Jürgen Habermas ha parlato alto e chiaro sulla situazione europea e le decisioni che essa esige nell'articolo scritto assieme all'economista Peter Bofinger - membro del Consiglio tedesco dei saggi - e all'ex ministro bavarese Julian Nida-Ruemielin, uscito sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung il 3 agosto scorso (in italiano su Repubblica del 4 agosto) con il titolo «Rifiutiamo una democrazia di facciata», nel quale prende di mira le allusioni di alcuni membri del governo sulla elezione a suffragio universale di un presidente dell'Europa per legittimare il patto di bilancio europeo.
Nell'essenziale la tesi di Habermas è che la crisi non ha nulla a che vedere con le «colpe» degli Stati spendaccioni che gli stati «economi» stenterebbero a risanare (in tedesco «Schuld» significa sia «debito» sia «colpa»). Ha invece tutto a che vedere con l'incapacità degli Stati, messi in concorrenza dagli speculatori, di neutralizzare il gioco dei mercati e a premere per una regolamentazione mondiale della finanza. Per cui non si uscirà dalla crisi se l'Europa non si decide a «varcare il passo» verso l'integrazione politica che permetterebbe insieme di difenderne la moneta e affrontare le politiche di riduzione delle inuguaglianze al proprio interno che è la sua ragione di esistere. Terreno naturale di questa trasformazione è il «nocciolo europeo» (Kerneuropa), cioè l'eurozona più gli Stati che dovrebbero entrarvi (in particolare la Polonia). Ma la condizione sine qua non è una democratizzazione autentica delle istituzioni comunitarie, che Habermas intende essenzialmente come formazione d'una rappresentanza parlamentare dei popoli finalmente effettiva (attraverso un sistema a due livelli che egli distingue dal «federalismo» di tipo tedesco), dotata di poteri di controllo politico a livello continentale, in particolare sulla dimensione e l'utilizzazione delle imposte che sosterrebbero la moneta comune, secondo il principio degli insorti americani: «No taxation without representation!»
Bisogna felicitarsi di questo intervento e non lasciarlo isolato. Esso viene dopo una serie di coraggiose prese di posizione con le quali Habermas ha attaccato «il nuovo nazionalismo della politica tedesca e i pregiudizi unilaterali» che esso copre. E comporta un notevole sforzo per tenere assieme il piano politico, quello economico e quello sociale, come a prefigurare il contributo che l'Europa potrebbe portare a una strategia di uscita dalla crisi su scala mondiale, basata sugli imperativi d'una protezione dei diritti sociali (che non significa la loro immutabilità) e d'una regolazione dei meccanismi di credito che proliferano «sopra la testa» dell'economia reale. Per ultimo, Habermas afferma senza ambiguità che un'Europa politicamente unificata (la si chiami o no «federale») non è possibile che a condizione d'una democrazia sostanziale che investa la natura stessa dei suoi poteri e della loro rappresentatività, dunque legittimità. Da parte mia, da tempo sostengo una tesi più radicale (qualcuno dirà più vaga): una Europa politica, senza la quale non c'è che declino e impotenza per le popolazioni del continente, non sarà legittima, e quindi possibile, se non sarà più democratica delle nazioni che la compongono, se non farà un passo avanti rispetto alle loro conquiste storiche in tema di democrazia.
Un New Deal europeo
Il ragionamento del filosofo di Francoforte comporta tuttavia, ai miei occhi, due punti deboli fra loro connessi. Il primo è che non tiene in conto il tempo passato, e dunque la congiuntura: come se la crisi non si dispiegasse da anni; come se si potessero riportare indietro gli effetti che ha prodotto e realizzare ora quel che sarebbe stato necessario fare per evitarla, essenzialmente al momento di mettere in atto il sistema monetario europeo. Non credo che sia così. Converrebbe almeno sviluppare l'indicazione di Habermas relativa alla accettazione dell'imposta e il controllo del suo uso. Non ci sarà uscita dalla crisi, né in Europa né altrove, senza una «rivoluzione fiscale» che implica non solo imporre tasse su scale continentale e vegliare sulla loro giusta ripartizione, ma di utilizzarle in un'ottica diretta alla crescita dell'occupazione che la crisi ha devastato, alla riconversione delle attività produttive e alla riorganizzazione del territorio europeo. Qualcosa come un New Deal o un piano Marshall intereuropeo. Cosa che implica il ritorno a una politica monetaria equilibrata fondata sul circuito di scala non meno che su quello bancario (che è, vedi caso, quello che alimenta la speculazione).
