Titolo originale: The Space Race – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Mike Davis deve essere stanco di essere etichettato come profeta dei disastri. Ma l’essere apocalittici non è una brutta nicchia per uno storico di sinistra, in questi tempi fradici di calamità. Anche se il suo lavoro copre sia disastri di origine naturale che umana, Davis dedica gran parte del suo tempo alla sovrapposizione fra l’uno e l’altro, nelle fragili chiazze dove l’uomo ha negligentemente posto la sua dimora, come l’ecosistema desertificato di Los Angeles. Davis si è fatto una fama lì con la splendida storia urbana City of Quartz del 1990 e due successivi libri su L.A., Ecology of Fear e Magical Urbanism.
Al suo meglio, la prosa di Davis trasuda il fervore della crociata: se non proprio messianica, ci andiamo vicino. Aneddoti e fatti spuntano da ogni pagine, sostenendo le sue spesso radicali argomentazioni. Non tutti comunque amano questo marxista affatto pentito: qualche anno fa, Davis fa denunciato da parte di qualcuno per essersi preso delle libertà coi suoi dati. Anticipando James Frey, fu anche accusato di essersi inventato una conversazione, in un pezzo scritto nel 1989 per LA Weekly (col permesso dell’intervistato, come poi saltò fuori). Davis lasciò la West Coast per un periodo di tempo, e i suoi argomenti divennero globali con Late Victorian Holocausts, un tomo sulle tragedie ambientali del terzo mondo, seguito lo scorso anno da Monster at Our Door. Rapido trattato sull’influenza aviaria, Monster propone la pestilenza incombente come conseguenza di follie umane quali l’agricoltura industrializzata, il sistema sanitario marcio, una popolazione globale impoverita su cui domina lo slum, ambiente ideale per i germi.
Davis aveva già in mente gli slum, dato che era a mezza strada del manoscritto che poi è diventato Planet of Slums, in uscita il prossimo mese. Il paragrafo iniziale del libro esibisce la sua vena iperbolica, profetizzando la nascita di un bambino che segnerà “uno spartiacque nella storia dell’umanità, paragonabile al Neolitico o alla Rivoluzione industriale”. Davis non sta parlando del secondo avvento di Gesù, ma di un enorme mutamento epocale: il momento in cui la popolazione urbana del pianeta supererà in numero quella rurale. I teorici americani dell’urbanistica hanno passato gli ultimi vent’anni discutendo di sprawl o edge cities, ma Davis sostiene che il processo sta avvenendo a velocità iperbolica in luoghi come l’Asia, l’America Latina e l’Africa, dove le città divorano la campagna. Presto non racconteremo più le favole sulle differenze tra il Topo di Città e quello di Campagna: ci saranno soltanto il Topo di Megacity e quello di Small-City. La Cina, nota, “ha guadagnato più abitanti delle città negli anni ’80 di quanto non abbia fatto tutta l’Europa (Russia compresa) in tutto il ventesimo secolo!”.
Il problema è che popolazioni più grandi non portano automaticamente ad economie in crescita, e si crea un enorme frattura quando i poveri sciamano verso le città prive di infrastrutture per sostenerli. La popolazione di squatter a Karachi raddoppia ogni dieci anni, e Davis prevede che nell’Africa nera ci saranno 332 milioni di abitanti di slum entro il 2015”. “Le città del futuro, anziché essere fatte di vetro e acciaio come immaginato dalle scorse generazioni di urbanisti, sono invece costituite in gran parte di mattoni crudi, paglia, plastica riutilizzata, blocchi di cemento, legname di recupero” scrive. “Invece di città della luce che salgono verso il cielo, il mondo urbano del ventunesimo secolo sta acquattato nel fango”.
Davis si preoccupa per una “fondamentale riorganizzazione dello spazio metropolitano” nel mondo, coi ricchi che abbandonano le città ritirandosi nel genere di gated communities note agli americani – di fatto molto note a tutti, dato che Davis dice come siano “spesso immaginate come piccole Californie del Sud”. Ed ecco un insediamento nella fascia esterna di Pechino, chiamato Orange County, completo di case progettate da un architetto di Newport Beach. Mentre i poveri non hanno scelta sul dove vivere (e finiscono così su mucchi di rifiuti o in aree a rischio), i ricchi possono abitare in “un elusivo e dorato non luogo”.
Planet of Slums si sofferma raramente in un luogo abbastanza a lungo da lasciar tirare il respiro al lettore. Ciascun capitolo raccoglie un catalogo virtuale degli orrori sofferti dai poveri globali, dalla scarsità di acceso ai gabinetti (in alcuni casi centinaia di persone condividono un solo lurido pisciatoio) allo sfruttamento dei bambini. Sepolti tra le pagine, particolari affascinanti, come la Città dei Morti al Cairo, dove un milione di poveri vive nelle tombe dei sultani utilizzando le lapidi come arredamento. Alcuni degli episodi più brutali nascono dalle “campagne di abbellimento” pensate per impressionare occhi occidentali, come lo sgombero fatto da Imelda Marcos di 160.000 squatters di Manila per rendere più grazioso lo spazio destinato a un concorso di Miss Universo, una visita di Gerald Ford, un incontro Fondo Monetario Internazionale / Banca Mondiale.
Come per molti dei suoi libri, la tesi centrale di Davis è che la riduzione a slum del terzo mondo non fosse inevitabile, ma risultato di decisioni politiche. Negli anni ’50 e ‘60, i governi da Cuba alla Tanzania fecero voto di offrire assistenza sanitaria e abitazioni ai poveri: un impegno sabotato dalle restrizioni imposte ai paesi debitori dal FMI e Banca Mondiale, che ha ridotto i programmi governativi e incoraggiato le privatizzazioni.
Per essere uno dei pochi scrittori in grado di colmare il divario fra la comunicazione accademica e quella mediatica più ampia, Davis avrebbe potuto rendere l’argomento non solo accessibile, ma anche tale da inchiodare, collegando elegantemente i punti che uniscono ONG e remissione del debito, corporativismo e pianificazione urbana, abitanti delle favelas e operatori immobiliari. Ma Planet of Slums ha troppo poca della prosa vivace o dell’impulso narrativo che alimentava libri come City of Quartz o Late Victorian Holocausts, e qualunque forma di eloquenza impiegata soccombe sotto la valanga di dati e carte ammassate in ogni pagina. Il denso accalcarsi di idee e informazioni induce a chiedersi se Davis non abbia per caso voluto riprodurre la stessa claustrofobia dello slum.
Nota: la condizione "a mezza strada del manoscritto" di Mike Davis, citata dal recensore, ha anche prodotto un articolo piuttosto lungo, con il medesimo titolo del libro in uscita, pubblicato dalla New Left Review nel numero 26 del marzo-aprile 2004. Lo allego di seguito per gli eventuali interessati in file PDF scaricabile. Per qualche dato sul caso degli slum africani, qui su Eddyburg Mall /Ambiente si veda anche l'articolo di Christine Auclair sulle possibilità di sviluppo sostenibile (f.b.)