SVIMEZ
Quel Mezzogiorno in caduta libera
di Francesco Piccioni
La crisi colpisce il paese in modo diseguale. Cresce la differenza tra sud e centro-nord quanto a occupati, produzione, servizi, speranze di vita, infrastrutture, produttività. Riprende forza l'emigrazione interna per motivi economici. Lo Svimez vede una sola possibile via d'uscita: fare del meridione la frontiera dei rapporti col Mediterraneo»
Se in Italia piove, al Sud grandina. Il Rapporto Svimez 2010 non lascia margini alla retorica del «paese che sta meglio degli altri»: non c'è un solo settore economico che non presenti stabilmente un segno meno davanti a un numero invariabilmente più alto di quelli registrati nel centro-nord o negli altri paesi europei. Nemmeno il turismo - che pure potrebbe giovarsi di condizioni climatiche tali da poter programmare una «stagione di 12 mesi» - riesce a migliorare la media: su 100 visitatori solo 10 vanno nel Mezzogiorno (sono 40, ad esempio, per la Spagna meridionale).
Dovunque si guardi il problema è lo stesso: carenze infrastrutturali che derivano da un'antica e ora aggravata assenza di progetto politico-economico, appesantite da una presa della criminalità organizzata capace di «bruciare» in partenza qualsiasi ipotesi di modernizzazione.
Su questo mondo la crisi economica globale - che sta per «festeggiare» il terzo anno di vita - si è abbattuto distruggendo quel poco di industrializzazione costruita con molti fondi pubblici e tanta furbizia privata. Il manifatturiero ha perso qui in un solo anno il 16,6% di valore aggiunto, con devastazioni irrecuperabili in settori come l'esportazione di metalli, il chimico-farmaceutico, i mezzi di trasporto. E dal 2012 non ci sarà più nemmeno lo stabilimento Fiat di Termini Imerese, con il relativo indotto... Anche nell'edilizia o nel terziario la caduta del Sud è andata a velocità doppia rispetto alla contemporanea crisi del centronord. Trascinando in basso una «produttività» già ampiamente deficitaria (il gap con la parte «evoluta» del paese si attesta ormai intorno al 25%).
Del resto il governo in carica ha di fatto azzerato le «politiche di riequilibrio», già prima molto inferiori a quelle di altri paesi (Germania, Francia, Spagna). Il colpo finale è arrivato dallo storno verso altri obiettivi dei Fondi per le aree sottoutilizzate (Fas), per un totale di 26 miliardi in pochi anni. Vero è che il tasso di utilizzazione di questi fondi da parte degli enti locali era in alcuni casi vergognosamente basso; ma non averli più a disposizione mette a rischio il raggiungimento di molti degli obiettivi indicati nel «Quadro strategico nazionale». La forzatura del «federalismo demaniale» si va oltretutto a sommare a «liberalizzazioni e privatizzazioni» che hanno aggravato il divario Nord-Sud (il contrario di quanto promesso); è infatti molto probabile che gli enti territoriali più deboli economicamente siano spinti ad «adottare comportamenti opportunistici»: ovvero «mettere a valore» quei beni più facilmente collocabili sul mercato.
Lo scenario che emerge dall'analisi dello Svimez è quella di un avvitamento senza quasi più speranze. Le spese per investimenti infrastrutturali sono scese in soli tre anni di quasi il 9% in una parte del paese che presenta una rete autostradale e ferroviaria di fatto preistorica (il 51% delle tratte non è nemmeno elettrificato).
Bassa qualità dei servizi pubblici meridionali, restrizioni nel credito a imprese e cittadini, ecc, sono ormai dei luoghi comuni. Per gli analisti dello Svimez l'unica soluzione è rappresentata da «un profondo processo di ristrutturazione dell'apparato produttivo meridionale» nell'ambito di uno sforzo progettuale per fare del Sud «una frontiera del paese verso il Mediterraneo». Uno spostamento del baricentro, insomma, che invece di continuare a vedere il Sud come la parte lontana e arretrata di un paese ormai saldamente «sbilanciato» a settentrione, fa di questo territorio un possibile «ponte» verso Africa e Medio Oriente. Significa un sistema integrato di porti e reti di trasporto efficienti, non la diffusione puntiforme e fatiscente di oggi.
