Nel suo ultimo lavoro Alessandro dal Lago mette a fuoco il ruolo degli eserciti nella globalizzazione a partire dalla caduta del Muro di Berlino. A differenza del passato gli interventi militari riguardano solo in parte le controversie tra stati. Centrale è la costruzione di un nuovo ordine mondiale, la repressione dei migranti e la prevenzione dei conflitti sociali all'interno delle realtà nazionali
A partire dall'ultimo decennio del secolo scorso si è affermato in Occidente un processo di normalizzazione della guerra. L'industria della morte collettiva si è fatta più che mai fiorente e redditizia. La produzione e il traffico delle armi, inclusi gli ordigni nucleari, sono sottratti a qualsiasi controllo della cosiddetta «comunità internazionale». E l'uso delle armi dipende sempre più dalle decisioni che le grandi potenze occidentali prendono ad libitum, secondo le proprie convenienze strategiche.
In questi anni, sentenze di morte collettiva sono state emesse nella più assoluta impunità contro migliaia di persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale. E nel mercato della morte il valore di scambio della vita umana si è sempre più diversificato: da una parte la vita delle persone ricche e civilizzate, e cioè in massima parte occidentali, e dall'altra parte la vita delle persone povere e non civilizzate, che vivono nel sottosuolo del mondo. La vita dei poveri e dei deboli vale sempre meno. Il loro diritto alla vita è una favola.
Alessandro Dal Lago dedica una sua recente raccolta di saggi - Le nostre guerre (manifestolibri pp. 262, euro 22) - ad una lucida riflessione filosofica e sociologica sulla natura delle nuove guerre e sulla normalizzazione della violenza anche nelle sue modalità più sanguinarie. Con poche eccezioni, sostiene Dal Lago, i sociologi, gli antropologi e i filosofi si disinteressano dei conflitti contemporanei e delle loro nuove modalità. La «guerra» è citata a malapena e ben pochi studiosi ricorrono a un minimo di immaginazione nel collegare i conflitti interni con quelli internazionali. E intanto aumenta la violenza, cresce l'insicurezza e si afferma il terrorismo sia nella forma delle guerre di aggressione occidentali, sia nelle repliche del global terrorism.
Il silenzio delle coscienze
Più in generale non si può negare che in Occidente si sta affermando un processo di «metabolizzazione» e di banalizzazione del fenomeno bellico che non conosce precedenti. La sensibilità nei confronti della tragedie umane e delle irreparabili devastazioni che le guerre comportano è inibita da una diffusa propensione individualistica. Un senso depressivo di insicurezza porta a ignorare tutto ciò che non riguarda l'incolumità individuale, e a pretendere che la propria sicurezza sia rigorosamente garantita dalle istituzioni repressive e penitenziarie. Il pacifismo - a partire da quello di ispirazione cattolica - è cosa di altri tempi.
Ai limitati rischi bellici che corre chi vive in Occidente si accompagna un ottundimento del senso delle sofferenze altrui, del martirio di intere popolazioni e una consapevolezza pressoché nulla nei confronti delle responsabilità politiche delle potenze occidentali che scatenano le guerre. In Italia, ad esempio, tutte le forze politiche presenti in parlamento sono concordi nel sostenere e finanziare la «missione di pace» che gli Stati Uniti e la Nato hanno deciso di condurre in Afghanistan, giustificando con false motivazioni la strage di decine di migliaia di cittadini afghani, in particolare dei membri dell'etnia Pashtun, cinicamente identificati con il movimento Taliban. L'opinione pubblica tace.
Da quando Massimo D'Alema, nel 1999, autorizzò personalmente il bombardamento della ex Jugoslavia - ricorda Dal Lago - i governi italiani non hanno mai parlato di guerra vera e propria, ed hanno del tutto ignorato l'articolo 11 della Costituzione italiana che vieta ogni guerra che non sia difensiva. Lo stato di guerra non è mai stato dichiarato - anche in questo caso in violazione della Costituzione -, né il parlamento è stato chiamato in causa, se non per finanziare le missioni militari all'estero, subdolamente qualificate come missioni di pace, finalizzate alla diffusione della libertà e della democrazia.
