Per uscire dalla crisi serve un aumento del potere d'acquisto dei salariati e lo sviluppo di settori produttivi che favoriscano la crescita dell'occupazione. In tutto il mondo sono state invece aiutate le banche, le società finanziarie e le grandi agenzie di mutui immobiliari, che hanno utilizzato a proprio esclusivo vantaggio gli aiuti ricevuti dallo Stato. La minaccia ai diritti politici, sociali e civili non viene solo da una attività finanziaria senza regole, ma dalla natura stessa del capitalismo, dove il potere è esercitato da chi ha più denaro
La crisi è sia finanziaria che «reale», ma non prospetta una fuoriuscita dal capitalismo. È piuttosto la crisi di una forma specifica di capitalismo, quello selvaggio e predatorio basato sulle rendite parassitarie e speculative. In questa intervista, nuova puntata della serie «Il capitalismo invecchia?», Duccio Cavalieri punta inoltre l'indice sulle soluzioni adottate, che, scegliendo di salvare le grandi imprese finanziarie, gli istituto di credito e le banche, puntano a riprodurre le stesse dinamiche che hanno portato proprio alla crisi.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
Si è trattato all'inizio di una crisi di natura finanziaria, provocata da un'eccessiva espansione del credito bancario e da un'incontrollata cartolarizzazione di quello in sofferenza. La crisi finanziaria si è poi trasformata in una crisi reale, caratterizzata da gravi difficoltà nel realizzo del valore della produzione. È emersa una serie di problemi strutturali irrisolti, aggravati da disinvolti metodi di gestione dei rischi finanziari e da discutibili criteri di governance di alcune grandi istituzioni finanziarie internazionali. Si deve quindi parlare non di crisi generale del modello storico del capitalismo, ma di crisi di uno specifico modello capitalistico di accumulazione e sviluppo: quello, finanziariamente instabile, del tardo-capitalismo selvaggio e predatorio, basato sulla ricerca di rendite parassitarie e speculative, più che su quella del profitto.
È stata una crisi diversa, in larga misura, da quella del '29, sia per la sua dimensione globale che per il carattere a un tempo sistemico (strutturale) e ciclico. Anche le misure adottate per contrastarla sono state diverse: non si sono adottate misure deflazionistiche, ma si sono allentati i cordoni del credito e si fatto ampio ricorso all'indebitamento pubblico (Keynes ha insegnato qualcosa anche ai neoliberisti ad oltranza). Si è così assistito a una profonda ristrutturazione del capitale finanziario, su base mondiale. Ma questo non ha portato a significativi cambiamenti nel modello capitalistico di sviluppo. Si è infatti puntato essenzialmente al sostegno e al ripristino di uno status quo assai insoddisfacente, anziché cogliere appieno una grande occasione di rinnovamento.
All'origine della crisi in corso si possono riconoscere i difetti di un sistema di intermediazione finanziaria che avrebbe dovuto tutelare il risparmio e garantire il suo regolare afflusso alle imprese a alle amministrazioni pubbliche, e che invece è stato utilizzato per concentrare il potere finanziario nelle mani di alcuni grandi gruppi privati, per compiere avventurose operazioni speculative e per consentire alle banche di affari di coprire con sotterfugi legali (la cosiddetta «finanza creativa») enormi buchi di bilancio.
La domanda da porsi è cosa bisogna fare per uscire da questa crisi e per evitare che essa finisca col riproporre superati modelli storici di statalismo (l'ottica dello Stato imprenditore e proprietario) e di dirigismo (lo Stato regolatore). La risposta è che si deve anzitutto sostenere la domanda, spostando l'accento dagli impieghi finanziari agli investimenti reali e ridistribuendo la ricchezza prodotta, dalle rendite e dagli interessi verso i salari e i profitti. La grande disuguaglianza dei redditi non è un prezzo necessario da pagare per il progresso economico. Si deve evitare che gli impieghi finanziari appaiano più profittevoli degli investimenti reali e si devono rendeSi re i mercati più contendibili, a cominciare da quello del lavoro. Senza ricorrere necessariamente a privatizzazioni dei servizi pubblici, ma operando un radicale ripensamento del rapporto tra Stato e mercato.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti mainstream per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
L'eccessiva attenzione dedicata dagli economisti a un affinamento dei metodi analitici ha indotto una parte della letteratura economica a perdere di vista i contenuti reali della ricerca e ad astenersi dal coltivare una visione di sintesi. Questo è andato a scapito della dimensione sociale e politica degli studi economici e ha certamente concorso a ridurre la capacità di previsione corretta degli avvenimenti da parte di quegli economisti. Ma hanno giocato un ruolo anche altri fattori, a mio avviso più importanti. Come l'eccessiva fiducia riposta dagli economisti di formazione neoclassica nell'operare di meccanismi spontanei di riequilibrio del sistema e la loro sottovalutazione dell'entità delle risorse finanziarie e reali richieste per soddisfare la crescita impetuosa dei bisogni sociali in ogni parte del mondo. Studiosi di formazione eterodossa - come Hyman Minsky, Wynne Godley, Samir Amin e Nouriel Roubini - avevano correttamente previsto la gravità della crisi che si andava profilando all'orizzonte. Se i segnali di allarme da essi lanciati non sono valsi a indurre a una decisa azione le autorità responsabili della politica economica, a chi vogliamo addossare la colpa? Agli analisti economici, o a chi aveva in mano le redini del potere e non è intervenuto in tempo, preferendo assecondare gli sviluppi del mercato?
