Quello che segue potrebbe essere il lieto resoconto di un viaggio italiano. Un viaggio nella celebrata varietà del nostro paesaggio, avviato con animo sereno e ben disposto a nutrirsi di alimenti soavi, quali possono offrire la bellezza e la conoscenza. L’itinerario si presta, alternando la realtà urbana a quella dei paesaggi naturali, l’altezza vertiginosa dei picchi al movimento ondulare delle colline, l’irruenza di alcuni mari al placido correre di un fiume; e la materia gode sia di robusta tradizione letteraria, sia di luminosa esperienza iconografica. L’Italia è stato il paese che ha accolto il maggior numero di viaggiatori illustri e poche altre nazioni possono vantare l’abbondanza di descrizioni che si sono riversate sulle sue città, le sue campagne, le sue chiese e i suoi siti archeologici – fino a costituire, tali opere, un genere che tocca i terreni della saggistica e della narrativa, pur non riducendosi a nessuno di essi e anzi restando una scrittura a sé, letterariamente abilitata proprio dalla quantità e qualità dell’oggetto.
Anche il resoconto che segue avrebbe potuto accodarsi a quel genere, e pur senza nutrire alcuna ambizione espressiva – consapevole della distanza, misurabile in ere, da quei capolavori – avrebbe coltivato quantomeno la speranza di offrirsi quale vademecum in un paese che, alla vasta celebrazione del passato, potesse far corrispondere un altrettanto nobile fotografia del presente. Dalla laguna di Venezia alle rovine magnogreche di Agrigento, l’Italia avrebbe potuto sfoggiare l’abito variamente ricamato che la storia ha fatto indossare alle sue forme naturali, una storia che ha lasciato scoperte alcune di queste forme, fidandosi del profilo sinuoso di una valle o del rude frastagliarsi di una scogliera, e ne ha ricoperte altre di costruzioni monumentali oppure di città edificate secondo criteri di benessere e di qualità del vivere.
Così non è. Questo libro racconta l’Italia maltrattata, quella parte consistente del paese che ha smarrito ogni senso, il valore delle proporzioni e con esso la giustizia e la sicurezza: la giustizia, perché un edificio tirato su dove non dovrebbe o una strada che spazza terreni coltivati o frange boschive rispondono a una volontà di accaparramento di qualcuno – solitamente, ma non sempre, un privato – ai danni di altri – solitamente il pubblico; la sicurezza, perché un edificio abusivo o una bretella autostradale possono violare equilibri spesso delicati, mettendo a repentaglio l’incolumità di esseri umani.
Negli ultimi cinquant’anni l’Italia ha cambiato radicalmente la propria fisionomia, una fisionomia che grosso modo ha resistito per secoli in virtù di una crescita avvenuta a ritmi controllati e in dimensioni equilibrate. Le alterazioni dell’ultimo mezzo secolo si sono verificate non in conseguenza di straordinari sconvolgimenti politici o sociali, ma di eventi quotidiani, di lunga durata e che si rendevano riconoscibili solo a posteriori. Nei secoli scorsi l’Italia ha patito conquiste e invasioni. Il suo territorio è stato solcato da eserciti regolari e da bande di mercenari. Travolgenti terremoti hanno scosso il sottosuolo e violente eruzioni vulcaniche hanno rovesciato antichi assetti geologici. Come in tutto il mondo occidentale, anche l’Italia ha subito modifiche nei rapporti fra la città e la campagna dopo la caduta dell’Impero romano, durante i secoli del feudalesimo, nel Seicento e in occasione dei processi di innovazione industriale. Le città hanno assorbito e perso abitanti, si sono espanse e ristrette. Hanno sottratto spazio alle campagne e poi gliel’hanno restituito. Ma il movimento del dare e dell’avere si è ridotto entro limiti compatibili. Le città, poi, sono state distrutte dai bombardamenti di due conflitti mondiali. Le campagne sono state piagate dalla malaria, affondate dalle inondazioni e sono rinate grazie alle bonifiche idrauliche e fondiarie.
