Il famoso saggio sulla «Tragedia dei comuni» scritto dal biologo Garret Harding negli anni Sessanta è stato l'ultimo tentativo di legittimare l'individuo proprietario, figura che ha profonde radici nella cultura giuridica. Il nodo vero da sciogliere è il potere e lo statuto politico del «comune»
Ogni volta che viene avviata una la riflessione sull'attuale statuto giuridico dei beni comuni bisogna sempre fare un'incursione nel passato. Il punto fondamentale da mettere in rilievo è che in Occidente fin dalle sue origini la dimensione giuridica si è conquistata un ruolo fondamentale articolandosi intorno all'«individuo-proprietario», dominus di un dato territorio. In effetti, alle radici del diritto romano si trovano le esigenze contingenti di una società clanica patriarcale nella quale i pater familias insieme al loro gruppo controllavano spazi territoriali definiti su cui esercitare sovranità. I clan (gentes) erano fra loro formalmente uguali, come fossero «micro stati» di un ordine internazionale di stati sovrani.
La legge dei patrizi
Il diritto e le istituzioni romane nascono dunque intorno al 500 avanti cristo per progressive cessioni di sovranità fra clan uguali stanziati su territori limitrofi, rappresentati dai pater familias, proprietari fondiari che col tempo si raccolsero politicamente nel Senato. I conflitti privati fra pater familias sul dominium (proprietà privata) e sui suoi limiti e confini crearono la necessità di istituzioni volte alla loro risoluzione. Tali istituzioni giuridiche si svilupparono ed autonomizzarono gradualmente da quelle politiche specie nel cosiddetto periodo classico fra il primo secolo avanti cristo e il primo dopo cristo. Esse sostanzialmente consistettero in meccanismi di nomina, ad opera del pretore (un politico) di un patrizio (un pari dei patres coinvolti nel conflitto) come iudex al fine di affidargli la soluzione della controversia. Il iudex era scelto in quanto pari dei litiganti e non era dotato perciò di alcunché di paragonabile ad una «cultura giuridica». Oggi diremmo che era un laico.
Man mano che la società divenne più complessa, fu sempre più necessario coinvolgere «professionisti» privati, dotati di conoscenza del diritto, (i giuristi). Costoro nel lavorio dei loro circoli e delle loro scuole avevano sviluppato e conservavano in buon ordine un armamentario tecnico fatto di formulae capaci di ridurre la complessità di ogni singolo conflitto in un'alternativa secca, risolvibile in termini di ragione o di torto. Chi ha diritto e chi torto nel complicato conflitto fra Aulo Agerio (colui che agisce in giudizio) e Numerio Negidio (colui che nega di dovere del denaro)? Il conflitto fra soggetti proprietari andava distillato in un'alternativa semplice e chiara anche per un non giurista da sottopore allo iudex del caso di specie ma anche riproducibile in successivi eventuali casi simili. In questo modo il diritto occidentale nasce come un gioco a somma zero (che scarta i dati fattuali ritenuti irriproducibli e quindi irrilevanti) in cui la ragione di un proprietario si estende soltanto fino a quella dell'altro suo antagonista che ne nega il potere. Infatti, chi supera le proprie ragioni, oltrepassando i confini del suo diritto si mette dalla parte del torto che è l'opposto del diritto (in italiano la «diritta» via si contrappone a quella «storta»).
I feudatari di Guglielmo
In questo originario quadro istituzionale e (successivamente) concettuale si sviluppa il diritto occidentale. Alle sue radici c'è una concezione che si radica nelle necessità dell'individuo (proprietario) collocato in relazione conflittuale (a somma zero) con una controparte processuale. La compilazione del Corpus iuris civilis di Giustiniano (476 dopo Cristo) collocata all'epilogo di una vicenda giuridica durata mille anni, consegna all'Occidente i suoi testi giuridici fondamentali. Oltre ad un libro introduttivo noto come Istituzioni ed una raccolta di leggi e decreti di natura politica ( Codex e novelleae), Giustiniano racoglie ed offre ai posteri un insieme selezionato di opinioni di giuristi (principalmente Paolo, Ulpiano e Modestino) volte a dirimere conflitti reali, formulandoli in termini di ragione o di torto (cinquanta libri di pandettae o digesto). Sulla base della compilazione giustinianea si svilupperà a partire dall'XI secolo tutta la «sapienza civile» formalizzata e tramandata fino a noi dalle facoltà di giurisprudenza continentali .
Un modello molto simile, fondato (sebbene meno pervasivamente) sugli stessi materiali di provenienza romana viene formalizzato e conservato fino ai nostri giorni dalla giurisprudenza delle Corti superiori della tradizione anglo-americana. Le Corti di common law, centralizzate in Inghilterra a partire dal XII secolo, si svilupparono a loro volta per dirimere i conflitti fra i grandi proprietari fondiari (Baroni), beneficiati da Guglielmo il Conquistatore di diritti dominicali di natura feudale. Anche qui i giuristi professionisti svolsero un ruolo molto simile a quello dei loro antenati romani nel preparare l'alternativa secca che ancor oggi viene sottoposta alle giurie popolari laiche (l'equivalente contemporaneo del iudex).
