Alcuni giorni fa Andrea Camilleri e Giovanni Sartori hanno presentato il libro-testamento di Paolo Sylos Labini «Ahi serva Italia, appello ai miei concittadini».
C’era una grande folla nelle stanze della Casa Editrice Laterza di Roma. Tutta quella gente non era venuta soltanto per l’immensa stima e l’immenso affetto che Sylos Labini si era meritato nella sua vita di maestro.
Camilleri, Sartori e tutti gli altri sono venuti per dire che ci impegniamo anche in condizioni di totale controllo mediatico e di esclusive notizie di regime a fare in modo che tutti sappiano di quell’appello.
È l’impegno di tanti che non hanno mai rotto il patto.
Il patto era di dire e di ripetere e di far sapere in Italia ciò che di noi dice il mondo: l’Italia è umiliata e soffocata da un gigantesco conflitto di interessi che non si ferma o non si modera con l’espediente di parlarne con gentilezza. Oggi quel conflitto è molto più grande del primo giorno del triste governo Berlusconi. Diventa ogni giorno più incompatibile con la democrazia. Può essere rimosso, salvando il Paese, solo col voto. Sylos Labini è stato voce alta, limpida, autorevole di questo giornale, una voce che non si è mai placata perché non c’era ragione di placarsi. Nella presentazione del suo libro-appello, Camilleri e Sartori (certo difficilmente definibili “radicali” e “girotondini”) hanno voluto unire le proprie voci a quella di Sylos Labini per dire ai disorientati e agli incerti secondo l’ammonizione di Umberto Eco: «Non siete matti, voi che parlate di dittatura mediatica. Siete i cittadini che non si rassegnano a consegnare i propri diritti democratici al governo della famiglia Berlusconi e dei suoi scrupolosi dipendenti. Ora diremo basta col voto».
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Si chiama “endorsement” negli Stati Uniti la dichiarazione con cui alcuni grandi giornali prendono posizione sui partiti contrapposti e sui loro leader prima di ogni elezione politica. Poiché, in quel Paese gli elettori hanno il privilegio democratico di scegliere una per una le persone da eleggere alla Camera o al Senato, i quotidiani come il New York Times, fanno seguire alla dichiarazione di voto per lo schieramento (Repubblicani, Democratici, Kerry o Bush) una serie di editoriali brevi dedicati ai singoli candidati, con le ragioni specifiche di sostegno o di rigetto.
L’«Editorial Board» di quei giornali (che è composto dall’editore, dal direttore e dai capi dei vari settori del giornale) ama sentirsi libero e vuole dimostrarlo. Perciò non è raro che l’indicazione di voto per singoli candidati incroci le linee dei due schieramenti. Questo impegno è allo stesso tempo politico e pedagogico.
Ciò che viene ritenuto improprio e pericoloso in una democrazia è il silenzio, è la finzione di equidistanza, che il più delle volte copre l’imbroglio. L’oscura e cieca legge elettorale che è stata gettata sull’Italia, ultimo contributo di Berlusconi al peggioramento della nostra vita, impedisce di seguire questo percorso di civiltà.
Ma per questa ragione, il dramma del peggioramento progressivo in cui sta cadendo l’Italia, in ogni campo e settore della sua vita, della sua attività, e a causa della paurosa crisi di credibilità, perduta dal Paese verso il resto del mondo, e dalle istituzioni nei confronti dei cittadini, si deve apprezzare l’iniziativa del Corriere della Sera. Mercoledì 8 marzo, con un editoriale del suo direttore Paolo Mieli, quel giornale ha indicato la scelta di voto, ovvero lo “endorsement”, come avviene nella vita democratica di altri Paesi. Il direttore del Corriere della Sera ha spiegato con chiarezza perché è bene votare per l’Unione e per Prodi.
Mi domando se apparirà credibile ciò che sto per scrivere: quel gesto mi sarebbe sembrato altrettanto importante e civile anche nel caso che lo “endorsement” fosse andato in senso contrario, a favore di Berlusconi. Avrei detto con vigore il mio dissenso. Ma avrei ugualmente considerato essenziale al costume e al confronto democratico la aperta dichiarazione di voto. Il nostro Paese, infatti, come ci dimostra ogni sera la televisione di Stato, è pervaso dalla malattia del giornalista o conduttore che si considera, in modo fatuo e impossibile, “al di sopra delle parti”, come se, nel mestiere di informare, un simile atteggiamento fosse desiderabile, umano e possibile.
Il danno recato dall’impasto di finta estraneità - qualcosa di profondamente diverso dal giornalismo libero nel mondo (basti ricordare gli editoriali del New York Times sul governare di George W. Bush) - lo abbiamo constatato per anni nei silenzi, nelle notizie mancanti, nelle citazioni senza commento di frasi false o insultanti o assurde dette dal presidente del Consiglio o da alcuni suoi Ministri, o per l’immensa tolleranza che ha quasi sempre coperto il comportamento osceno di esponenti della Lega Nord.
