il manifesto, 15 marzo 2017 (c.m.c.)
È tempo di ripensare le forme reali della democrazia costituzionale. C’è bisogno di ritrovare il fondamento pluralista e conflittuale che la qualifica. È necessario guardare alla realtà divisa, alle lacerazioni che colpiscono i corpi delle persone concrete.
Dobbiamo abbandonare i falsi miti per costruire il futuro. Abbiamo bisogno di quel che Stefano Rodotà ha definito un «costituzionalismo dei bisogni».
Alcuni eventi – accidenti della storia – possono assumere un valore simbolico e spingerci a guardare al di là dell’immediatamente rilevante. Così, i referendum sul lavoro potrebbero riuscire ad andare oltre alla miseria dei voucher per squarciare il velo sul degrado della democrazia sociale. Anche, la straordinaria reazione che si è espressa il 4 dicembre può diventare un inizio: non solo il rifiuto di una riforma della Costituzione peggiorativa dell’esistente, ma anche l’indicazione di una rotta verso politiche costituzionali più democratiche e partecipate. La lotta per la democrazia è oggi più aperta di ieri.
La storia passata insegna che il sistema politico tenterà di sterilizzare queste vicende riducendoli a meri “fatti”, per poter proseguire come se nulla fosse accaduto. Ma non sempre sarà facile sottrarsi al cambiamento. Il sistema politico in questo momento sta affrontando la questione della legge elettorale. Costretto dalla circostanza che un organo di garanzia costituzionale ha realizzato l’inimmaginabile: un giudice ha scritto in vece del parlamento la più politica delle leggi, quella elettorale. Con qualche ottimismo possiamo sperare che si recuperi finalmente un equilibrio tra le ragioni della governabilità e quelle sin qui pretermesse della rappresentanza. Bene, non si può che essere soddisfatti.
Eppure, volendo spingere lo sguardo oltre il «fatto», mi chiedo: anche ottenessimo il migliore dei sistemi elettorali possibili avremmo risolto i problemi della rappresentanza politica? Non dubito che l’approvazione di una buona legge elettorale rispettosa del principio di rappresentanza segnerebbe una netta discontinuità dopo ventiquattro anni di infatuazione maggioritaria. Tuttavia, mi chiedo su quali fondamenta si vuole ricostruire la rappresentanza politica in seno al parlamento.
Una legge d’impianto proporzionale realizzerebbe, certamente e finalmente, una rappresentanza reale; ma di chi, di cosa? Di un popolo scomposto, smarrito, privato di legami sociali e di visione collettiva. Temo si possa correre il rischio di garantire una rappresentanza solo dimidiata, di partiti privati di legittimazione sociale. Sicché un cambiamento da tempo atteso, di segno assai positivo, rischierebbe di reggersi su gambe d’argilla. Imposto dalla forza dei giudici costituzionali, ma nel vuoto della politica.
Se vogliamo dare solide fondamenta al cambiamento auspicato dobbiamo guardare anche a ciò che v’è dietro, che si pone come presupposto di legittimazione della scelta dei sistemi elettorali, di quelli ispirati dal principio proporzionale. In sostanza si tratta di mettere a tema la realtà della rappresentanza politica e non soltanto le sue forme istituzionali.
Quel che mi sembra di poter rilevare è che non ha senso parlare del rapporto di rappresentanza senza volgere lo sguardo anche, soprattutto, al rappresentato. Questo mi induce a ritenere che oggi affrontare la questione della crisi della rappresentanza deve voler dire toccare almeno altri due aspetti, oltre a quello delle modalità di voto. Da un lato, la questione delle altre forme di espressione della volontà popolare, dall’altro quella delle forme di organizzazione di questa stessa volontà.
Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni (dal parlamento in particolare) e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione.
Riscoprire le virtualità della partecipazione per non rinchiudersi dentro i palazzi della politica e delle istituzioni può costituire un inizio, ma può anche rappresentare un rischio.
Può costituire un inizio se tramite la partecipazione si riesce a ricostruire un rapporto tra cittadini e istituzioni della rappresentanza, riproponendo al centro dell’organizzazione dei poteri il parlamento come luogo del compromesso politico e sociale. Può altresì rappresentare un rischio qualora le dinamiche della partecipazione finissero per rivoltarsi contro il parlamento facendo prevalere lo spirito populista e antiparlamentare così diffuso oggi, non solo in Italia.
Ed è per questo che, oltre alle forme di partecipazione popolare, bisogna anche occuparsi delle forme di organizzazione dei poteri. Le sorti della democrazia partecipativa sono legate a quelle della democrazia rappresentativa.
Dunque, ripensare l’organo della rappresentanza, il parlamento. Anzitutto rivendicando un riequilibrio della forma di governo, la quale si è andata progressivamente sbilanciando a favore dell’istituzione governo. È questo un processo iniziato quarant’anni fa, che è stato sospinto dalla mistica della governabilità e dall’illusione ottica della debolezza o instabilità degli esecutivi. Se oggi si vuole ricostruire la democrazia pluralista e conflittuale diventa anzitutto necessario liberare il parlamento dalla situazione di minorità rispetto agli esecutivi, aiutarlo a ritrovare la sua autonomia di organo costituzionale.
Il parlamento è oggi ad un bivio. Rischia di essere definitivamente svuotato, schiacciato dal peso del governo e abbandonato al suo triste destino da un popolo distratto e indifferente. Potrà salvarsi solo se riesce a dare voce al rappresentato, ai soggetti storici reali. La forza autonoma dei parlamenti nelle società complesse si rinviene nella capacità di questi di essere effettivamente rappresentativi delle divisioni, luogo di scontro e composizione dei conflitti.
Un ruolo costituzionale che non può essere assimilato a quello del governo che deve, invece, promuovere una politica generale mantenendo un’unità di indirizzo politico, a scapito delle minoranze. Al parlamento, istituzione del pluralismo, si affiancherebbe così il governo, istituzione dell’unità maggioritaria. In un equilibrio tra poteri definito dal sistema costituzionale e dalla nostra forma di governo parlamentare.
Anche il rappresentato però dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene. Dovremmo noi tutti tenere ben presente che le sorti del parlamento si legano indissolubilmente a quelle della democrazia, giungendo a determinare la sua qualificazione. Una democrazia pluralista non può essere governata senza un organo che sia effettiva rappresentazione della diversità del corpo sociale, diversità che l’organo governo non può neppure aspirare a interpretare. Una democrazia conflittuale deve trovare un luogo istituzionale di composizione che riesca a garantire il compromesso tra le diverse forze politiche.
Le democrazie pluraliste e conflittuali, dunque, non possono fare a meno di un popolo sovrano, ma neppure di parlamenti autonomi. Riscoprire la complessità sociale e la centralità del parlamento è impresa titanica di questi tempi di dominanza degli esecutivi, tuttavia non ci si può sottrarre, anche in questo caso si tratta di iniziare una lunga marcia.