Nel mezzo secolo appena trascorso, invece, l’Italia ha goduto di uno dei periodi più felici della sua storia. Ha archiviato le guerre e ha visto crescere in modo costante, a tratti impetuoso, i suoi livelli di benessere. Ha beneficiato del progresso scientifico e ha distrutto malattie mortali. Ha ampliato il sistema industriale, ha migliorato i collegamenti infrastrutturali. Ha sconfitto quasi del tutto l’analfabetismo ed ha assistito all’unificazione della sua lingua. Ha costruito solide istituzioni e reso i suoi abitanti custodi dei valori democratici.
Eppure durante questo incessante, pacifico e tranquillo periodo di progressi, silenzioso e con pochi sussulti, il territorio italiano ha pagato un prezzo altissimo. Ha subito un consumo la cui intensità non ha termini di paragone con il passato né con ciò che è accaduto in altri paesi europei assimilabili al nostro. L’edificato si è esteso oltre ogni limite: abitazioni, stabilimenti industriali e commerciali, strade e autostrade hanno invaso terreni un tempo destinati all’agricoltura, si sono arrampicati lungo le pendici collinari, erodendo vigneti e uliveti, gli insediamenti si sono estesi lungo le coste, fino ad abbarbicarsi su scogliere e promontori una volta coperti da arbusti e ciuffi di vegetazione mediterranea. All’edilizia di pregio si è affiancata quella scadente, a quella che ha rispettato princìpi di armonia si sono accompagnate le brutture, le mostruosità e le idiozie. Dopo le prime sono spuntate le seconde e per alcuni le terze case. Accanto all’edilizia legale ne è dilagata una illegale, avviata senza permessi, in violazione di norme che solo in rarissime occasioni qualcuno si è impegnato a far rispettare (l’abusivismo edilizio è uno dei poco invidiabili primati italiani nel mondo [ES1] ). L’aspetto fisico di molte estensioni pianeggianti, di località collinari o di piccoli e grandi addensamenti urbani, persino alla sommaria percezione che può offrire il confronto fra due fotografie scattate a cinquant’anni di distanza, mostra tali e tante diversità da rendere non più identificabili i loro tratti distintivi, gli elementi minimi che li rendevano conoscibili.
Questo libro avrebbe potuto raccontare gli sforzi delle amministrazioni pubbliche per consolidare, conservare e riparare, laddove necessario, un patrimonio diffuso che raggiunge vette monumentali, sia nei manufatti che nel paesaggio, o che invece si disperde più minutamente in un filare di aceri che sorreggeva una vite maritata, in una pieve, negli sparuti resti di un porto fluviale di età imperiale. E in effetti la grande maggioranza delle Soprintendenze può vantare una mole di competenze, di tutela, di manutenzione e di restauri che, se messa in rapporto ai pochissimi fondi, agli stipendi ridicoli e a un carico insopportabile di burocrazia, andrebbe narrata con gli strumenti dell’epica. E analogo genere letterario verrebbe usato per tanti magistrati, assessori, funzionari e dirigenti comunali e regionali, per tanti vigili urbani, o per quella quantità indefinita di cittadini che aderiscono a comitati locali o ad associazioni nazionali in difesa del territorio. Ma nonostante tutte queste energie, con la segreta aspirazione di ricaricarle, il libro che segue non può che registrare l’incapacità dei poteri pubblici di contenere un’espansione cementizia intenta a divorare la risorsa non rinnovabile del suolo. Una risorsa che le nostre generazioni avrebbero l’obbligo di conservare per quelle future almeno nello stato in cui l’hanno ereditata e che invece stanno dissipando a ritmi travolgenti, convinte di averne la totale disponibilità, annebbiate nella soddisfazione di bisogni presenti, e ritenendo illimitate le possibilità che quella risorsa si riproduca, oltre che illimitate le proprie attitudini alla manipolazione. Accanto all’incapacità si protende la volontà. Edificare, a prescindere dagli scopi e dalla qualità, è ritenuto un moltiplicatore di profitti, un equivalente dello sviluppo, un suo sinonimo, come se la ricchezza delle nazioni si misurasse in mattoni, e come se la natura, ostile all’uomo iuxta propria principia, solo trasfigurata e imbrigliata, ricoperta di muratura, fosse resa di pieno dominio e finalmente inoffensiva.
