Prefazione al libro di Gabriella Corona, I ragazzi del piano , Donzelli, Roma 2007. In calce la presentazione editoriale
1. Un originale gruppo intellettuale.
La storia del gruppi intellettuali – tema caro a Gramsci e a pochi storici della cultura – non gode in Italia di troppi cultori e non ha sedimentato una tradizione, se non quella relativa alla vicenda delle avanguardie letterarie e artistiche tra Otto Novecento. Oppure è rintracciabile, in forma indiretta, nella ricostruzione dei gruppi dirigenti dei partiti politici, cioè come un capitolo della storia dei partiti. Dunque, il primo elemento di originalità da segnalare, di questa fatica di Gabriella Corona, è la singolarità del gruppo intellettuale di cui ella ha ricostruito la storia. I «ragazzi del piano» costituiscono, infatti, una piccola comunità intellettuale, aggregatasi per ragioni storiche e per fortuite casualità, che non si impegna a innovare metodi espressivi, ad elaborare idee o a mettere in atto varie strategie per conquistare posizioni di potere. Essi non sono né artisti né politici di mestiere, ma sono urbanisti che vivono una particolare fase della vita civile italiana della seconda metà del XX secolo. L’originalità di questo gruppo – e della storia che ne ricostruisce le vicende - sta dunque, preliminarmente, nella particolare interpretazione della professione di urbanista che essi incarnano in quegli anni. I protagonisti di questa vicenda non progettano in astratto modelli di città, perché i loro saperi professionali non sono il puro risultato di un pur brillante curriculum accademico. La loro formazione di architetti è inseparabile dal processo di partecipazione quotidiana alla vita civile di una città, Napoli, che è – direi quasi per definizione – un concentrato di problemi urbani. Come racconta l’autrice, i ragazzi del piano, conclusi gli studi, non scelgono la professione privata, ma riversano tutti il loro impegno, in vario modo e con diverse scansioni temporali, nei diversi ambiti della Pubblica Amministrazione. Essi elaborano saperi destinati a trasformarsi in progetti, soluzioni legislative, che hanno bisogno dell’impegno pubblico e che tendono a fare di tale potere il soggetto di governo principale, sia a livello centrale che periferico, delle trasformazioni urbane.
Come scrive con acutezza Gabriella Corona questo gruppo di urbanisti esprime «un’esigenza di governo della città in quanto “cosa pubblica”». Una nozione che oggi non è più né ovvia né scontata. Se mai lo è stata in Italia. Quell’insieme di realtà «private», fatte di individui, famiglie, singoli edifici, manufatti, patrimoni abitativi, ecc. pur ricadendo in prevalenza nell’ambito della proprietà individuale forma in effetti una dimensione collettiva di vita associata, che è regolata nella sua interezza da norme pubbliche. Lo spazio delle città, dove i cittadini vivono, operano, si spostano, scambiano relazioni, è per eccellenza, a dispetto delle sue divisioni funzionali, dei suoi mille e invisibili confini, uno spazio collettivo, che vive grazie all’universalità del suo uso. È l’esistenza di questa dimensione che consente agli individui di uscire dalla sfera domestica e di farsi società. Essere cittadini non coincide con la dimensione dell’essere proprietario di una casa o di uno terreno collocato in città, ma nel godere e nell’essere regolato da diritti e doveri universali. Proprio per tale ragione ogni operazione di occupazione e modificazione dello spazio urbano non dovrebbe avvenire a esclusivo soddisfacimento di un interesse privato. La città è un corpo inscindibilmente solidale, un’arena di interessi generali che vive, opera e funziona esattamente perché gli interessi individuali si armonizzano costantemente e invisibilmente con quelli di una intera comunità.