L’importanza dell’editoriale di Paolo Mieli rompe il gioco del professionismo equidistante, molto adatto a coprire la complicità, in un momento particolarmente grave della vita italiana.
Questo gioco, ripeto, sarebbe stato rotto anche da una dichiarazione di segno opposto. Felice come sono che il Corriere della Sera indichi Prodi e il Centrosinistra come degni di essere votati, mi sento di dire che l’avere scelto e proclamato il valore democratico di quella scelta, è il vero senso dell’evento.
Questo spiega la povertà imbarazzante delle dichiarazioni con cui ha reagito la Casa delle libertà. E se Mantovano, Fini e Calderoli si comportano come maschere fisse di una malandata commedia dell’arte, fanno effetto le seguenti battute di Pier Ferdinando Casini, che sta dimenticando troppo in fretta la sua dignità di Presidente della Camera.
Ha detto Casini con una memorabile sbandata: «Nel referendum sulla fecondazione il Corriere della Sera scese in campo invitando gli italiani ad andare a votare. Gli italiani però non andarono a votare. Spero che non lo facciano neanche questa volta». Curiosa svista. L’abile uomo politico a cui si attribuiscono effervescenti disegni centristi nel caso che fosse necessario mettere insieme una “grande coalizione”, non si accorge di invocare e celebrare il peggior pericolo per la sua parte.
Casini ostenta, inoltre, una disinformazione sorprendente per uno che è alla testa della associazione dei parlamentari democristiani del mondo. Dice che «è inconsueto per un giornale indipendente prendere posizione prima delle elezioni». Tutti sanno che farlo è normale e tipico in tanti Paesi democratici e negli Usa è considerato doveroso. Ma a Casini non manca neppure il cattivo gusto: «invece delle leggi ad personam, che ad personam non sono, adesso siamo arrivati alla campagna elettorale ad personam».
E nella stessa frase nega ciò che ha fatto come presidente di una Camera che quelle leggi le ha votate a una a una con la procedura oscura del voto di fiducia. E definisce “ad personam” una pubblica e democratica dichiarazione di voto.
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Come in una pista d’atterraggio nella giungla, si vedono, nell’editoriale di Mieli, alcune luci che indicano il passaggio. Una è quando il direttore del Corriere della Sera dice che «il governo ha dato l’impressione di essersi dedicato più alla soluzione delle proprie controversie interne e di avere badato più alle sorti personali del presidente del Consiglio che non a quelle del Paese». L’altra è un accenno, rapido ma chiarissimo. Definisce ciò che è accaduto nel mondo finanziario italiano la scorsa estate «la battaglia sulle scalate bancarie ed editoriali».
Il direttore del Corriere ha notato il pericolo, e ha dato all’opinione pubblica italiana il segnale d’allarme. Se il conflitto di interessi resta incastrato nella nostra vita collettiva, non può che crescere e travolgere tutti, in una sorta di guerra contro tutti, non solo contro la sinistra.
È accaduto questo: le parole di Mieli ricordano ciò che aveva scritto Eugenio Scalfari nel suo editoriale del 26 febbraio, dopo che Berlusconi si era prodotto nel suo elogio di Fiorani: «Finalmente viene fuori con tutta evidenza chi era l’amico di Fiorani, anche nella scalata dei furbetti” al Corriere della Sera. Il tempo è galantuomo. Paolo Mieli era ancora incerto sugli dei protettori di quella scalata. Adesso ne ha finalmente l’indicazione davanti agli occhi».
Il povero ministro Giovanardi crede di essere draconiano con la sua condanna: «Finalmente il Corriere si è ufficialmente affiancato all’ Unità». È una affermazione che ci rende fieri in questo giornale. A noi è sembrato molto presto di scorgere nel conflitto di interessi e di legalità un pericolo per l’integrità della Repubblica, della sua vita, dei suoi costumi, della sua libertà. L’appello del Corriere della Sera è contro un profondo processo di corruzione, divisione e guerra permanente che continua e dilaga. Chiede agli italiani che venga risparmiato al Paese un periodo di spaventosa stagnazione. La causa è nella descrizione del lavoro di governo fatta da Mieli: lavora per sé soltanto per sé. Lavora per proteggere interessi personali. Ma nel giro degli interessi personali c’è una ragnatela di legami che richiede l’agevolazione di altri interessi personali. Casi come Parmalat e Fiorani diventano - anche di fronte al mondo , il cui interesse a investire in Italia crolla - patologia cronica e inevitabile. L’inquinamento fermenta sotto la calotta del conflitto di interessi, l’abolizione del falso in bilancio, le leggi che esimono dal rispondere in tribunale. Ma ciò che ha provocato il segnale d’allarme alla borghesia italiana, lanciato dal Corriere della Sera va collegato al segnale d’allarme lanciato dalla Confindustria.