La sensibilità verso la salvaguardia del territorio è cresciuta. Le associazioni ambientaliste sono tenute in buona considerazione. E anche le politiche, l’etica pubblica hanno risentito della diffusione mondiale di parole d’ordine come ‘sostenibilità’, ‘compatibilità’, ‘limiti’ e altre ancora. Nel 1983 si iniziò l’abbattimento di circa duemila casette abusive nel bosco della Sterpaia, fra Piombino e Follonica. E dalla metà degli anni Novanta i governi nazionali hanno avviato la demolizione di tanti edifici abusivi in altre zone d’Italia sostenendo gli sforzi delle autorità locali, il coraggio di alcune procure. Ad Agrigento, per esempio, si sono abbattute villette nella Valle dei Templi. Il sindaco di Eboli ha guidato le ruspe contro 400 abitazioni costruite nella pineta, anche ad opera di camorristi. Sono finite in calcinacci le torri del Villaggio Coppola, l’Hotel Amalfitana a Fuenti, centinaia di costruzioni nell’agro romano, nell’oasi del Simeto. Poi questo impeto si è arrestato e una legge, a lungo attesa, e che avrebbe dovuto mettere ordine nelle procedure di repressione delle demolizioni, si è arenata. Contemporaneamente, e con meno clamore, perché attuato sul terreno discreto delle norme e dei decreti, proseguiva lo smantellamento di istituti che regolavano l’uso del territorio. Si è esibita l’intenzione di snellire procedure – e fin qui tutto bene – ma si è mirato direttamente a far saltare passaggi e verifiche importanti, in ossequio supino, culturalmente passivo a uno spirito del fare, che per anni si presumeva annichilito da una civiltà della chiacchiera. Una rivoluzione che si riverberava nel lessico della politica e dell’amministrazione. Rapidità contro lentezza. Esecuzione contro riflessione. Decisione contro dibattito. In particolare si è adoperata la fantasia giuridica per aggirare gli strumenti tradizionali della pianificazione urbanistica, un repertorio quanto si vuole invecchiato, probabilmente da riformare radicalmente, ma l’unico che si conosca in grado di guidare gli interventi in un luogo da un punto d’osservazione unitario, complessivo e, come si dice, di sistema.
Il centrosinistra, che numerosi meriti ha acquisito nel governo del territorio dopo quattro decenni di devastazioni, ha maturato la convinzione – sono parole di Salvatore Settis – che per battere la destra avrebbe dovuto realizzare venti cose di quelle cento che lo schieramento avversario sbandierava: ma in questo modo la destra non è stata battuta e, una volta vinto, si è trovata parte del lavoro già esaurito e si è dilettata, con mezzi più sperimentati, a strafare (bastino solo gli esempi della legge Obiettivo del ministro Pietro Lunardi, che programma una sequela di opere pubbliche, e la Patrimonio S.p.A. del duo Tremonti-Urbani, che prevede la possibilità di vendere, fra gli immobili dello Stato, anche beni culturalmente e artisticamente rilevanti).
Questo libro si nutre di un ragionevole pessimismo, indispensabile nell’agire, ma non vuole indurre allo scoramento (se dovesse accadere sarebbe l’effetto, mal tollerato, di un cattivo controllo dell’intelletto sulle passioni). Dopo tre capitoli centrati su questioni generali che mi pare offrano l’esempio della strutturale anomalia italiana – il consumo di suolo, la deregulation e l’abusivismo – vengono raccolte otto storie di maltrattamento. La fisionomia di questi racconti è assimilabile a quella di un reportage: descrizione dei luoghi, testimonianze dei protagonisti, inchieste, approfondimento, storia. Con il linguaggio, mi auguro, più consono a quello dei reportages. Uno dei criteri di scelta, sempre arbitrario (il libro, come si dice, è aperto: tali e tante sono le vicende che lo possono riempire), è la qualità direi drammatica delle storie da raccontare: per intensità dell’abuso, ma anche per il rilievo umano dei protagonisti, per la densità di questioni politiche che emanano, per i conflitti che scaturiscono, per le emozioni che alimentano. Spero siano storie dotate di forza simbolica, ‘storie italiane’, nel senso che contengono caratteri tipici di alcune realtà colte nella loro staticità e nelle loro mutazioni.
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[ES1]Direi europa