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Luciano Canfora
Parigi 1789 e Soviet: chi sono i nemici dei due miti gemelli
4 Febbraio 2010
Recensioni e segnalazioni
L’uso politico dei paradigmi storici: quando demoliscono le rivoluzioni per lanciare o rivalutare il fascismo. Il Corriere della Sera, 4 febbraio 2010

Anticipiamo in questa pagina un estratto dalla prefazione inedita scritta da Luciano Canfora per il saggio L’uso politico dei paradigmi storici (pagine 125, € 16), che esce oggi in libreria per l’editore Laterza. Il volume riproduce, riveduto e ampliato con un’appendice e una conclusione nuove, un testo uscito nel 1982 presso Il Saggiatore con il titolo Analogia e storia. Fra i temi qui trattati da Canfora le caratteristiche «inquietanti» tipiche del mestiere dello storico, che a suo avviso «sussiste in relazione col potere: o perché suo antagonista o perché suo strumento».

Quando queste pagine furono scritte il mondo era ancora diviso saldamente in due campi (che la grande diplomazia kissingeriana era però riuscita a rendere tre, creando margini di manovra straordinari per il campo occidentale). E certo allora nessuno pensava che di lì a 7-8 anni uno dei due campi sarebbe scomparso liquefacendosi. Solo qualche oppositore che passava per visionario prevedeva quel crollo (Amalrik scriveva: “Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984?” con allusione all’utopia negativa di Orwell). Ma va ricordata anche l’intuizione di una studiosa francese di mentalità aristocratica, Hélène Carrère d’Encausse, la quale nell’Empire éclaté (trad. it. Esplosione di un impero?, edizioni e/o) additava, con ammirevole lungimiranza, nei conflitti interetnici da un lato e nel ritorno in forza del fattore religioso dall’altro gli elementi di una imminente crisi profondissima dell’Urss. Non so dire se questa illustre studiosa avesse anche previsto la rapida fine del Paese che così bene conosceva, ma certo ci andò molto vicino.

Peraltro, in quei medesimi anni, l’autorappresentazione retorica del «mondo libero» convinceva sempre meno. Mentre l’Urss teneva legati i suoi satelliti con la stessa durezza ed eventuale repressione che l’antica Atene adoperava coi suoi alleati, gli Usa proteggevano le dittature militari in tutto il mondo extra-europeo (ma in Grecia, nel 1967, estesero tale scelta a un importante Paese europeo!), dall’Indonesia all’America Latina, al Pakistan, all’Africa. Al punto che qualunque combattente per la libertà, laico o cattolico, religioso o marxista, in America Latina identificava negli Usa il grande protettore delle oligarchie militari e delle borghesie compradore. Era una scelta di campo ovvia. Helder Cámara e Romero non erano che la voce del buon senso oltre che i testimoni di una realtà feroce e sistematicamente occultata.

Ciò non impedì alla crisi del campo «socialista» di fare il suo corso. La storia non fa sconti e in politica non c’è un solo errore che non si paghi. Anzi fu proprio l’incapacità di autocorrezione del sistema sclerotizzato simboleggiato dall’Urss a rimettere in moto analogie latenti o esplicite, di varia capacità diagnostica. Ed è molto significativo che, proprio in quel torno di tempo in cui tale crisi esplodeva e si compiva, sia stata rimessa in discussione la lettura di quei 70 anni centrali del Novecento, retrocessi da tappa verso una ulteriore evoluzione, cioè verso il futuro, a parentesi, anzi a parentesi da archiviare, e da archiviare— si disse allora frettolosamente — come processo storico puramente in perdita. Maggior teorico di tale lettura estrema fu François Furet nel grosso libro Le passé d’une illusion (trad. it. Il passato di un’illusione, Mondadori), opera non a caso del maggiore incrinatore del mito — considerato fino ad allora ormai non scalfibile— dell’altra rivoluzione, quella del 1789.

Funzionava ancora una volta un procedimento mentale analogico: nel momento in cui il 1917-1989 diventava una parentesi negativa, a maggior ragione— e sia pure retroattivamente — la stessa sorte toccava al 1789-1794 (o se si preferisce 1789-1815), la cui brevità non doveva far perdere di vista che si trattava dello stesso processo.

L’analogia aveva funzionato positivamente per non piccola parte del Novecento. Era stato l’imprevisto 1917 che aveva fatto da volano al recupero della fase robespierrista: la Storia della Rivoluzione francese di Albert Mathiez, battistrada del recupero robespierrista, è del 1921-1923 e non si può comprendere senza il 1917-1918. Mathiez, che non fu mai accolto nell’empireo sorboniano, spostava in avanti, allargava il cerchio «positivo» della Rivoluzione, includendovi Robespierre e il Grande Terrore, perché la Rivoluzione era ricominciata vittoriosamente, e con analoghi metodi, a Pietroburgo. Senza tale premessa attuale (e analogica) l’allargamento non si sarebbe prodotto e l’orizzonte sarebbe rimasto quello «dantonista» del 1889, primo centenario della Rivoluzione «santificato» dalla creazione della cattedra sorboniana di Storia della Rivoluzione francese.

La durevole vitalità di quella analogia reciprocamente «salvifica » attraversò bufere, disillusioni, riprese di entusiasmo. E certo il ruolo salvifico dell’Urss nella seconda fase (1941-1945) della Seconda guerra mondiale fu parte essenziale di tale durevolezza, tanto da garantirne la vitalità anche dopo l’esplodere della «Guerra Fredda», che fu anche una sorta di guerra di religione. Significativamente si ancorò con convinzione a quella analogia tra le due rivoluzioni Pietro Nenni nel suo importante discorso alla Camera dei deputati, il 6 marzo 1953, in morte di Stalin. «Quando — disse egli —, trenta anni or sono, Stalin raccolse l’eredità di Lenin, dal cratere della rivoluzione socialista di ottobre la lava colava ancora per mille rivoli e tutti i problemi erano aperti, tutte le possibilità». Nenni proseguiva: «Il figlio del calzolaio di Gori (Stalin) si trovò di fronte al compito tremendo di unificare il corso della rivoluzione sovietica per sottrarla al destino che era toccato alla rivoluzione francese».

Qui c’era tutto: «unificare il corso della rivoluzione» era chiara allusione alla feroce lotta di frazione, allo scontro mortale col trotzkismo. Il paragone era con Robespierre, che alla fine soccombe alle fazioni e viene dichiarato fuori legge dalla Convenzione, e Stalin che «unifica il corso della Rivoluzione» e vince.

È la fine dell’Urss che ha posto le premesse per il capovolgimento del giudizio e per l’attacco frontale, e ormai finale, alla prima rivoluzione, al primo ’89. Se la liquidazione della seconda è stata affidata al Libro nero del comunismo, promosso, non del tutto a caso, in ambito francese da Stéphane Courtois e compagni, la liquidazione della prima ha prodotto emblematicamente un secondo libro nero: Le livre noir de la Révolution française (Éditions du Cerf, 2008).

Simul stabunt, dunque, e simul cadent, e la posta in gioco è il ripensamento radicale di due secoli di storia, ivi compreso l’ingombrante fenomeno del fascismo che non ha mai cessato di essere riproposto sotto luce «nuova» via via che veniva smantellato il «mito» delle due rivoluzioni. Ad entrambe, non va dimenticato, il fascismo si contrapponeva se solo si considera il duro e programmatico rifiuto dei «principi dell’89» in ogni testo teorico, a partire dalla celebre voce Fascismo, opera di Mussolini e Gentile collocata nel XIV volume dell’Enciclopedia italiana.

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