Tali convincimenti di fondo, che ispiravano i ragazzi del piano all’inizio della loro carriera, a metà degli anni Settanta, erano per un verso il portato della loro cultura urbanistica, fondata su una illustre tradizione italiana, e al tempo stesso l’esito della storia politica di quegli anni. Questi giovani urbanisti avevano attraversatocome studenti la grande stagione del 1968, ma già pochi anni dopo, nel 1973, avevano dovuto fare i conti con una grave emergenza urbana: il colera. L’esplosione improvvisa dell’epidemia ricordava ai napoletani, all’Italia e all’intera Europa di quegli anni, che nel cuore di una grande città della seconda metà del Novecento poteva risorgere lo spettro di malattie di antico regime che si credevano sconfitte per sempre. Le lotte popolari che seguirono a quell’evento, la diffusione dei Consigli di quartiere, i dibattiti aspri e intensi che attraversarono la città – all’unisono con le riflessioni su quella vicenda nell’intero Paese – hanno dato una forte curvatura ambientalista – lo ricorda l’autrice – ai problemi urbani di Napoli. Un’impronta culturale che per la verità a Napoli era antica, risalente almeno ai primi anni del ’900, all’insediamento dell’Italsider a Bagnoli, come la stessa Corona ha messo in luce in altri suoi studi. D’altra parte, se si considera la collocazione di Napoli appare facile comprenderne le ragioni. La città è incastonata nel cuore di una natura in perenne movimento e ne è dipendente come poche altre in Italia. Posta ai piedi di un vulcano ancora attivo, essa deve al lavorìo secolare del Vesuvio, oltre a rovine e distruzioni, anche l’impareggiabile fertilità dei terreni agricoli che la circondano. Quei suoli hanno fornito quotidianamente, per secoli, cibo fresco ad una delle più numerose popolazioni urbane d’Europa. Ma la città è anche collocata sul mare, in un sito di incomparabile bellezza: e quel mare le ha permesso di essere città-porto di prima grandezza, centro turistico in età contemporanea, luogo affollato di balneazione fino a quando l’inquinamento lo ha permesso
Ora, tuttavia, la città aveva a che fare con la natura in altro modo. Il legame tra vita urbana e ambiente (inquinamento idrico, scarsità di acqua potabile, sistema fognario inefficiente, discariche abusive, sovraffollamento degli spazi abitativi, ecc.) ritornava con drammatica originalità. Ma quell’evento pandemico era in realtà una rivelazione dell’assoluta singolarità della struttura urbana di Napoli e della sua storia secolare. La città tornava a ricordare in quegli anni la peculiare e stratificata irrazionalità non tanto del suo impianto originario quanto, e soprattutto, della sua successiva espansione. Si tratta di un grande e aggrovigliato nodo che qui occorre almeno rammentare. In questo nodo, infatti, risiede la non comune esemplarità della vicenda, dell’impegno, delle realizzazioni di questo gruppo di urbanisti e al stesso tempo l’originalità del libro della Corona. Questo saggio, infatti, riesce a tenere insieme con sapiente equilibrio, non solo la storia già di per sé singolare di un gruppo di eccellenti urbanisti, dei loro dibattiti, progetti, successi e sconfitte, ma anche la storia di Napoli nella seconda metà del XX secolo, la vicenda di una città particolarissima riletta nel contesto della storia d’Italia di quella fase: non solo la storia delle congiunture e delle stagioni urbanistiche, ma anche quella delle vicende politiche, delle trasformazioni dello spirito pubblico nazionale. Credo di poter dire che raramente, come nel caso presente, è stata raccontata una pagina intensa della storia d’Italia attraverso le vicende di una città. Affondando lo sguardo analitico in quel ribollente frammento e laboratorio che è stata Napoli negli ultimi decenni del secolo scorso.
