La recessione, i guasti della finanza, la ricerca di alternative: ecco perché anche i teorici del sistema economico dominante lo mettono in discussione Cinque anni dopo il disastro del 2008 non ne siamo ancora usciti. Tramonta l´illusione di essere di fronte a un normale evento ciclico La concorrenza tra paesi rischia di incoraggiare una competizione verso il peggio, dove tutti si adeguano al livello più basso
Dal mercato alle diseguaglianze
la crisi di un modello globale
di Federico Rampini
Il capitalismo ha un deficit mortale: di autostima. La crisi di fiducia in se stesso traspare dai dibattiti che animano due dei più influenti media economico-finanziari. Il Financial Times e The Economist dedicano inchieste, dibattiti e analisi a un interrogativo esistenziale: quella che viviamo è una crisi "terminale" o è ancora curabile all´interno delle regole di un´economia di mercato? Ha più probabilità di sopravvivenza il capitalismo di Stato che governa i Bric, cioè Cina India Brasile Russia?
Martin Wolf, l´economista più autorevole del Financial Times, ammette che l´idea di una "estinzione" del capitalismo oggi ha ancora più peso di quanto ne avesse quattro anni fa nell´epicentro della recessione. «Nel 2009 – osserva Wolf – dedicavamo una serie di inchieste al futuro del capitalismo, oggi abbiamo cambiato il titolo e il dibattito ruota sul capitalismo in crisi». La ragione: cinque anni dopo il disastro sistemico del 2008, non ne siamo ancora usciti. Tramonta ogni illusione di avere a che fare con un normale evento ciclico, nella fisiologica "distruzione creatrice". Chiamando a raccolta i migliori intelletti del mondo angloamericano, il Financial Times conclude che per sopravvivere il capitalismo deve affrontare sette sfide. Sono sette temi familiari, in cima alle preoccupazioni dell´opinione pubblica, presenti nell´agenda dei governi e sugli schermi radar degli esperti.
Al primo posto c´è la questione sociale: lavoro e diseguaglianze. Questo capitalismo ha generato società sempre più ineguali e la sua capacità di creare occupazione declina paurosamente. Le cause sono state individuate in passato nella globalizzazione e nel progresso tecnologico; più di recente si è rafforzata la scuola di pensiero secondo cui le diseguaglianze sono "fabbricate" da un sistema politico dove le oligarchie esercitano un´influenza spropositata.
A questo sono collegati altri tre temi. La questione fiscale, che ieri Barack Obama ha messo al centro del suo discorso sullo Stato dell´Unione: il finanziamento della spesa pubblica si è spostato in modo anomalo sul lavoro dipendente, alleggerendo il capitale. Il dinamismo dell´economia di mercato necessita di profonde riforme fiscali, tanto più in una fase di shock demografico per l´arrivo all´età pensionabile delle generazioni più popolose.
Terza questione, il rapporto fra democrazia e denaro; non è solo politica ma anche economica, perché la deriva oligarchica è una "inefficienza" che distorce sistematicamente le decisioni collettive, vedi le lobby scatenate contro le riforme del governo Monti.
Quarto tema nell´elenco del Financial Times è la riforma del sistema finanziario, un cantiere ancora largamente bloccato nonostante lo shock del 2008. La finanza ha sempre avuto una tendenza degenerativa, analizzata dal grande economista Hyman Minsky: dall´arbitraggio delle opportunità si scivola verso la speculazione, da questa si precipita nella frode. È una storia antica ma le potenzialità distruttive sono amplificate dalla dimensione e interconnessione dei mercati finanziari moderni.
È impossibile aggredire le patologie del sistema bancario senza affrontare la questione della corporate governance (numero cinque): l´azienda moderna ha tradito i principi di responsabilità e di controllo, nel momento in cui l´élite manageriale si è affrancata dagli azionisti, per esempio fissando paghe sempre più stratosferiche e inappellabili.
Il problema numero sei è la questione dei "beni pubblici" in una economia globale: il mercato si è rivelato un meccanismo inadeguato a gestire beni universali ma scarsi come l´acqua, l´aria, le risorse naturali; la sicurezza o l´accesso all´istruzione.
