« la Repubblica, 7 febbraio 2017 (c.m.c.)
Gli elettori non esistono in natura. Sono il prodotto delle leggi e dei sistemi elettorali. Neanche le parole degli elettori, i loro voti, sono un dato naturale. Dipendono dagli artifici in cui sono inseriti e conteggiati per produrre un risultato. Il voto può essere rispettato, maneggiato, manipolato, reso vano e, perfino, orientato verso esiti desiderati da coloro che fanno e disfanno le leggi elettorali: leggi “performative” che non regolano ma creano il loro oggetto. Non si sta parlando di cose come brogli o corruzione. Si sta parlando degli effetti di ogni legge il cui compito sia trasformare i voti in seggi. In quella trasformazione stanno tutte le possibilità appena dette.
Si comprende così il significato dell’affermazione iniziale: gli elettori sono l’effetto delle leggi elettorali. Queste, per così dire, “fanno l’elettore”, lo rispettano o lo usano; sono neutrali o sono faziose; sono sincere o sono mentitorie. Trasformano l’elettore da una realtà virtuale in una realtà concreta, ed è forse questa la ragione sottintesa che ha indotto la Corte costituzionale ad ammettere il ricorso contro le ultime leggi elettorali, indipendentemente dalla loro applicazione: producono un effetto concreto immediato, quando entrano in vigore.
Che cosa sono le leggi elettorali abusive? Si può trasformare la domanda in quest’altra: di chi sono le leggi elettorali? La risposta, in teoria, è ovvia: le leggi elettorali, tra tutte le leggi, sono quelle che più d’ogni altra appartengono ai cittadini; e meno di tutte le altre, ai governanti.
Le leggi elettorali abusive sono quelle fatte dai governanti come se interessassero, come se appartenessero, a loro. Guardiamo ora ciò che è accaduto e che accade. Le si fanno (o si cerca di farle) col fiato corto, guardando all’interesse immediato dei partiti. Così, esse diventano strumenti di lotta politica orientata dai sondaggi.
C’è da stupirsi, allora, se all’accanimento nelle sedi del potere dove le si elaborano corrisponda l’indifferenza indispettita di grande parte di cittadini elettori che assistono alle giravolte, alle contraddizioni, alle furbizie e alle infinite improvvisate complicazioni che si svolgono sopra la loro testa? Si comprende poco o niente della riforma, ma si capisce benissimo d’essere trattati come merce, come possibile “bottino”, e non come soggetti della democrazia. La giustizia elettorale, qualunque cosa significhi, è sostituita dagli interessi.
I partiti giocano molto della loro credibilità in questa partita. Esiste un documento della Commissione di Venezia (autorevole consesso che formula giudizi sullo stato della democrazia nei Paesi europei), adottato dal Consiglio d’Europa nel 2003, intitolato “codice delle buone pratiche in materia elettorale”.
È un richiamo alla responsabilità e lealtà nei confronti degli elettori. Vi si legge che «la stabilità del diritto è un elemento importante per la credibilità di un processo elettorale, ed è essa stessa essenziale al consolidamento della democrazia. Infatti, se le norme cambiano spesso, l’elettore può essere disorientato e non capirle, specialmente se presentano un carattere complesso.
A tal punto che potrebbe, a torto o a ragione, pensare che il diritto elettorale sia uno strumento che coloro che esercitano il potere manovrano a proprio favore, e che il voto dell’elettore non è di conseguenza l’elemento che decide il risultato dello scrutinio. Gli elementi fondamentali del diritto elettorale, e in particolare del sistema elettorale propriamente detto, non devono poter essere modificati nell’anno che precede l’elezione, o dovrebbero essere legittimati a livello costituzionale o ad un livello superiore a quello della legge ordinaria ».
Queste proposizioni, di per sé, non hanno forza di legge. Tuttavia, esse integrano l’articolo 3 del Protocollo n. 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: diritto a elezioni libere ed eque. Questo sì ha forza di legge. Sulla sua base la Corte di Strasburgo ha giudicato una legge della Bulgaria contraria al principio di neutralità della legge elettorale ( Ekoglasnost contro Bulgaria, n. 30386/05). Si trattava d’una legge adottata in prossimità delle elezioni che penalizzava un partito politico a favore degli altri. Attenzione a non incorrere, anche noi, nella medesima censura.