2. Napoli, città speciale.
Questo vasto aggregato urbano, come si ricordava, non è una città come le altre. Per usare le parole di un autorevole urbanista, Luigi Piccinato – citato dall’autrice – esso è il risultato di un prolungato errore storico di uso del territorio da parte delle popolazioni: «Napoli è una città che si è sviluppata inorganicamente in forma perenne, sommando sempre gli stessi errori. Cioè un addensamento folle lungo la costa, a ridosso della costa, dimenticando l’interno di una Comune ricchissima, bellissima e piena di possibilità». Val la pena qui rammentare che per tutta l’età moderna Napoli è stata una delle più grandi e più popolose città d’Europa, e che il suo impianto storico è venuto perdendo col tempo le sue originarie ragioni insediative. L’ irrazionale agglomerazione degli abitanti ha portato la città nei secoli e nei decenni a sovraffollare gli spazi disponibili, a restringere gli abitati tra la montagna e il mare, a «sovraccrescere» su se stessa, facendo arrampicare gli edifici uno su sull’altro. Proprio tale illogicità degli addensamenti abitativi rivela come l’evoluzione urbana abbia ubbidito a bisogni disordinati, conformistici e poco lungimiranti dei cittadini e dei gruppi dirigenti. Qui davvero si rivela come la città quale «cosa pubblica» non aveva trovato la possibilità di esprimersi secondo un piano di espansione che rispondesse a lungimiranti interessi generali. Mentre il Novecento, con la sua drammatica esplosione demografica, ha finito col rendere patologica tale tendenza. Ed è davvero rivelatore e degno di nota il fatto – ricordato dall’autrice – che una commissione del Ministero dei Lavori pubblici abbia giudicato come abusivi la quasi totalità degli edifici costruiti in città dal secondo dopoguerra agli anni Settanta.
Tali brevi considerazioni sono indispensabili per capire il contributo davvero straordinario che il gruppo di urbanisti di cui si fa la storia in questo libro hanno dato alla trasformazione della loro città. Tanto più se si ricorda che esso ha dovuto servirsi di uno strumento politico-amministrativo (il Comune di Napoli) segnato da una singolare e caotica inefficienza amministrativa. Un aggrovigliato intreccio di retaggi storici e di vincoli sociali che Ada Becchi – una studiosa che ebbe un breve ruolo nella prima giunta Bassolino – analizzò con acutezza in saggio pubblicato su «Meridiana » nel 1994.
Qui non è ovviamente possibile neppure per cenni disegnare i vari percorsi storici del gruppo, cadenzato dalle svolte politiche nel governo della città: le giunte del comunista Maurizio Valenzi, la loro caduta, il ritorno di Gava, l’emergenza del dopo terremoto, la giunta Bassolino, gli anni recenti della sindacatura di Rosa Russo Iervolino. E neppure riassumere tutti i mutamenti strutturali introdotti nel corpo vivo della città dagli interventi ispirati dai «ragazzi del piano». Basti pensare che essi, e soprattutto De Lucia, hanno dovuto affrontare in quegli anni uno dei più rilevanti casi di dismissione della storia industriale d’Italia: l’Italsider di Bagnoli. Il lettore appassionato troverà nel testo una non comune messe di informazioni, dati, analisi, interpretazioni fondate su documentazioni di prima mano. Val la pena qui ricordare, tuttavia, che il lungo lavoro di questo gruppo di urbanisti – pur alla fine dissoltosi – si può idealmente considerare concluso con l’approvazione del piano regolatore del 2004. Un documento di programmazione che finalmente non punta all’espansione dei manufatti urbani, come continua ad avvenire, legalmente o illegalmente, in tutte le città italiane, ma all’integrità del territorio, alla sua conservazione e tutela. Si tratta di una conquista importante, che mostra a distanza i risultati di un grande e tenace lavoro, ma che costituisce – per gli studiosi e per gli osservatori non superficiali – anche un caso esemplare di difformità e contraddittorietà dei processi materiali all’interno di una determinata fase storica. A volte correnti sotterranee, che hanno origini non prossime, continuano a percorrere in senso inverso il corso principale della storia come animate da una forza indipendente. Val la pena ricordare che mentre l’Italia, tra il 2001 e il 2006, ha vissuto la fase culturalmente e moralmente più degradante della sua storia repubblicana, infliggendo colpi di rilevante gravità allo spirito pubblico e al senso civile degli italiani, a Napoli la forza residuale, l’onda lunga di un grande progetto, almeno sul piano urbanistico, ha offerto un sorprendente fenomeno di controtendenza. Certo, insufficiente a contenere i piccoli e grandi fenomeni di criminalità che cadenzano ormai la vita quotidiana di Napoli, il traffico tumultuoso e disordinato, l’inquinamento diffuso dei rifiuti urbani: tutti tratti che hanno rapidamente cancellato l’immagine di città risorta offerta dalla prima giunta Sassolino. Ma questi non sono che eredità nefaste di antichi problemi locali, e al tempo stesso espressione, a pieno titolo, dell’immiserimento recente della vita civile della nazione.
