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Amartya Sen
Perché bisogna combattere gli stereotipi su Adam Smith
27 Maggio 2010
Scritti 2010
Ancora una lezione dell’economista indiano, dal testo che leggerà al Festival delle letterature di Roma. La Repubblica, 27 maggio 2010.

Al momento della sua morte, avvenuta nel luglio del 1790 a Edimburgo, Adam Smith era più celebre e apprezzato in Francia che in Inghilterra. I rivoluzionari d´Oltremanica, per esempio il Marchese di Condorcet, si richiamavano con frequenza alle idee di Smith, e quella del filosofo ed economista scozzese era una presenza molto solida nei circoli intellettuali francesi. Naturalmente le opere di Smith erano molto lette anche in Inghilterra, e la prima di esse in ordine di tempo, la Teoria dei sentimenti morali (1759), non faceva eccezione, se all´indomani della sua pubblicazione Hume scriveva a Smith da Londra: «Il pubblico pare ansioso di tributare [al Vostro libro] enorme plauso». Tuttavia se sulle posizioni di Smith gli ammiratori francesi delle sue idee radicali avevano già maturato quella che potremmo definire una visione equilibrata (lo consideravano, appunto, un pensatore radicale), in Inghilterra l´immagine, oggi familiare, di uno Smith profondamente conservatore, intemerato araldo delle virtù del mercato (nel suo secondo libro, La ricchezza delle nazioni), era ancora in via di formazione. Tale immagine avrebbe preso quota, fino a diventare l´icona di Smith, solo nei decenni successivi alla scomparsa del filosofo.

Ancora nel 1787, tre soli anni prima della morte di Adam Smith, Jeremy Bentham stigmatizzava l´incapacità smithiana di mettere a fuoco tutte le virtù della libera economia e scriveva al filosofo scozzese una lunga lettera per rimproverargli l´irragionevole avversione al mercato. Invece di rinfacciare al mercato (proponendo di interferirvi) l´incapacità di tenere sotto controllo quelli che definiva "sperperatori e speculatori", Smith avrebbe dovuto lasciarlo operare in autonomia, abbandonando l´idea di una regolamentazione delle transazioni finanziarie da parte dello stato. Benché così argomentando Bentham mostri di non essere probabilmente riuscito a cogliere la forza del pensiero di Smith in materia (io sono convinto che non la colse), la sua valutazione dello scetticismo di Smith riguardo al mercato non è del tutto peregrina.

Comunque sia, di lì a poco Smith si sarebbe guadagnato l´immagine, che ancora oggi ne costituisce lo stereotipo, del banditore politico di elementari formulette, per lo più in lode del libero mercato; nulla a che vedere con quello che è uno dei più raffinati creatori di teorie sociali ed economiche mai esistiti, un sofisticato pensatore che guarda ai mercati con circostanziato scetticismo e al tempo stesso insiste perché, oltre ai problemi da superare, vengano riconosciuti anche i buoni esiti cui i mercati – e solo i mercati – consentono di approdare.

Ciò che Bentham non era riuscito a compiere per via argomentativa – trasformare senz´altro Adam Smith in un campione del puro capitalismo di mercato – fu realizzato nel XIX secolo attraverso un´errata analisi dell´opera smithiana e un corpus di citazioni estremamente parziale, insensibile a molti altri passi degli scritti di Smith. Questa immagine distorta di Adam Smith, fonte di tanti usi indebiti delle idee smithiane, si sarebbe consolidata nel secolo successivo alla morte del filosofo, per diventare poi canonica nel Novecento. Essa rimane tuttora il modo consueto di inquadrare Smith sia nelle opere dei principali economisti che nelle pagine dei giornali (malgrado le proteste di alcuni importanti specialisti).

Le tre lezioni che i propugnatori del capitalismo di mercato e del profitto traggono dalla lettura di Smith sono: 1) l´autosufficienza e la natura autoregolativa dell´economia di mercato; 2) l´idea che il profitto sia un movente adeguato per una condotta razionale; 3) l´idea che l´amor di sé sia sufficiente a determinare un comportamento socialmente produttivo. Tali tesi non solo non appartengono a Smith, ma sono marcatamente in contrasto con il suo pensiero.

In primo luogo, se è vero che Smith considera i mercati istituzioni di grande utilità, è anche vero che egli insiste con forza sulla necessità di integrarli con altre istituzioni, in particolare con istituzioni statali: il punto di disaccordo con Jeremy Bentham era senza dubbio questo. In secondo luogo, Smith sostiene la necessità di porre alla base di un comportamento razionale motivi che vadano al di là del profitto e del tornaconto personale. Con grande finezza Smith identifica varie ragioni per cui gli individui possono provare interesse per la vita degli altri, distinguendo tra simpatia, generosità, senso civico e altre motivazioni.

In terzo luogo, lungi dall´attribuire al perseguimento dell´amor di sé la capacità di dare vita a una buona società, Smith sottolinea la necessità di guardare ad altri moventi, e non solo per la realizzazione di una società decorosa, ma anche per quella di un´economia di mercato florida. Si spinge persino ad affermare che se «la prudenza» è «tra tutte le virtù quella maggiormente utile all´individuo», «l´umanità, la giustizia, la generosità e il senso civico sono le qualità più utili agli altri».

L´interpretazione standard del pensiero smithiano promossa dalla maggior parte degli economisti, e in tal modo filtrata nella cosiddetta «politica della scelta razionale» e nella corrente dominante dell´«analisi economica del diritto», è completamente fuori strada.

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