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mina le basi stesse della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in la?
Non è tanto la deregolamentazione dell'attività finanziaria a costituire una minaccia per la democrazia quanto la natura stessa del capitalismo, un sistema economico in cui chi ha più denaro ha più potere da far valere su mercato. Non basta quindi disciplinare il mercato, così da garantire l'osservanza delle regole concorrenziali. La concorrenza, anche se per ipotesi fosse perfetta, e non lo è mai, non potrebbe assicurare un'allocazione socialmente ottimale delle risorse disponibili. Neppure nel senso assai limitato dell'ottimo paretiano, che trascura gli aspetti distributivi del problema. La politica economica non può tuttavia limitarsi a disciplinare il funzionamento del mercato. Ha dei compiti ben più vasti.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al Washington Consensus, quanto al capitalismo di stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'asse economico Washington-Pechino mi pare tutt'altro che stabilmente consolidato. È presumibile che esso sarà presto messo in crisi da un abbandono del dollaro come principale valuta internazionale e da una maggiore diversificazione degli strumenti di riserva. Il disavanzo esterno degli Usa non potrà quindi continuare a essere finanziato con l'emissione di dollari, con conseguente aumento incontrollabile della liquidità internazionale e dei movimenti speculativi di capitali a breve ( hot money). I paesi emergenti, che hanno ingenti riserve in dollari, a cominciare dalla Cina, hanno finora preferito reinvestire i loro crediti in dollari, piuttosto che correre il rischio di una riduzione degli acquisti americani e di una svalutazione del dollaro. Non appena essi smetteranno di finanziare in questo modo il crescente disavanzo estero degli Usa, il quadro economico internazionale cambierà radicalmente e occorrerà ripensare dalle basi l'organizzazione e il modus operandi del sistema finanziario internazionale.
L'Europa, se sarà sufficientemente unita, potrà continuare a svolgere un ruolo importante nell'assetto economico mondiale e a difendere un modello credibile di stato sociale. Diverso è il discorso per il sud del mondo, che si trova in condizioni assai peggiori, gravato com'è dal peso insopportabile dei debiti pregressi verso l'estero (un altro serio problema strutturale che attende soluzione).
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e le pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Ovviamente no. Si sarebbe dovuto e si dovrebbe intervenire su entrambi i lati del mercato, a sostegno sia della domanda solvibile, e in particolare del potere d'acquisto dei salariati (la ricetta keynesiana), sia di alcuni settori dell'offerta particolarmente importanti dal punto di vista dell'occupazione. In tutto il mondo si sono invece aiutate le banche, le grandi società finanziarie e le principali agenzie di mutui immobiliari, che hanno utilizzato a proprio esclusivo vantaggio gli aiuti ricevuti dallo Stato. È così emersa una scarsa disponibilità dei detentori di mezzi liquidi a spenderli, in modo da sostenere la domanda.
La quantità globale di moneta in circolazione è da ritenere più che adeguata rispetto al fabbisogno, anche perché in molti paesi il sistema finanziario è stato ampiamente ricapitalizzato con fondi pubblici. Ma la domanda di moneta si è scontrata con il comportamento socialmente poco responsabile degli intermediari del credito. I fondi conferiti al sistema bancario non si sono trasmessi in misura sufficiente all'economia reale, perché le banche, controllate dal capitale privato, hanno preferito impegnarsi in attività di speculazione finanziaria, considerate più redditizie rispetto al finanziamento della produzione e degli investimenti. Della stretta creditizia all'economia reale che ne è conseguita hanno risentito in primo luogo le imprese, molte delle quali sono state costrette a ridurre o a cessare la loro attività. A questo punto la crisi da finanziaria è diventata reale e si è scaricata sui lavoratori e sulle loro famiglie.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Un prezzo assai pesante, ma che sarà probabilmente temperato da un prevedibile aumento dell'inflazione, dovuto all'eccessiva espansione della liquidità operata dalle banche centrali. Questo stato di cose potrebbe portare a una riduzione dell'onere reale del debito pubblico pregresso gravante sulle generazioni future. L'obiettivo immediato, in questo campo, dovrebbe essere la stabilizzazione del rapporto tra il debito e il Prodotto interno lordo (Pil), mediante l'azzeramento del disavanzo primario tra le entrate e le spese pubbliche.
L'unica alternativa praticabile è il ricorso alla creazione di nuova base monetaria. Ma il contenimento del debito pubblico non può costituire l'obiettivo principale della politica economica di un paese. Va inteso piuttosto come uno dei vincoli da rispettare nel perseguimento di obiettivi macroeconomici più significativi. Il problema del «rientro» dalla crisi in corso è complesso: riguarda non solo la sostenibilità finanziaria del debito pubblico, ma anche quella sociale. Occorre tenere conto degli effetti redistributivi che l'indebitamento statale tende a determinare, sia tra le diverse generazioni, presenti e future, sia tra i percettori degli interessi che matureranno sul debito pubblico e i contribuenti che dovranno sostenerne l'onere.
Le interviste finora pubblicate sono: a Giorgio Lunghini il 18 novembre; a Catia Kaldari il 22 novembre; a Giacomo Becattini il 25 novembre; a Tito Boeri il 29 novembre; a Pierluigi Ciocca il 2 dicembre. Tutte anche su eddyburg, in questa cartella.