A pagare il prezzo sono le popolazioni, naturalmente, a partire dai giovani - con tassi di disoccupazione record - ormai protagonisti di un costante flusso migratorio senza ritorno, come anche del fenomeno del «pendolarismo su grandi distanze». Un divario che si misura anche nei livelli di povertà (il 14% delle famiglie può contare su meno di 1.000 euro al mese), con forti difficoltà a far fronte al pagamento delle bollette, le spese mediche oppure quelle «impreviste». Del resto, il 47% delle famiglie qui è monoreddito. E anche se uno il lavoro ce l'ha, la «protezione» della cassa integrazione vale solo per il 25% dei lavoratori (il 50%, nel centronord). Un indicatore aiuta a capire le conseguenze. Anche la «speranza di vita», al Sud, è più bassa: un anno in meno, sia per le donne che per gli uomini.
L'ANALISI
Il «teorema Sud» che fa comodo al Nord
di Domenico Cersosimo
Il Sud indietreggia. I dati Svimez sono impietosi, come sempre. Il prodotto interno lordo tracolla del 4,5 per cento nel 2009, ritornando al valore di 10 anni fa. L'industria perde oltre 60 mila lavoratori, che si aggiungono ai 40 mila già persi l'anno prima. Gli occupati tra 15 e 34 anni si sono ridotti di 175 mila. Un meridionale su tre è a rischio povertà e il 14 per cento delle famiglie vive con meno di 1.000 euro al mese. Più di 120 mila i meridionali emigrati. Il Rapporto Svimez snocciola raffiche di dati negativi. Il Sud sembra ormai devitalizzato, sfibrato.
La crisi economica assume ora le sembianze della crisi sociale. Il Sud ha sofferto meno nella fase finanziaria e industriale della crisi. Perché meno esposto alle intemperie bancarie; perché meno dotato di imprese aperte alla concorrenza internazionale. Oggi soffre di più. La stagnazione della domanda interna penalizza soprattutto il Mezzogiorno e ancora peggio sarà nei prossimi mesi per effetto della manovra correttiva in approvazione alla Camera. I tagli drastici e indiscriminati ai pubblici dipendenti, alle regioni e agli enti locali faranno sentire il loro peso soprattutto al Sud. Salari e stipendi bloccati e meno servizi pubblici locali deprimeranno ulteriormente l'economia meridionale e il benessere collettivo.
Dopodomani il Sud ritornerà ad essere una reliquia. Da anni non è più nell'agenda del governo e della politica, anche di opposizione. Balbettii e indignazione a ricorrenze sempre più rarefatte e poi nulla, silenzio. Non c'è interesse per il Mezzogiorno. Semplicemente non c'è un blocco sociale interessato al cambiamento del Sud. Al contrario, prevale da diversi anni un blocco di forze, semmai inerziale e inintenzionale, favorevole allo status quo. Il Sud come disastro nazionale è funzionale alla Lega e al Nord: è colpa dei meridionali se le cose non vanno bene nel nostro paese, anche dei malfunzionamenti nella pianura Padana. Nel frattempo, il Nord continua anno dopo anno ad assorbire migliaia di laureati formatisi nelle università meridionali. Il Sud arretrato va benissimo per perpetuare i privilegi di molte classi dirigenti meridionali che si nutrono di rendita e di pessima amministrazione. Meno trasferimenti al Sud (e più al Nord), l'importante è che siano trasferimenti tradizionali, è la strategia, perseguita dal governo, che accontenta i primi e i secondi. Troppo flebili e disperse le voci di imprenditori, intellettuali, tecnici e ceti dirigenti interessati all'innovazione.
