Generalmente un saggio non viene letto o analizzato per il suo stile di scrittura, ma per i contenuti o il punto di vista che propone. E tuttavia un saggio sedimenta attenzione se è scritto in maniera avvincente. Questo di Luciano Gallino – FinanzcapitalismoLa civiltà del denaro in crisi (Einaudi «Passaggi», pp. 324, €19,00) – ha alcuni capitoli che scorrono come un romanzo di Elio Vittorini, mentre altri hanno il ritmo contratto di chi vuole spiegare le cause della crisi economica senza lasciare nessuno spazio a una possibile ambivalenza di ricezione. Nel corso degli ultimi trent’anni, sostiene Gallino, l’egemonia neoliberista ha puntato a costruire un «uomo nuovo», cioè quell’«uomo economico » che definisce il suo stare in società secondo la fredda contabilità dei costi e dei ricavi.
Strumento di tale progetto è stata la finanza, che ormai plasma l’insieme delle relazioni sociali. Il neoliberismo descritto in questo saggio ricorda la figura mitologica del Beemoth, che nella Bibbia si contrappone al Leviatano e che Thomas Hobbes ha usato come metafora di un caos che va ricondotto all’ordine da parte dello Stato. In questi ultimi trent’anni Beemoth si è preso la rivincita sul Leviatano, che negli scritti dei neoliberali non coincide però con lo Stato hobbesiano, bensì con il welfare state. Per Gallino il neoliberismo è un’ideologia totalitaria incardinata sulla figura dell’homo oeconomicus e tuttavia flessibile perché può convinvere sia con regimi politici democratici che con regimi politici autoritari, come la Cina contemporanea, a patto però che non venga mai messa in discussione la religione del libero mercato. Finanzcapitalismo è dunque un testo critico verso le società capitaliste e figurerebbe bene in un’ideale biblioteca del pensiero critico.
Eppure Luciano Gallino non è un teorico radicale. È infatti un esponente di quel filone riformista che in Italia è stato spesso minoritiario nella sua proiezione politica. Nella costellazione teorica cui fa riferimento ci sono Max Weber, John Maynard Keynes, Karl Polany, il Max Horkheimer critico del «marxismo sovietico», ma anche i liberalsocialisti della sua Torino – i fratelli Rosselli, Piero Gobetti e Norberto Bobbio –. Anche la sua riscoperta de L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse non concede nulla al radicalismo politico. Più semplicemente ciò che ha sempre interessato Gallino, anche nella sua critica feroce alla precarietà, è di dare forma teorica al tentativo «riformista» di introdurre elementi correttivi a un capitalismo che, se lasciato a se stesso, distruggerebbe la democrazia politica e sociale. Sono queste le coordinate su cui ha sempre puntato la sua bussola.
C’è infatti un filo rosso che lega la sua iniziale attività di studioso con la sua ultima produzione teorica. Una coerenza che viene tuttavia scambiata per radicalità teorica sia dai totalitari liberisti che dagli orfani del pensiero critico. Sono proprio le pagine che ricostruiscono la genesi e l’affermazione del neoliberismo le più avvincenti. Dalla sconfitta negli anni trenta, quando si imposero le teorie economiche keynesiane, alla riorganizzazione, attraverso think tank e fondazioni lautamente finanziate da imprese e capitalisti, i teorici neoliberali devono aspettare comunque la crisi economica degli anni settanta per uscire dalle aule universitarie e proporsi come consiglieri di aspiranti principi, la cui missione era la distruzione del welfare state, un virus che stava lentamente distruggendo il capitalismo e, negli Stati Uniti, l’american way of life. Il liberismo è così indicato come unica via d’uscita dalla crisi del capitalismo, modificando, a favore delle imprese, i rapporti tra le classi sociali.
