PRIMA di emettere giudizi sul nuovo governo iracheno, e quindi di fare pronostici sul suo futuro, bisogna vederlo alla prova. La sua durata sarà breve se il calendario politico previsto sarà rispettato: entro il gennaio prossimo si dovrebbero tenere le elezioni destinate a dare una legittimità popolare a un nuovo esecutivo, e a dar vita a un´assemblea costituente: ma nell´Iraq di oggi sette mesi possono sembrare l´eternità.
Per il governo annunciato ieri a Bagdad la prima prova sarà tuttavia immediata e probabilmente decisiva. Al fine di conquistare un po´ di credibilità agli occhi del Paese, i nuovi ministri dovranno dimostrare, al più presto, subito, sin dai primi passi, di essere autonomi rispetto agli americani.
E al tempo stesso dovranno collaborare con loro. Essere autonomi significa poter prendere decisioni indipendenti, compresa quella di chiedere la partenza delle truppe straniere; e di essere comunque in grado di disciplinare la loro condotta. Al contempo, collaborare significa riconoscere il fatto che il governo basa la sua forza sulla presenza di quelle truppe, perlomeno nel futuro scrutabile. Si tratta di un´acrobazia politica difficile da eseguire su un terreno arato dalle passioni e dalla violenza.
Il modo in cui il nuovo governo provvisorio è stato formato ci fornisce già alcuni preziosi elementi. Anzitutto quale è stato il ruolo dell´Onu, sul cui carattere provvidenziale molti contavano e contano? In apparenza è stato scarso. Per non dire nullo. Diciamo che è stato simbolico.
Lakhdar Brahimi non è stato né regista, né attore. È stato una comparsa. Il suo famoso piano iniziale escludeva anzitutto che i membri del vecchio Consiglio, creato dagli americani all´inizio dell´occupazione, entrassero nel nuovo governo. Essendo quel primo organismo totalmente screditato, segnato dal marchio impopolare dell´occupante, bisognava trovare notabili di prestigio, personalità indipendenti, estranee ai partiti, in grado di far dimenticare gli affaristi promossi in tutta fretta ministri, perché provenienti dall´esilio e ammanicati con il Pentagono o con la Cia. In partenza Lakhdar Brahimi fu drastico. Non disse niente lestofanti, ma lo suggerì tracciando il profilo dei nuovi ministri galantuomini (scienziati, giuristi, medici, intellettuali senza etichette politiche).
Il sottile diplomatico algerino, costretto a destreggiarsi tra la virtuale neutralità dell´Onu, l´incontenibile prepotenza americana e lo schizofrenico mosaico iracheno, ha finito col gettare di fatto la spugna cercando di salvare la faccia. A più riprese ha espresso il suo sconforto e ha minacciato di andarsene. Il suo abbandono ufficiale avrebbe nociuto alle Nazioni Unite. Lakhdar Brahimi è un diplomatico che non ama i gesti clamorosi e rispetta i rapporti di forza. Ha quindi cominciato con l´accettare la prima imposizione americana, riguardante la presenza di uomini politici, di esponenti dei partiti moderati, nel nuovo governo, al posto delle vagheggiate personalità indipendenti. Washington voleva affrettare i tempi e coinvolgere subito le forze politiche sunnite, curde e sciite, senza aspettare le elezioni di gennaio. Brahimi ha chinato la testa.
Il secondo colpo al suo piano l´hanno vibrato i membri del vecchio Consiglio di governo, risentiti, offesi dalla loro esclusione a priori dal nuovo gabinetto. È stata una rivolta. I ministri si sono trasformati in sostanza in un´assemblea e hanno cominciato a designare i successori, scegliendoli nelle loro stesse file, e infischiandosene di quel che l´inviato dell´Onu aveva concordato con vari esponenti della società irachena, percorrendo il Paese e consultando sciiti, sunniti e curdi, laici e religiosi. C´è stata allora qualcosa di molto simile a una mischia, nella quale Paul Bremer ha avuto naturalmente un ruolo di rilievo. Il proconsole americano, che il primo luglio lascerà il posto a un ambasciatore (già designato nella persona di Negroponte, ex rappresentante degli Stati Uniti nel Palazzo di Vetro) non ha fatto fatica a stare al gioco. Scartata la possibilità che l´inviato del Palazzo di Vetro potesse formare il nuovo governo, Bremer ha cercato di influenzare le scelte dei ministri "ribelli". E ha agito con decisione se uno di quei ministri, il curdo Mahmud Osmane, lo ha definito prepotente «come Saddam Hussein». In quanto al povero Lakhdar Brahimi, per essere ascoltato, ha minacciato più volte di andarsene.
La designazione dello sciita Iyad Allawi come primo ministro è stata alla fine accettata da tutti. Brahimi non poteva andarsene da Bagdad con la coda tra le gambe; e Paul Bremer non era in grado di contenere la rivolta di quelli che erano in definitiva i suoi "figli", vale a dire i suoi più autorevoli collaboratori, scelti dagli stessi americani dopo la vittoria militare dello scorso anno. Del resto il dottor Allawi gli va a genio. Non può che piacere a Washington. Di professione medico, ex militante del Baath, il partito di Saddam Hussein, poi passato all´opposizione, e a lungo esule a Londra, può esibire un´ineccepibile garanzia: il suo partito, il Movimento d´Intesa Nazionale, gode della stima e usufruisce degli aiuti della Cia. Quale migliore presentazione per un primo ministro iracheno?
Il vero braccio di ferro è avvenuto quando si è dovuto eleggere il presidente. Il quale nel nuovo ordinamento provvisorio avrà un ruolo puramente rappresentativo, ma la cui scelta, tra le personalità sunnite, ha assunto un valore eccezionale. Dopo Allawi, l´amico della Cia, i membri del vecchio Consiglio di governo hanno voluto riscattarsi, e hanno puntato su un personaggio più indipendente, meno sottoposto alla superpotenza protettrice.
Lakhdar Brahimi e Paul Bremer volevano come presidente un anziano galantuomo, Adnan Pachachi, più che ottantenne e discendente di una vecchia famiglia che dette primi ministri e ministri ai tempi della monarchia. I membri del Consiglio di governo hanno invece indicato Ghazi al Yauar, una personalità con più grinta, capace di esprimere con maggior forza l´indispensabile autonomia nei confronti degli americani, per conquistare un po´ di credibilità agli occhi del paese.
Ingegnere, con un´esperienza americana, e soprattutto esponente di una delle più grandi tribù irachene, in cui convivono sunniti e sciiti, il non ancora cinquantenne al Yauar è diventato d´ora in ora un personaggio di sempre maggior rilievo. A farlo diventare tale non è stata soltanto la spiccata personalità, ma l´opposizione americana alla sua nomina.
Infatti, più Paul Bremer insisteva nel sostenere il pacifico, consenziente Pachachi, apprezzato anche da Brahimi, e più il Consiglio di governo si impuntava su al Yauar. Resosene conto, il saggio Pachachi ha rinunciato all´incarico riconoscendo che l´appoggio americano l´aveva fatto diventare impopolare e quindi ineleggibile. Cosi il nuovo governo ha imparato che l´appoggio degli americani rende impopolare. E che, al contrario, prendendo le distanze da loro si può guadagnare in credibilità.
Vedremo presto come questa constatazione peserà sulla sua immediata condotta.