Pur nei limiti di una breve prefazione, tuttavia, qui non è possibile tralasciare almeno alcuni aspetti di questa vicenda di storia urbana, che l’autrice ricostruisce con una sensibilità e una curvatura di storia ambientale sicuramente nuova, per lo meno nella storiografia contemporaneistica italiana.
Non è per mero gusto, tipico dello storico di mestiere, di ordinare eventi e processi entro le maglie ordinate delle periodizzazioni temporali. Ma credo sia giusto segnalare come l’ispirazione o la spinta per ripensare Napoli come «cosa pubblica» e per tentare di ridisegnarla secondo logiche di interesse generale, sia venuta da tre eventi tra loro molto diversi e che scandiscono altrettante fasi storiche dell’Italia della seconda metà del Novecento: il colera del 1973, già ricordato, il terremoto del 1980 – che introdusse una frattura drammatica nell’agglomerato abitativo e nella stessa vita quotidiana di Napoli – e la giunta Bassolino ai primi anni ’90, che nacque sull’onda di un ritrovato protagonismo dei cittadini italiani, di riemersione della capacità progettuale dei gruppi dirigenti, dopo il tracollo del blocco incancrenito del sistema politico nazionale e del dominio delle oligarchie di partito.
Com’è noto a molti italiani non più giovani, la ricostruzione del dopo terremoto del 1980 ha sicuramente rafforzato la tradizione dell’uso distorto e clientelare del danaro pubblico e creato non pochi problemi di legalità a Napoli e forse soprattutto nelle società delle altre aree colpite dal sisma. Tale immagine vulgata, tuttavia, nasconde in maniera poco equanime i rilevanti effetti urbanistici che la ricostruzione ha messo in moto o direttamente realizzato Lo storico potrebbe oggi prendersi il gusto di comparare quanto è stato realizzato a Napoli in materia di urbanistica nel corso del decennio Ottanta e l’immagine pubblica che della città ha fornito la stampa nazionale, troppo proclive a denunciare gli scandali delle malversazioni (com’è sacrosanto che avvenga) ma poco incline a dar conto dei processi positivi, della trasformazioni di portata generale, che non fanno clamore, che spesso non sono racchiudibili in un evento, non rientrano in una logica di narrazione e di cronaca. Immagino che la divaricazione risulterebbe clamorosa. In quel decennio, infatti, diversamente da quanto avveniva in tante altre aree del Paese, i «ragazzi del piano» andavano progettando un ridisegno radicale della città di Napoli. Essi intanto cercarono di affrontare l’emergenza (le abitazioni civili distrutte o rese pericolanti dal sisma) con un vasto programma di edilizia residenziale, varato nel 1981, e destinato a correggere uno dei mali storici della città: il sovraffollamento insediativo nel centro storico. Si trattava di una questione socialmente e politicamente assai delicata, eppure furono realizzati allora ben 5000 espropri di abitazioni, per poter intervenire con operazioni di demolizione o di ristrutturazione e recupero In meno di un decennio, al luglio del 1989, risultavano edificati oltre 11 mila nuovi alloggi, insieme a strutture mediche, scolastiche, culturali, uffici pubblici, chiese. Non si trattò semplicemente di edifici che rispondevano a drammatiche e talora urgenti esigenze sociali. Essi facevano parte di un piano più generale che ubbidiva a una nuova idea di città. Non per nulla alla fine del decennio risultavano costituite 16 aree verdi di ampiezza fino a 10 mila m2, 15 parchi di quartiere da 10 mila a 100 mila m 2,3 parchi urbani di oltre 100 mila m2 e una vera e propria area di rimboschimento in località Miano. All’indomani del terremoto, infatti, e soprattutto a metà del decennio si fa strada l’idea che il verde, l’incolto, il non costruito diventa fondamentale per ricostruire la città. Una città – è questo un dato davvero singolare ricordato dall’autrice – che sino alla seconda guerra mondiale ospitava al suo interno più suoli agrari che suoli costruiti. Molti degli spazi verdi che verranno inaugurati dalla giunta Bassolino – ricorda Vezio de Lucia, assessore all’Urbanistica in quella stessa prima giunta e riconosciuto dal gruppo come il maestro e come il principale ispiratore del suo operato – erano stati progettati e in parte