L’aspetto più stupefacente di questa egemonia è che i suoi dogmi sono assunti come verità rivelate anche dalla sinistra politica europea. Se altri studiosi – David Harvey, Michael Foucault, ad esempio – hanno indagato la costruzione dell’egenomia culturale del pensiero neoliberale, Gallino mette in rapporto il neoliberalismo e la crescita della finanza, che diventa il motore dello sviluppo economico, determinando però le condizioni di una fragilità estrema del capitalismo. Allo stesso tempo, è un’egemonia culturale che cancella la separazione tra politica ed economia, attraverso le revolving doors, cioè porte girevoli che consentono a politici di professione di diventare manager di imprese e a manager di imprese di intraprendere fortunate carriere politiche. Il conflitto di interessi – chi è a capo o svolge mansioni dirigenziali in un’impresa non potrebbe, in quanto esponente di un governo, prendere decisioni politiche verso settori in cui quell’impresa opera – viene cioè legittimato, portando alla formazione di una piccola ma potentissima élite globale.
Non è dunque un’anomalia solo italiana, ma è caratteristica di tutti i paesi capitalistici. E Gallino è attento a segnalare come in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania e ovviamente Stati Uniti l’osmosi tra economia e politica viene modellata in funzione del credo neoliberista. Storia nota, obietterebbe chi ha studiato il neoliberismo. Ma nel libro di Gallino c’è la sottolineatura che il neoliberismo ha prodotto una «civiltà-mondo» che ha nella finanza un impalpabile e tuttavia efficiente strumento di governo globale. La finanza cioè è l’esempio più tangibile di come funzioni quel «capitale come potere» che ha destato l’attenzione di molti studiosi anglosassoni e tedeschi. La finanza cessa così di essere un elemento parassitario, improduttivo del capitalismo.
Da una parte è espressione del potere del capitale sulla società, dall’altra funziona come strumento di coordinamento e governo delle attività produttive. La finanza cessa cioè di essere un’anomalia per diventare, nella sua logica espansiva, la logica dominante nel capitalismo. Gallino descrive la trasformazione di alcuni prodotti finanziari (i derivati) in un potenziale sistema monetario alternativo a quello «tradizionale»; e desta sgomento leggere del «gioco» che condiziona l’andamento dei prezzi delle materie prime e degli alimenti non solo speculando, ma riorganizzando interi settori produttivi su scala planetaria, in barba al fatto che in questo modo cresce la povertà e va in pezzi il legame sociale. Infine, la finanza è un’ipoteca sul lavoro futuro di uomini e donne.
È cioè uno strumento per appropriarsi, usando un linguaggio marxiano, del plusvalore presente e futuro. I derivati, le cartolarizzazioni cessano così di essere solo strumenti finanziari, ma fattori immanenti di una produzione capitalistica che si basa sul debito. E dove la povertà è sinonimo di lavoro: con buona pace di chi vede in tutto ciò la chiave di accesso alla «società della conoscenza », espressione usata, nella sua versione neoliberista, per dare una connotazione positiva a una realtà sull’orlo di un’apocalisse sociale e culturale. La crisi è quindi condizione permanente del finanzcapitalismo.
La distruzione di ricchezza, la povertà, la crescita di un esercito di lavoratori poveri, il declassamento del ceto medio non sono quindi incidenti di percorso, ma elementi stabili della contemporanea «civiltà- mondo». Difficile però pensare a un ritorno al passato, avverte Gallino. E da riformista di razza come egli è, invita a rallentare la corsa, a intervenire affinché il potere del capitale venga ridimensionato, attraverso una rigida regolamentazione della finanza. Oppure declinare diversamente quella polarità tra riforma e rivoluzione su cui si è da sempre arrovellato il pensiero critico. E pensare la rivoluzione non come un cambiamento di chi esercita la decisione politica, ma come un processo diffuso che fa leva su quanto riesce a costruire e affermare quella moltitudine di uomini e di donne che cessano di essere solo oggetto passivo e che si riappropriano di quanto il finanzcapitalismo ha tolto loro.