrario, un malinteso federalismo può solo alimentare gli egoismi e i particolarismi, disgregando ulteriormente il territorio, il paesaggio e il tessuto civile del Paese. Dall’ambiente al fisco, passando per la scuola, la sanità e la spazzatura, l’autonomia delle amministrazioni locali non deve confliggere con una politica organica di programmazione e di solidarietà. Il federalismo, d’altronde, nasce storicamente per unire e non per dividere, serve per crescere e non per regredire.
Elaborata da una commissione speciale che ha lavorato per un anno e due mesi, sotto l’autorevole presidenza del professor Salvatore Settis, la riscrittura del Codice è stata avallata in corso d’opera dalla stessa Corte costituzionale, con un’importante sentenza del novembre scorso (n.367/2007). La tutela del paesaggio, come ha ribadito la Consulta, costituisce un valore primario e assoluto. E perciò, rientra nella competenza “esclusiva” dello Stato, precedendo e limitando il governo del territorio attribuito agli enti locali.
Da qui, appunto, l’obbligo di elaborare i piani paesaggistici con una pianificazione congiunta fra Stato e Regioni. In questo iter amministrativo, è previsto poi il parere vincolante delle Sovrintendenze su qualsiasi intervento urbanistico o paesaggistico che incida su territori vincolati. Mentre la sub-delega dalle Regioni ai Comuni, per i piani e le licenze edilizie, è subordinata all’istituzione di uffici con competenze specifiche.
Un’altra rilevante novità contenuta nel Codice riguarda il potere attribuito al ministero dei Beni e delle Attività culturali di apporre vincoli paesaggistici “ex novo”. Al momento, il territorio italiano è già protetto per il 47% dell’estensione complessiva. Ma la sua particolare configurazione, prodotta storicamente dall’intreccio fra la natura e la mano dell’uomo, richiede in effetti un’ulteriore tutela per salvaguardarne la straordinaria identità: con ottomila nuclei storici, il nostro è – come si dice in linguaggio tecnico – il Paese più “antropizzato” del mondo. Sono numerosi e frequenti, tuttavia, i casi in cui l’urbanizzazione provoca un “consumo del territorio” senza incorrere formalmente nell’abusivismo, producendo costruzioni legali con tanto di autorizzazioni e licenze edilizie in quelle che Rutelli definisce le “aree grigie”. E a parte alcune iniziative esemplari, come quella che ha ridimensionato in corso d’opera la “villettopoli” di Monticchiello in Val d’Orcia, gli interventi postumi risultano comunque più limitati e laboriosi. Carte bollate alla mano, non sempre si riesce ad abbattere gli ecomostri che proliferano da Nord a Sud, sull’esempio di quello che s’è fatto a Punta Perotti, sul lungomare di Bari.
Il paesaggio appartiene dunque a tutti. Non è né di destra né di sinistra. È una grande risorsa collettiva, ambientale e anche economica, da cui dipendono la salute dei cittadini, lo sviluppo del turismo e la stessa occupazione del settore, oltre all’identità e all’immagine del Paese. C’è da auspicare perciò che, nonostante le convulsioni della politica nazionale, la riforma del Codice venga approvata in tempo utile, quale che sia il governo in carica e la maggioranza parlamentare che lo sostiene.