realizzati secondo l’impulso e le culture che avevano ispirato i piani della ricostruzione. In quegli anni, rammenta ancora de Lucia in una citazione della Corona «Il motto dei 12 giardini era “ogni quartiere della periferia deve avere una villa grande come la villa comunale di Napoli”». Si trattava di un modo nuovo di concepire le periferie, non più come segregazione spaziale dal centro storico, ma come aree dotate di servizi adeguati, ed anche di una più ricca qualità ambientale, grazie al verde superstite o ricostruito in aree abbandonate. L’ambiente, la salubrità, il verde, la bellezza del paesaggio si affermano come valori urbani. In quella fase con la legge Galasso del 1985 – significativamente anch’essa nasceva per iniziativa di un politico napoletano, e dunque «a Napoli», singolare laboratorio di nuovo urbanesimo e di importanti iniziative legislative – la tutela dell’ ambiente e del paesaggio si imponevano nella legislazione nazionale, e quel successo aiutava gli urbanisti napoletani e imprimeva una sensibile innovazione nella cultura politica italiana.
3. Gli orti in città.
In coerenza con tutto il quadro storico generale tracciato, l’autrice individua gli anni Novanta del secolo scorso una fase di svolta nella storia della pianificazione urbana a Napoli, tanto in linea generale che in riferimento alla seconda metà del decennio precedente. Essa scandiva «un mutamento sostanziale degli obiettivi fondamentali dell’intervento che consisteva nel restituire valore alla bellezza dei luoghi e nel recuperare il territorio come risorsa. Da una fase di oblio quasi totale della natura nell’organizzazione del territorio durante la seconda metà degli anni ottanta si passa ad una pianificazione fondata su una concezione della città che attribuisce una grande importanza al carattere produttivo delle risorse naturali». Con una ampiezza che non aveva precedenti il cuore urbano di Napoli veniva osservato nella sua più ampia collocazione territoriale, nei vasti e molteplici spazi di una geografia che coglieva ora anche i nessi nascosti e le relazioni di più ampia scala tra la città e i suoi dintorni. Agli Indirizzi per la pianificazione urbanistica, pubblicato dal Comune nel 1994, venne allora affidato l’ambizioso disegno di riplasmare il secolare rapporto tra Napoli e le sua campagna. Si esprimeva in quel documento e in generale nelle elaborazioni urbanistiche di quella fase il riemergere di una nuova ispirazione ambientalista che attraversava la cultura politica napoletana e in parte anche quella nazionale. Sotto il profilo strettamente culturale, quegli Indirizzi riprendevano una concezione che risaliva a oltre un decennio prima. Come l’autrice ricorda costantemente, i « ragazzi del piano» avevano sempre cercato di pensare la città come ambito di classi e di bisogni sociali, ma anche come habitat, come luogo in cui la natura ha sempre posto, per soggiogata e manipolata che sia. Perciò anche il tentativo di porre fine, a partire dagli anni Ottanta, alla marginalità sociale delle aree periferiche intorno a Napoli si era colorata di forti motivazioni ambientaliste. « Il piano delle periferie in particolare – ricorda Corona – era fondato su un principio di tutela delle cinture verdi della città, e cioè quel principio secondo il quale la pianificazione era chiamata a definire i rapporti tra urbano e rurale, a stabilire i limiti all’attività dei privati nel processo di espansione della città proprio in nome del benessere e della salute dei cittadini. Quel principio aveva ispirato l’azione del garden city movement fin dagli inizi del Novecento in Germania, Francia, Olanda, Belgio, Spagna, Polonia, Cecoslovacchia, Russia, Stati Uniti, e l’ampia legislazione inglese sulle green-belt cities del secondo dopoguerra. Con grande ritardo, l’Italia partiva ora da Napoli. E significativamente, sia sotto il profilo politico che ambientale. Negli anni Novanta, infatti, la prima giunta Bassolino restituiva alla progettualità della politica uno slancio e una energia operativa che essa aveva perduto da tempo, specie nell’Italia meridionale, mentre la ricchezza ambientale della città e della sua periferia offrivano possibilità ancora non del tutto compromesse.