In questo quadro teorico ed istituzionale il posto occupato dai beni comuni è del tutto marginale. Infatti, ciò che non è in proprietà privata può appartenere alla res publica (lo Stato, grande assente dell'esperienza medievale continentale) o può essere res nullius (cosa di nessuno) in quanto tale appropriabile liberamente. In conceto di res communis omnium, né privata né statale pur non assente, risulta largamente sottoteorizzata nella tradizione occidentale molto probabilmente perché da sempre l'occupazione del comune ad opera del più forte è uno dei più diffusi strumenti di accrescimento della proprietà privata. Ne segue che la sottoteorizzazione della differenza fra quanto appartiene direttamente a tutti (senza la mediazione dello Stato) e quanto non appartiene a nessuno è funzionale alle esigenze della classe proprietaria (comunque «padrona del diritto») interessata ad ampliare le proprie possibilià di occupazione confondendo i due concetti.
Questo è vero anche oggi perché l'ideologia dominante è prodotta nell'interesse esclusivo delle classi proprietarie (si pensi al successo arriso al saggio scritto dal biologo Garret Harding nel 1968 e significativamente pubblicato dalla rivista Science con il titolo la «Tragedia dei comuni» che si fonda sull'assunto palesemente ideologico che i commons siano liberamente appropriabili). Infatti nell'esperienza contemporanea i dipartimenti di economia delle università americane svolgono la stessa funzione di «apparati ideologici» al servizio delle classi abbienti tradizionalmente propria dei giuristi. In cambio della costruzione di ideologia giuristi ed economisti traggono potere, prestigio professionale e denaro.
Tuttavia esistono pure ragioni più profonde legate alla struttura stessa del diritto come sopra descritta che spiegano la marginalità del comune rispetto all'accoppiata proprietà privata/Stato nell'immaginario giuridico occidentale. Il comune in quanto potere diffuso (o non potere) risulta strutturalmente incompatibile con il processo. Infatti, dato il descritto assetto istituzionale volto primariamente alla soluzione di conflitti fra privati proprietari, ben difficilmente in pratica il comune sarà in grado di trovare qualcuno che lo rappresenti in giudizio (convenendo quanti cercano di appropriarsene). Da un lato infatti il comune era normalmente fruito da non proprietari, di regola contadini poveri in quanto tali non dotati di mezzi sufficienti per avere accesso alle corti. Basti pensare alla facilità con cui essi furono vittimizzati dalle enclosures volute nell'Inghilterra delle prime manifatture dall'alleanza proprietà privata-Stato.
Arrivano le class action
D'altra parte, la struttura del processo avversariale come gioco a sommazero richiede un interesse ad agire specifico riferibille ad un dato individuo. I beni comuni, caratterizzati da fruibilità diffusa, appartenendo a tutti non consentono di individuare nessuno che sia dotato di un interesse speciale rispetto ad essi tale da legittimarne la rappresentanza in corte. In altri termini, in un processo visto come gioco a somma zero fra un vincitore e uno sconfitto non c'è posto (salvi speciali accorgimenti tecnico-processuali tipo class actions sviluppatisi in via eccezionale solo molto di recente) per un'azione legale i cui benefici siano diffusi in modo potenzialmente illimitato. è il problema noto nel diritto americano come standing to sue (letteralmente: alzarsi in piedi per fare causa): chi fra l'altissimo numero di beneficiari dell'acqua potabile (o dell'aria pulita) può differenziare a sufficienza il suo interesse rispetto a quelllo di tutti gli altri in modo da ergersi a suo paladino esercitando i poteri processuali che derivanoi dalla lite? Si tratta di un problema di grande impatto pratico perché le Corti sono riluttanti ad ammettere tutto ciò che si discosta dall'archetipo del gioco a somma zero e che i vari diritti risolvono (quando risolvono) in modo ecezionale.
Insomma sembra proprio di poter dire che i beni comuni scontano una forma di incompatibilità archeologica e strutturale con gli aspetti più profondi della giuridicità all' occidentale, fondata sull' abbinata universalizzante ed esaustiva proprietà privata/Stato e, più di recente, sulla retorica dei diritti individuali. Tutto ciò evidentemente chiama il giurista ad un compito tanto difficile quanto entusiasmante ed urgente: costruire le basi nuove di una giuridicità che ponga al centro il comune per contribuire alla costruzione di un'autentica sostenibilità di lungo periodo sottratta agli appetiti predatori della proprietà privata e dello Stato.