Sud è diventata oggi una parola impronunciabile, totem della quintessenza dei mali italiani: strato cronicizzato di mafie, corruzione, familismo, illegalità, sprechi. Un aggregato geografico ed umano a sé, refrattario al civismo e allo sviluppo; un pezzo d'Italia che dilapida imponenti risorse pubbliche prodotte al Nord. Questo «teorema Mezzogiorno», come lo chiama efficacemente Gianfranco Viesti, seppure ha conquistato buona parte delle élite dirigenti nazionali e degli italiani, anche del Sud, è palesemente falso, basato cioè su affermazioni senza fatti, prive di evidenze empiriche. È un racconto che giustifica il saccheggio sistematico da parte del governo di risorse finanziarie destinate al Sud e la secessione culturale strisciante.
Ovviamente il Sud non è il migliore dei mondi possibili: la sanità, la giustizia civile, i trasporti, la scuola funzionano peggio che al Nord. Il Sud però non è un'area altra, deviata, polarmente contrapposta al Nord. Il Sud non è «il» problema dell'Italia contemporanea. Il problema è l'assenza di politica, di immaginazione, di fiducia in un paese diverso, più unito e coeso.
Oggi il problema del Sud non è più di natura strettamente economica. Incentivi, sussidi, salari polacchi, crediti d'imposta o altre «fiscalità di vantaggio» finiscono fatalmente per attrarre il capitale peggiore, d'impresa e umano. Il Sud è un problema di deficit istituzionale, di debolezza estrema dello Stato nel garantire standard adeguati di servizi essenziali a tutti i cittadini che vivono nel Mezzogiorno. Come ripete Fabrizio Barca, è un problema di deficit di classi dirigenti meridionali adeguati al cambiamento istituzionale e di cittadini che domandano cambiamento.
Se è così non bisognerebbe allarmarsi tanto per la bassa crescita del prodotto interno lordo per abitante. Così come non è un'esclusiva del Sud l'incremento della disoccupazione, l'aumento dei lavoratori in cassa integrazione o i tempi infiniti per la realizzazione di un'opera pubblica. Certo, al Sud è quasi sempre un po' peggio che al Nord, ma è l'Italia tutta ad arrancare da tempo. La qualità della vita dei meridionali oggi non dipende soltanto dal divario economico, molto di più conta il divario civile in termini di sicurezza, di qualità scolastica, di funzionamento dei tribunali, di certezza delle regole, di disponibilità di acqua e di asili nido, di frequenza e comfort dei treni. Un divario civile ben più ampio e insostenibile di quello economico. È la penuria e la bassa qualità di servizi pubblici essenziali la causa prima del sottosviluppo.
Per questo non serve una politica straordinaria. C'è bisogno di molto di più: di una politica nazionale ordinaria rivolta a garantire equità d'accesso ai servizi di base ai meridionali. Le risorse aggiuntive comunitarie sono importanti, sempreché siano addizionali e non sostitutive come avviene nel nostro paese negli ultimi anni, ma non possono sostituirsi a quelle nazionali. Due ore di matematica in più pomeridiane fanno bene soprattutto se nelle ore scolastiche ordinarie si insegna buona matematica.
Il federalismo all'italiana rischia di peggiorare la situazione. L'autonomia senza perequazione comporterebbe un'inevitabile crescita del divario civile: solo le regioni più dotate, del Nord e del Centro, avrebbero la possibilità di finanziare da sé i servizi. Ma il federalismo potrebbe anche ridurre il divario civile. Ad esempio, se le politiche ordinarie e le politiche regionali fossero orientate a conseguire congiuntamente livelli essenziali di prestazioni pubbliche per i cittadini del Sud comparabili con quelli del Nord per costi e qualità. Ma ci vorrebbe un altro blocco sociale, ceti interessati ad un'altra Italia e politici in grado di intercettarli e assecondarli.