Oggi forse le realizzazioni di quell’opera pianificatoria si presentano a noi come una delle più durature conquiste di quella stagione. Costituisce a mio avviso un tratto culturale notevolissimo di quella esperienza l’aver pensato ai vasti spazi incolti, alle macchie e ai piccoli boschi, ma anche agli orti, ai microfondi, alle piccole aziende agricole, ai prati, alle sodaglie che ancora punteggiano, spesso invisibili e nascosti la città – come spesso ci ricorda il geografo Antonio de Gennaro – non più come spazi in attesa di «valorizzazione fondiaria», cioè di edificazione urbana, ma come beni ambientali, patrimoni storici ed estetici della città. Luoghi da mantenere intatti, non modificati, sottratti alla voracità di quella macchina tritatutto che è ormai diventato lo sviluppo. Il Parco delle Colline di Napoli, ad esempio, istituito nel 2003, rappresenta un contributo importante in questa direzione, perché pone sotto tutela un vasto territorio, sottraendolo a un sicuro destino di cementificazione. È peraltro degno di nota – e l’autrice si sofferma più volte su tale aspetto – che in queste aree il rapporto tra pubblico e privato non è necessariamente conflittuale: spesso i privati vengono incoraggiati nelle loro economie se esse conservano i valori paesaggistici e ambientali del territorio.
Come già accennato, si tratta di un fenomeno non esclusivamente napoletano. Anzi, potremmo considerarlo, sotto certi aspetti, tardivamente europeo. E tuttavia oggi la fitta rete dei rapporti tra città e campagna si sta caricando di nuovi significati e funzioni. È in questi ultimi anni che urbanisti, sociologi, agronomi si vanno interrogando sul destino delle periferie delle città del Nord e del Sud del mondo, su quelle terre di confine dove l’agricoltura sembra infilarsi nelle ultime propaggini urbane e la città sembra voler divorare progressivamente le terre coltivate. Oggi, stando ad alcune analisi recenti sembra che la conservazione degli spazi agricoli periurbani stia trovando nuove ragioni di convenienza economica e quindi possibilità di conservazione, tutela, valorizzazione. E questo talora anche al di là degli sforzi generosi degli urbanisti più lungimiranti e culturalmente dotati, delle battaglie degli ambientalisti. Come ha ricordato Pierre Donadieu, agronomo e geografo francese – che la Corona richiama nelle pagine finali – due convergenti tendenze sembrano cospirare a mantenere frammenti di campagna dentro le città e di far vivere lembi di città negli ultimi territori della campagna: «da un lato l’urbanizzazione delle culture occidentali e il loro “bisogno di campagna” come alternativa agli ambienti urbani, e dall’altro, la diversificazione delle economie agricole per rispondere a una domanda urbana che non è più esclusivamente alimentare» (P. Donadieu, Campagne urbane. Una nuova proposta di paesaggio della città, ed. it. a cura di M. Mininni, Donzelli, Roma, 2006, p. 40). D’altra parte, una vasta letteratura agronomica internazionale ha da tempo segnalato la rinascita degli orti urbani, il riuso agricolo di aree dismesse, di periferie degradate, ecc. Si tratta di un fenomeno che interessa le desolate periferie delle città del Brasile così come alcune ex aree industriali della Gran Bretagna o della Germania, i Paesi postindustriali come quelli in via di sviluppo: esso rientra nelle tendenze segnalate da Donadieu, Ma vi si manifesta anche un più spiccato bisogno di alcuni strati cittadini di accedere al cibo fresco, non alterato dalle manipolazioni industriali, alla necessità