il Fatto Quotidiano, 10 novembre 2017. Per l’attivista canadese Naomi Klein, intervistata da Guida Rempoldi, il presidente incarna le tendenze che convergono nel “capitalismo dei disastri” che indirizza le scelte globali. (p.d.)
Se Trump non esistesse, Naomi Klein dovrebbe inventarlo. Perché nella storia dell’Occidente non c’è leader mondiale che riesca a inverare in modo altrettanto convincente la tesi che la Klein propose dieci anni fa: quel liberismo duro chiamato neoliberalism ha bisogno di cavalcare o produrre traumi collettivi. Solo nel caos di quelle esplosioni (crisi economiche, guerre, colpi di Stato) società disorientate saranno disposte ad accettare il liberismo selvaggio imposto con metodi autoritari. Dieci anni fa la shock economy pareva una di quelle tesi semplicistiche e apocalittiche con le quali il movimento no-global si era giocato la credibilità. Ma con Trump alla Casa Bianca la teoria della Klein potrebbe aver trovato il suo caso di scuola. Il presidente incarna perfettamente tutte le tendenze che convergono nel ‘capitalismo dei disastri’, scrive la Klein nel suo ultimo libro (Shock politics, pubblicato in Italia da Feltrinelli). Vuole condurre “una guerra in piena regola alla sfera pubblica e al pubblico interesse” e persegue “choc di sistema”, come dicono esplicitamente i suoi collaboratori.
Quello che non dicono è che un presidente impopolare può infliggere “choc di sistema” solo sfruttando lo stordimento prodotto da crisi gravi. Quali?
Innanzitutto Trump potrebbe sfruttare un attacco terroristico per mettere sotto accusa i musulmani e imporre soluzioni autoritarie. Inoltre ha cancellato regole varate dopo la crisi finanziaria del 2008, e questo rende possibile una nuova crisi. Trump ne approfitterebbe per imporre un’austerity brutale.
Se le circostanze non gli fornissero pretesti potrebbe crearli lui stesso?
La sua popolarità affonda, l’indagine sul Russiagate procede: Trump ha necessità di distruggere. E la guerra è la distruzione per eccellenza. L’Iran? Forse.
Però un pezzo dell’establishment sembra considerare il suo estremismo pericoloso, come in fondo l’indagine sul Russiagate suggerisce.
Non credo sia così. Malgrado tutto il Partito Repubblicano non gli ha voltato le spalle e Wall Street è con lui. Le corporates si attendono ulteriori deregulation e tagli che gli economisti stimano in 5,8 trilioni di dollari: li avranno.
Lei sostiene che per liberarsi di Trump, in sostanza, occorre lavorare in positivo negli stessi territori nei quali ha costruito il proprio consenso-senso di appartenenza, desiderio di tribù: non è pericoloso?
Per cominciare, a favore di Trump ha giocato soprattutto il dilagare dell’infotainment (cioè l’intrattenimento travestito da informazione), che rende superflui le proposte politiche e riduce tutto a scontri tra personalità, a reality. E quello è il terreno sul quale Trump è più a suo agio, il reality che conduceva aveva un successo straordinario...
Le democrazie dovrebbero in qualche modo proteggersi dal rischio che l’infotainment sostituisca l’informazione politica: sta dicendo questo?
Le tv svolgono un servizio pubblico anche quando sono private, non vedo perché non dovrebbero sottostare a regole che tutelino l’informazione nel suo scopo, dare notizie. Ma per tornare a Trump: quel che è importante è che l’infotainment si sposa perfettamente con una strategia commerciale suscettibile di diventare strategia politica.
Come funziona?
Molte corporates vendono essenzialmente la marca, il brand. Ci sono prodotti che vanno fortissimo sul mercato non perché siano fatti meglio, ma perché chi li compra ha l’impressione di entrare in una certa tribù. Ora, questo non sarebbe possibile se il bisogno di appartenenza non fosse così forte e diffuso. In passato erano le religioni, le ideologie… Ma siamo in una fase storica in cui le nostre vite sembrano disconnesse dalle altre.
E Trump è il prodotto di tutto questo?
Entrando in politica Trump ha offerto al pubblico del suo reality la possibilità di diventare una tribù: la tribù di Trump. E così ha rimodellato la politica. A differenza del politico tradizionale il capotribù non deve rispondere a nessuno di quel che fa, e più è attaccato dall’esterno più la tribù gli si stringe intorno per proteggerlo. Come in effetti sta accadendo negli Usa.
Alla tribù che potrebbe scalzare Trump lei non dà mai il nome di ‘sinistra’. Dopo le pessime prove degli ultimi anni, ‘sinistra’ è un termine di cui lei non si fida più?
Mi sembra una parola che sta perdendo significato. Forse è meglio descrivere quel che si vuole fare.
Offrire il contenuto, non il brand.
Beninteso, non ho problemi con la sinistra, vengo da lì. Corbyn, Sanders, il municipalismo radicale di Ada Colau: gente che non ha paura ad affrontare ineguaglianza, ambientalismo, corruzione, il potere delle grandi imprese… questo certo è di sinistra.
Come vede l’Europa, le sue angosce identitarie, le sue ostilità etniche?
Trump è pericolo globale ma se devo essere onesta non mi pare più osceno di certe vostre politiche, per esempio il modo in cui Europa e Italia rispondono ai flussi migratori. Costruire un muro al confine con il Messico non è più mostruoso che impedire ai migranti di imbarcarsi o riconsegnarli ai campi di concentramento in cui erano detenuti.
È disposta ad ammettere che il movimento no-global aveva idee molto confuse?
La questione è diversa. Il neoliberalismo mosse una guerra all’immaginazione politica. Annunciò che il suo modello non aveva alternative, che la storia era finita. Esercitò un controllo poliziesco sui confini del possibile. E vinse. Dovevamo essere un movimento propositivo, fummo solo movimento d’opposizione. Ma l’ultima generazione è diversa. Quei ventenni sono capaci di immaginare un mondo oltre.