Il secondo punto debole dell'argomentazione di Habermas è che si attiene a una concezione esageratamente formale della democrazia - sempre meno soddisfacente in una fase in cui sono in atto potenti processi di «sdemocratizzazione» nella nostre società, che derivano anche dalla crisi, ragioni di opportunità ed efficacia a favore di una «governance» dall'alto. Non si tratta soltanto di correggerli, occorre contrastarli e opporre loro delle innovazioni democratiche «materiali». Non mi si fraintenda: non ricuso affatto il bisogno di rappresentanza. Al contrario, la storia del 20mo secolo ne ha dimostrato assieme la necessità e i margini di fluttuazione, fra la semplice delega di potere e il controllo effettivo. Bisogna approfondire questo dibattito su scala europea. Ma anche introdurre altre modalità di democrazia, o meglio di democratizzazione dell'istituzione politica. È la chiave per risolvere la famosa aporia del «demos europeo». Il demos non preesiste come condizione della democrazia, ne deriva come un effetto. Ma neanch'essa esiste se non nel corso e nelle forme delle diverse pratiche di democratizzazione. Come democrazia rappresentativa, certo, ma anche come democrazia partecipativa, il cui orizzonte è il comunismo autogestito («la costruzione dei comuni», direbbe Negri), e come democrazia conflittuale («contro-democrazia», direbbe Rosanvallon), che vive di rivendicazioni e proteste, di resistenze e di indignazioni.
Unità del molteplice
Sono modalità in equilibrio instabile - è vero - che ci allontana da un costituzionalismo «normativo». Non potrebbero esser messe in atto da decisioni prescrittive, quale che ne sia il modo di legittimazione (come altri, Habermas evoca con insistenza la possibilità del referendum sul futuro dell'euro e dell'Europa). Può perfino sembrare che andando oltre la possibilità di una gestione da parte dei governi, dando vita alle virtualità dell'autonomia o del dissenso, esse vadano incontro all'obiettivo di una «rifondazione» dell'Unione europea: come fare unità con la molteplicità e la contraddizione, stabilità con l'incertezza, legittimità con la contestazione? Ma inversamente, si può chiedere a Habermas, come immettere democrazia nella costruzione europea senza un «salto» o un «passo di lato» rispetto alle strutture e procedure che sono state concepite per escluderla, neutralizzarla, e che i metodi di gestione della crisi, essenzialmente destinati a evitare l'intervento dei cittadini, hanno sistematicamente bloccato? Bisognerà pure che, su questo e altri punti («l'Europa sociale») si faccia avanti qualcosa come un'opposizione o un movimento.
Non lasciamo passare l'occasione che Habermas e suoi colleghi ci offrono di un dibattito sull'Europa per gli europei e fatto dagli europei. Esso si delinea in forme diverse dovunque è imposto dalla gravità della crisi: in Grecia, in Spagna, pochissimo in Francia malgrado l'allarme che dovrebbe provocare la valanga (di chiusure industriali e di polemiche) del rientro dall'estate, che sembra un remake delle campagne del 1992 e del 2005, con la sola differenza che non è previsto nessun referendum. Nulla che esca dalle frontiere nazionali. Nulla, quindi, che spinga la politica al livello che esigerebbero sia le urgenze sia i principi.
(Pubblicato sul quotidiano francese Liberation il 3 settembre 2012)