il manifesto, 6 gennaio 2017 (p.d.)
Se negli anni precedenti questo era un processo completamente controllato dai militari, dal 2012 grazie alla nuova legge sulla terra, il paese ha aperto la possibilità di acquisire terre anche a investitori internazionali. Come scrive Sassen sul Guardian, «Gli ultimi due decenni hanno visto un massiccio aumento in tutto il mondo di acquisizioni societarie di terreni per l’estrazione, il legname, l’agricoltura e l’acqua. Nel caso del Myanmar, i militari hanno espropriato vaste distese di terreno da piccoli proprietari fin dal 1990, senza alcuna compensazione, ma utilizzando le minacce contro eventuali tentativi di reazione. Questa forma di land grabbing è continuata attraverso i decenni, ma ha ampliato enormemente il proprio giro d’affari negli ultimi anni. La terra assegnata ai grandi progetti è aumentata del 170% tra il 2010 e il 2013. E nel 2012 la legge che disciplina la terra è stata modificato per favorire le grandi acquisizioni societarie».
Secondo i dati elaborati da organizzazioni che si occupano di analizzare i processi di land grabbing in Myanmar, il governo birmano, di recente, avrebbe stanziato 1,268,077 ettari proprio nella zona occidentale del paese, quella abitata dai Rohingya, per lo «sviluppo rurale aziendale»; questo – scrive Sassen – «è un bel salto rispetto alla prima ripartizione formale effettuata nel 2012, per appena 7.000 ettari».
Milioni di persone, quindi, hanno subito una vera e propria persecuzione, costrette a fuggire dalla loro terra, non solo per questioni religiose, anzi. Proprio l’aspetto religioso sembra una sorta di specchietto per le allodole per nascondere una trasformazione territoriale che il governo di Yangoon forse nasconde ai propri cittadini. E responsabili di questi processi sono senza dubbio anche altri paesi ben più avanzati per quanto riguarda il livello generale di vita. Basti pensare che il Myanmar è stretto tra India e Cina, due giganti mondiali e non solo regionali. Paesi ingordi e bisognosi di risorse.
Proprio Pechino, di recente, aveva ingaggiato un confronto con la giunta militare per la realizzazione di una diga, bloccata poi dalle proteste della popolazione locale. Ma evidentemente si trattava di un momento politico particolare, con il cambio del governo e l’arrivo in pompa magna di Aung San Suu Kyi e la sua volontà di aprirsi di più all’Occidente. Rimane il fatto che l’opacità dell’esecutivo è ancora lì, così come le politiche di land grabbing.