di accorciare un «filiera» di trasformazioni divenuta ormai troppo lunga. E tuttavia questo non è tutto. Oggi gli inquietanti scenari dei mutamenti climatici in atto danno alla presenza della campagna nella città una funzione ambientale sinora completamente rimossa e imprevista. Se, come ormai appare altamente probabile, saremo costretti ad affrontare estati sempre più torride e soffocanti, è evidente a tutti il rilevante valore della presenza degli alberi, degli arbusti, degli orti, dei prati, delle acque irrigatorie dentro gli spazi e gli edifici urbani. Lo straordinario potere moderatore degli estremi climatici che possiedono le piante verrà finalmente valorizzato in tutta la sua pienezza e questo costringerà a rivedere la furia edificatoria, favorita dai Comuni, che ha colpito tante aree d’Italia in questi ultimi anni. Il verde non potrà più essere valutato come un lusso superfluo, ma come un valore irrinunciabile del vivere urbano. La città andrà ripensata, e le sue periferie non potranno più essere immaginate – come oggi accade – simili a nuove Las Vegas degli ipermercati e dei centri commerciali. Un più severo uso del patrimonio ambientale e territoriale si imporrà come necessità vitale dei cittadini. E Napoli e questa storia dei «ragazzi del piano» avranno qualcosa di sorprendente da raccontare.
Sono anche personalmente coinvolto nelle vicende narrate in questo bellissimo libro di Gabriella Corona, e ho perciò qualche pudore a parlarne. Mi sembra comunque una lettura utilissima e bella per chi crede che la città possa essere migliore, e vuole trarre qualche elemento di speranza dalla vicenda, ancora aperta, di un gruppo di urbanisti che credono al loro mestiere in una trincea difficile. Ecco la presentazione editoriale (IV di copertina):
«L’idea di scrivere questo libro mi è balenata all’improvviso, mentre camminavo per Napoli, lungo il corso Vittorio Emanuele. Questo pensiero mi diede una profonda emozione, un forte entusiasmo. Avrei potuto lavorare con fonti “vive”, intrecciare livelli di realtà molto diversi e lontani, raccordare la storia delle trasformazioni degli assetti ambientali con quella delle aspirazioni e delle idee di un gruppo di amministratori che aveva avuto a Napoli un ruolo fondamentale nell’elaborazione degli interventi pubblici».
Alternando lo stile dell’indagine scientifica ai toni della narrazione, Gabriella Corona dà vita a un’originale esperienza storiografica in cui le vicende che riguardano il governo del territorio a Napoli e la biografia dei suoi protagonisti si mescolano nel periodo che va dagli anni settanta del Novecento fino ad oggi: il Piano delle periferie, la prima fase della ricostruzione successiva al terremoto del 1980, le politiche degli anni novanta, il Piano regolatore.
Ne risulta un modello di memoria condivisa tra lo storico e l’oggetto della sua osservazione, dove la voce dei ragazzi rappresenta l’ordito di un racconto in cui viene ricordato, senza facili stereotipi, il lavoro per correggere le implicazioni distruttive delle trasformazioni urbane. Il libro, tuttavia, non è solo un’analisi del caso partenopeo. È anche un’ampia riflessione sulle radici di un pezzo importante dell’ambientalismo italiano, sui suoi rapporti con l’urbanistica e con i partiti di sinistra. E, soprattutto, I ragazzi del piano è una metafora dell’essere donne e uomini impegnati nel governo della polis contro chi vuole scardinare i valori della politica e nel tentativo supremo di realizzare il bene comune attraverso gli strumenti della democrazia.