Infine, la settima emergenza riguarda la gestione delle "macro-instabilità" e la concorrenza tra sistemi-paese. Il mercato rischia di incoraggiare una competizione al ribasso: in cui tutti i problemi elencati sopra (diseguaglianze, bassa tassazione dei capitali, saccheggio ambientale) si risolvono in una rincorsa del peggiore, verso il minimo comune denominatore. Ci sono però indicazioni contrarie: per esempio società fortemente egualitarie o meno ingiuste della media (Germania e paesi nordico-scandinavi) che si dimostrano competitive nella globalizzazione.
La questione della concorrenza tra sistemi è quella evocata dall´Economist nell´inchiesta sul ritorno del capitalismo di Stato. La Cina è un modello alternativo la cui forza contribuisce al crollo di autostima dell´Occidente. Anche India Brasile e d statalista ha sempre avuto fortuna nelle fasi di decollo iniziale (dalla Prussia al Giappone, all´Italia dell´Iri), poi con l´arrivo alla maturità le crepe del modello dirigista diventano evidenti. In passato però la crisi dei capitalismi di Stato si confrontava con la forza del paradigma "puro", quello americano: oggi invece anche nel cuore di questo modello originario il dubbio esistenziale ha messo radici.
Quell´avidità senza più freni
di Giorgio Ruffolo
Ogni regime che abbia una durata considerevole deve poggiare su una base di consenso sociale. Si può parlare di consenso passivo quando si manifesta nelle forme di una violenza repressa ma tollerata a causa della paura che suscita o del castigo divino che minaccia; e di consenso attivo quando procede da un sostegno convinto. Così è per il capitalismo: una formazione storica tanto dinamica e mutevole da chiedersi se le fasi che attraversa possano essere comprese in un concetto unitario.
Il capitalismo nasce da una transizione storica decisiva dai regimi sociali dell´antichità, caratterizzati da rapporti sociali garantiti dalla forza politica e militare a quelli della modernità contraddistinti sempre più dalle relazioni di mercato: una transizione che si compie lentamente nel medioevo. Quella transizione è per lungo tempo ostacolata, in Occidente, dalla morale cristiana, in quanto si fonda su passioni incompatibili con i suoi principi, come l´egoismo e l´avidità.
Questa resistenza è stata definitivamente vinta solo alle soglie della modernità dalla filosofia illuministica e liberale dell´utilitarismo. Fino a quel punto il "pregiudizio" cattolico che preclude al cammello di passare per la cruna di un ago getta sul mercante capitalista un´ombra di discredito.
Il paradosso utilitarista, introdotto da filosofi come Bentham nell´Inghilterra alla vigilia della rivoluzione industriale, permette al capitalismo di liberarsi di questo pregiudizio, fornendogli una preziosa legittimazione morale. Quel paradosso può essere compendiato nella sentenza del Mefistofele goethiano che presentandosi provocatoriamente come lo spirito della negazione, afferma di essere "una parte vivente di quella forza che perpetuamente pensa il male e fa il bene". A Faust che gli chiede "che dir vuole codesto gioco di strane parole" Mefistofele risponde evasivamente. Gli risponderanno invece gli economisti classici spiegando che il desiderio umano dell´arricchimento investito nella produzione competitiva si tradurrà in ricchezza per tutti, anche se in diversa misura per ciascuno. Dall´avidità può dunque nascere la prosperità.
Si possono muovere due obiezioni a questo ragionamento. La prima, avanzata da Keynes, più che un´obiezione morale è un rilievo pratico. Per superare la riprovazione etica – Keynes afferma – il successo del capitalismo deve essere talmente decisivo da essere inimmaginabile. Il rilievo non convince. Il successo del capitalismo è stato effettivamente vincente.
La seconda è più convincente. L´avidità è una passione incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità si può avvitare in un circolo vizioso di sistematico arricchimento. Fine a se stesso. E allora il tacito accordo che assicura la base del consenso necessario si rompe. È ciò che avvenne dopo la fine della prima guerra mondiale provocando una crisi che sfiorò la catastrofe. È ciò che rischia di avvenire ora se la crisi che ha quasi travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sfocerà in una rovinosa recessione.