In questi anni le stragi hanno colpito quasi esclusivamente civili inermi e indifesi, come è ormai la caratteristica delle «nuove guerre», quelle che Dal Lago chiama «le nostre guerre». Si è trattato di guerre di aggressione «asimmetriche», nelle quali l'uso di armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e potenti ha reso soverchiante il potere distruttivo degli aggressori e sottratto agli aggrediti ogni speranza di salvezza. E molto spesso gli aggressori si sono fatti forti del proprio strapotere economico arruolando truppe mercenarie di contractors, alle dipendenze di grandi corporations globali, talora in numero superiore a quello dei combattenti di ruolo. E si è trattato di guerre «privatizzate» nelle quali non esiste più un «nemico legittimo», definito come tale dalle norme del diritto internazionale, come un tempo accadeva.
La logica delle guerre di aggressione contemporanee è la stessa di qualsiasi «guerra civile», nella quale si lotta fino all'estremo e non si fanno prigionieri. Per di più, si tratta di guerre che non hanno la finalità di una conquista territoriale: si combatte su scala globale coinvolgendo potenzialmente il mondo intero. La finalità è un obiettivo strategico di dimensioni planetarie che coincide con la volontà egemonica degli Stati Uniti e che si esprime attraverso la costante minaccia dell'uso della forza.
La volontà egemonica degli Stati Uniti e dei loro alleati occidentali ha comportato la devastazione terroristica della vita, dei beni e dell'ambiente di interi paesi, mentre gli aggressori hanno subito un numero molto limitato di vittime, a volte addirittura nessuna. Questo è accaduto nell'arco di un ventennio in paesi come l'Iraq (1991), la ex Jugoslavia, l'Afghanistan, di nuovo l'Iraq (2003), il Libano, i territori palestinesi, per citare gli eventi bellici più rilevanti. In queste guerre, condotte in nome di valori universali, nessuna limitazione «umanitaria» degli strumenti bellici è stata praticata. Anzi, è vero il contrario: gli interventi «umanitari» sono serviti, soprattutto agli Stati Uniti e a Israele, per sperimentare nuovi sistemi d'arma, sempre più sofisticati e devastanti.
L'impero contro gli infedeli
Si può qui aggiungere, a commento conclusivo del testo di Dal Lago, che in tutti questi casi il terrorismo degli aggressori si è autogiustificato - ed è stato giustificato - in nome della pace globale, della lotta al global terrorism e soprattutto della tutela dei diritti umani. La guerra è stata esaltata come l'impresa di benefattori umanitari impegnati a proteggere e promuovere i diritti fondamentali delle persone in tutti gli angoli della terra. In realtà, la difesa dei diritti umani è stata mistificata e tradita dalla violenza omicida. E agli aggressori è stata riservata l'assoluta impunità. Questo vale anche per le aggressioni, le stragi, gli «omicidi mirati» compiuti dallo Stato di Israele contro il popolo palestinese, in particolare contro la popolazione di Gaza e il movimento Hamas, accusati di essere la culla del terrorismo globale.
In questi ultimi anni, in altre parole, si è sviluppato un processo di transizione dalla «guerra moderna» alla «guerra globale», con al centro il recupero da parte delle potenze occidentali della nozione di «guerra preventiva», concepita e praticata dagli Stati Uniti contro i cosiddetti rogue states e le organizzazioni, vere o presunte, del terrorismo globale. Questa transizione non riguarda soltanto la morfologia delle «nuove guerre», e cioè la loro dimensione strategica e la loro potenzialità distruttiva. Strettamente connessa è una vera e propria eversione del diritto internazionale vigente, dovuta all'incompatibilità della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale con la «guerra preventiva». E a questo si aggiunge la regressione alle retoriche antiche di giustificazione della guerra, inclusi importanti elementi della dottrina «imperiale» del bellum justum e del suo nocciolo teologico-sacrificale di ascendenza biblica: la «guerra santa» contro i barbari e gli infedeli. Queste retoriche sono diventate oggi, nel contesto della globalizzazione dei mezzi di comunicazione di massa, uno strumento bellico di eccezionale rilievo.
Ha fatto dunque molto bene Alessandro Dal Lago a richiamare l'attenzione e a denunciare la responsabilità dei filosofi e dei sociologi - oltre che, aggiungerei, dei giuristi accademici «al di sopra delle parti» - che dall'alto delle loro cattedre minimizzano la tragedia delle nuove guerre e talora la giustificano. Dulce bellum inexpertis, sosteneva Erasmo da Rotterdam.