In Italia, l’abitudine di cambiare le regole del gioco a pochi mesi dalle elezioni è prassi che pare normale. Così è accaduto nel 1923-4 con la “legge Acerbo”; nel 1953 con la “legge-truffa”; nel 1993-4 con la “legge Mattarella”; nel 2005-6 con la “legge Calderoli”. La stessa cosa potrebbe avvenire oggi con una legge modificativa del cosiddetto Italicum a seguito della recente sentenza della Corte costituzionale. Il sospetto che questa modifica sia inficiata da ragioni di convenienza politica, in queste circostanze, è più che un sospetto.
Si dice: siamo tuttavia in uno stato di necessità; abbiamo due leggi elettorali diverse per la Camera e il Senato; se non le si rende omogenee ci potrebbero essere maggioranze diverse; la “ingovernabilità” incombe su di noi. Dunque, occorre una nuova legge elettorale. Fino a che non la si sarà fatta non si vota (magari anche dopo il 2018?). Questa situazione non è caduta dal cielo. È il risultato di decisioni assurde, volute da insipienti e arroganti. Erano sicuri dell’esito del referendum che avrebbe eliminato l’elezione diretta del nuovo Senato. L’-I-talicum che vale solo per la Camera è stato approvato “nella (fiduciosa) attesa” della riforma costituzionale.
Accanto alle leggi comuni, retroattive, transitorie, interpretative, ecc., abbiamo inventato le “leggi nell’attesa…”). Ma gli indovini possono fallire, tanto più facilmente quanto più si affidano a previsioni e presunzioni che riguardano altri da loro, nel nostro caso gli elettori del 4 dicembre. Ora devono uscire dall’impasse dove essi stessi si sono cacciati, coinvolgendo la Corte costituzionale (su cui un discorso a parte dovrà essere fatto) e colpevolizzando gli elettori che hanno mandata delusa la loro “attesa”.
Indipendentemente da astratte desiderabilità, c’è un solo modo per non incorrere nell’accusa d’una legge dell’ultim’ora a vantaggio degli uni e a danno degli altri, con possibili conseguenze di fronte alla Corte di Strasburgo: una legge proporzionale, con sbarramenti al basso ma senza premi all’alto. Del resto, il proporzionale è l’unico sistema imparziale in un contesto politico non bipolare come è l’attuale. Nell’incertezza su chi potrebbe prevalere schiacciando i soccombenti (sia il Pd, il Movimento 5 stelle o la coalizione di destra) è, alla fine, nell’interesse di tutti. Finirà presumibilmente così. È difficile ammetterlo e dirlo, perché sembra di voler ritornare indietro nel tempo. Ma occorre pur riconoscere che il progetto di portare in Italia il bipartitismo o il bipolarismo è fallito.
Qualunque premio (che sarebbe più corretto chiamare “di minoranza”: il premio di maggioranza era quello del ’53, che avrebbe operato a favore di chi avesse ottenuto la maggioranza dei voti) è un rischio per tutti e, in un sistema tri — o multipolare, sebbene sia stato salvato dalla Corte costituzionale, altererebbe la rappresentanza in modo incompatibile con la democrazia rappresentativa.
E la “governabilità”? Governare è dei governanti. Sono loro a dover garantire la governabilità e non c’è nessun marchingegno elettorale che può garantirla in carenza di senso di responsabilità, come dovremmo sapere noi in Italia senza possibilità di sbagliarci. Occorreranno coalizioni e compromessi? È probabile.
Ma le coalizioni e i compromessi non sono affatto cose negative, sono anzi nell’essenza della democrazia pluralista: dipende da chi le e li fa, in vista di quali obbiettivi e a quali condizioni. Non sono necessariamente “inciuci”, per usare il nostro squallido linguaggio. Del resto, ogni sistema elettorale non proporzionale applicato in contesti non bipartitici o almeno bipolari, mette in moto accordi e patteggiamenti tra interessi più o meno limpidi prima delle elezioni, per di più ignoti agli elettori, necessari “per vincere”. Se questi si dovessero fare dopo le elezioni “per governare”, la loro sede potrebbe e dovrebbe essere quella pubblica, il Parlamento. Che cosa, delle due, è meglio?