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Il problema appare, con evidenza, molto più grave di una pur tumultuosa campagna elettorale.
È vero, Berlusconi sta conducendo questa campagna con un tipo di violenza che tende a suscitare lo scontro. Ma è pur sempre una campagna elettorale, e la paura di perdere può giocare brutti scherzi.
Più grave è ciò che si è appreso giorno per giorno dal modo di governare di Berlusconi. I cinque anni che abbiamo vissuto sono stati cinque anni di estenuante campagna elettorale, comprese le bandiere, le accuse, le mitragliate di cifre false e di dati deliberatamente formati per dare annunci, un impegno ininterrotto ad attaccare secondo un veemente modello di opposizione. Ma qui, la veemenza, l’attacco, le continue imputazioni agli avversari, il tentativo di mettere gli avversari a tacere, vengono dal governo e puntano febbrilmente contro ogni dissenso e ogni tentativo di opposizione. La colonizzazione della Rai, il livellamento della Rai con Mediaset, il lavoro forzato delle Camere per approvare subito e con il voto di fiducia le leggi speciali per persone e interessi speciali, non hanno mai placato l’opposizione continua di questo governo e della sua maggioranza, che ha creato e mantenuto una profonda spaccatura nel Paese.
Opposizione a chi, visto che Berlusconi e i suoi sono (erano) al governo? Non resta che una risposta, che sembrerà un po’ retorica, ma viene dalla constatazione dei fatti. È opposizione all’Italia. Viene freneticamente e ripetutamente descritta un’Italia tutta comunista, una spirale di manovre malevole scatenate dalle cooperative rosse, dai sindacati rossi, dalle giunte rosse, dai magistrati rossi, dai giornalisti rossi, dalle televisioni rosse, dal cinema rosso, dalle professioni succubi del comunismo. E dalla Confindustria.
Il messaggio continuo è che si deve avere paura della sinistra. Nel penoso “Porta a Porta” dell’8 marzo, Berlusconi, per tutta una sera, durante ore di monologo, ha detto al “dottor Vespa” che il “signor Prodi” si prepara a fare il prestanome di un governo che imporrà il modello comunista in tutti gli aspetti, stadi e settori della vita.
L’Italia ha raggiunto quota zero di sviluppo, unica democrazia occidentale al mondo, dopo avere attraversato cinque anni di continua campagna elettorale, senza alcuna attività legislativa che possa essere ricordata. Solo distruzione delle procedure democratiche, delle regole comuni, della Costituzione. L’Italia ha raggiunto l’impoverimento delle famiglie, la perdita di posti di lavoro, la caduta del commercio con l’estero, l’aumento drammatico dell’abbandono della scuola dell’obbligo, lo svilimento dell’immagine italiana e della sua credibilità sia politica che imprenditoriale. Ma Berlusconi sta ancora accusando il complotto della sinistra.
La campagna elettorale che dura per anni distrugge il tessuto sociale, i rapporti fra gruppi, le possibilità di cooperazione su cui si basa la vita democratica. Impedisce di lavorare, di comprare, di vendere, di investire. Ogni problema - e tutti si rendono conto della complessità dei problemi con cui ogni governo e ogni Paese si devono confrontare - diventa uno spot pubblicitario e un podio per lanciare l’accusa contro qualunque dissenso, per sviare o eliminare ogni punto di vista diverso, offrendo solo autoesaltazione e connivenze private. La sindrome di corruzione italiana diventa internazionale, come sembra dimostrare il nuovo processo di Milano appena aperto contro Silvio Berlusconi e il suo avvocato inglese Mills.
C’è in tutto questo l’evidente e serio problema caratteriale di una persona. Ma è anche tragedia, se quella persona è in grado di sovrapporre una immensa ricchezza agli interessi di tutto il Paese. Aggrava il quadro la volontà di gettare lo Stato e il paese contro la Magistratura. Il conflitto di potere si somma al conflitto di interessi, l’impegno dichiarato è di abolire uno dei tre poteri della democrazia.
A questo gioco il Corriere della Sera e la Confindustria hanno dichiarato di non volersi prestare. Nella lunga scenata di Berlusconi non c’è lavoro, non c’è futuro, non c’è garanzia in alcun campo, in alcun senso, per nessuno.
Dopo ore di monologo a Porta a porta, nel cuore della notte, Berlusconi ha detto ai suoi interlocutori stremati: «Ah se potessi andare a dire queste cose in televisione». Che si confronti una buona volta con Prodi secondo regole di normale civiltà democratica. E poi voltiamo pagina.
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