È possibile che il capitalismo superi anche questa crisi. Dopo tutto, come è stato detto, il capitalismo ha i secoli contati. Ma è anche possibile che non la supererà se resterà nel vortice del turbocapitalismo, o capitalismo finanziario, che lo ha travolto (Luttwak)
Ha bisogno di ricostituire un equilibrio soddisfacente tra finanza ed economia reale. Ha bisogno di ristabilire un equilibrio tra economia e politica. Ha bisogno di rinnovare quel compromesso storico con la democrazia che gli ha permesso di ritrovare le basi del consenso sociale nell´età dell´oro succeduta alla fine della seconda guerra mondiale.
I dubbi etici dei giovani americani
di Nicholas D. Kristof
Recentemente, parlando allo Swarthmore College, sono rimasto sorpreso da una domanda: per uno studente è immorale cercare lavoro in una banca? Il corollario di questa domanda, è questo: guadagnare milioni di dollari con il private equity è "antietico"?
No, a entrambe le domande.
Guardo con simpatia al movimento Occupy Wall Street, ma bisogna che ci rendiamo conto che la finanza non è il demonio. Le banche hanno dato un immenso contributo alla civiltà moderna: indirizzando il capitale sugli impieghi più efficienti hanno gettato le basi della rivoluzione industriale e della rivoluzione dell´informazione. Anche gli attacchi contro il private equity sono esagerati: non ha lo scopo di distruggere le aziende e raccoglierne le carcasse. L´obbiettivo è quello di acquisire aziende malgestite, renderle più efficienti (a volte licenziando la gente, ma spesso rivoluzionando il modello di impresa) e poi rivenderle realizzandoci un profitto. Questa è la natura dura e spietata del capitalismo.
Spero che i giovani che si dedicheranno alla finanza dimostrino giudizio, equilibrio e principi, invece di avidità e voglia di truccare le carte, come la generazione precedente. Così come i comunisti sono riusciti a distruggere il comunismo, i capitalisti stanno screditando il capitalismo.
Un sondaggio del Pew Research Center, a dicembre, ha scoperto che solo un americano su due reagisce positivamente alla parola capitalismo, contro un 40 per cento che reagisce negativamente. Nella fascia d´età fra i 18 e i 29 anni quelli che avevano una visione negativa del capitalismo erano più numerosi di quelli che ne avevano una visione positiva. Questi giovani americani vedono il socialismo in una luce più favorevole del capitalismo. In altre parole, i capitalisti arraffoni dell´America stanno trasformando i giovani americani in socialisti. Lo scetticismo dell´opinione pubblica è giustificato, a mio parere. Quasi tutte le grandi aziende hanno superpagato i loro amministratori delegati, compensando generosamente non solo i successi, ma anche i fallimenti. Le banche che hanno contribuito a provocare il disastro finanziario in cui ci troviamo sono riuscite a ottenere di essere salvate: hanno privatizzato i profitti e socializzato le perdite. Contemporaneamente, più di 4 milioni di famiglie si vedevano pignorare la casa. Banchieri e azionisti hanno trovato una rete di sicurezza a salvarli dalla caduta, le famiglie dei lavoratori no.
Negli ultimi anni, questo è certo, tutti i giovani che si sono lanciati nel mondo della finanza non l´hanno fatto per smania di riformare questo sistema truccato, ma per spremerlo fino all´ultima goccia. Nel 2007, alla vigilia della crisi finanziaria, il 47 per cento dei laureati di Harvard è andato a lavorare in società del settore finanziario: una colossale misallocation di capitale umano. Magari partono con buone intenzioni, ma poi tutti questi neolaureati finiscono per farsi prendere anche loro dalla smania dell´assalto alla diligenza.
Quando i finanzieri truccano il sistema dovrebbero ricordarsi dell´ammonimento di John Maynard Keynes: «L´uomo d´affari è tollerabile soltanto se è possibile riscontrare una qualche correlazione, anche approssimativa, fra i suoi guadagni e quello che le sue attività hanno apportato alla società».
Le banche e il private equity non sono il male e io non esorterei mai gli studenti del college a tenersene alla larga. Forse i giovani simpatizzanti socialisti di oggi, insieme a una sana regolamentazione e allo sdegno esplicito dell´opinione pubblica, contribuiranno a salvare il capitalismo dai suoi capitalisti corrotti.
(Traduzione di Fabio Galimberti). Copyright The New York Times- la Repubblica