Se nella campagna elettorale si fosse parlato dell'essenziale - della legalità tenuta in spregio da anni, del conflitto d'interessi, della legge che in Italia non ha più maestà - forse non ci sarebbe stato il caos che abbiamo visto l’altra notte quando si è trattato di nominare il presidente del Senato. Non ci sarebbe stato questo nuovo manifestarsi d'un tumore che affligge gran parte della classe politica, che non accenna a mitigarsi nonostante la sconfitta di Berlusconi, e che può esser riassunto nelle seguenti malformazioni: il prevalere dell'interesse particolare o personale su quello collettivo, il primato dell'emozione vendicativa sulla valutazione razionale dell'utile per l'Italia, la sistematica preferenza data alla divisione, al disfacimento di quel che si potrebbe fare, al ricatto, al voto di scambio, all'avvertimento che promette e non promette, insinua e impaura.
Adesso Marini è stato eletto presidente e Prodi ha l'inconfutabile diritto a governare con il sostegno di ambedue le camere, ma i miasmi delle ultime ore converrà tenerseli accanto come ammonimenti, per capire quel che sta davanti al futuro governo e agli italiani. In particolare converrà avere accanto il ricordo di come Andreotti, candidandosi, ha contribuito a tale inquinamento. A partire dal momento in cui su suggerimento di Berlusconi è sceso in campo per contrastare la candidatura di Marini, a partire dal momento in cui s'è ostinato a restare in gara pur essendosi accorto che l'imparziale spirito d'unità che pretendeva incarnare era una menzogna, si poteva infatti prevedere la massima confusione. Diabolus, che vuol dire divisore, è lo spirito maligno che imprigiona l'Italia politica e non stupisce che questo sia il nome attribuito al senatore: Belzebù. Se nella campagna elettorale si fosse parlato di legalità da restaurare non ci sarebbe stato spazio per un rientro di Andreotti all'insegna di questo epiteto, e per quel che s'è accompagnato a tale rientro: i voti sbagliati per Marini denominati pizzini, il vocabolario della mafia che entra in Parlamento e l'infanga, le parole eversive dette dall'ex maggioranza contro Scalfaro.
Quest'ultima avventura di Andreotti resta come una ferita, uno sgarro. Una ferita che oscura le non poche sue condotte benefiche, e anche integre: la battaglia per l’Europa, la scelta di difendersi nei processi e non contro i processi. Ha detto il senatore che voleva apparire come uomo sopra le parti, un tipico esponente del centro che rifiuta l'aspro conflitto bipolare: ma come tale non si è comportato, seminando piuttosto divisione. La nozione stessa di centrismo esce devastata dall'esperienza, perché ancora una volta ad affiorare è stato l'estremismo del centro, che si dilania sulle persone avendo perso cognizione del conflitto di idee. Da questo punto di vista è più super partes Bertinotti, che alla Camera non ha esitato a dire: «Sono un uomo di parte che per questo motivo, però, non teme il conflitto. (....) Ma non bisogna lasciar scivolare la politica nella coppia amico-nemico».
Altri dicono più verosimilmente che Andreotti voleva levarsi un sassolino dalla scarpa (nel frattempo se n'è tolti tanti, troppi: fin da quando si augurò, nell'agosto 2005: «Meglio sarebbe che Violante e Caselli non fossero mai esistiti». O quando equiparò il proprio processo al calvario di Gesù), e ha fallito prestandosi a un'impresa disgregante anziché unitaria. Quest'idea di adoperare la politica per levarsi sassolini, strappar poltrone, è un'usanza che rischia di fare tanti più proseliti, quanto più viene considerata normale. Quando Andreotti sostiene che il potere logora chi non ce l'ha, è a quest'usanza che sembra pensare. È la convinzione che il politico sia autentico solo se è costantemente ai comandi e non, come in Plutarco, «governante per breve tempo, e governato per tutta la vita». Una convinzione non fugata dalla vittoria di Prodi.
È l'usanza di chi nella politica vede un mezzo per propri calcoli o rivincite e neppure sa cosa sia, dare uno scopo a sé e anche alla pòlis. Il sassolino di cui Andreotti voleva disfarsi è un macigno, ed è gravissimo che nessuno glielo abbia fatto capire, a cominciare dalle gerarchie ecclesiastiche. La giustizia lo ha assolto solo in apparenza, perché nella motivazione della sentenza la sua contiguità con la mafia fino all'80 è attestata: se non ha pagato per questo reato è perché esso fu prescritto, non perché non fu commesso. I giudici d'appello hanno emesso a Palermo una chiara sentenza nel 2003, resa definitiva dalla Cassazione nel 2004, quando hanno evocato: «un'autentica, stabile e amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi» fino alla «primavera del 1980». Se la legalità italiana non fosse da tempo e in misura crescente qualcosa di opinabile, Andreotti non avrebbe potuto osare esporsi così, e offrire un pessimo esempio ai politici dei due campi.
Da questa patologia il centro sinistra dovrà prima o poi ripartire, perché essa permette il continuo riemergere di personaggi che con la legalità hanno rapporti distorti: personaggi che Sylos Labini chiama i neomachiavellici, presenti a destra come a sinistra e sempre pronti non a distinguere la politica dalla morale, ma a contrapporre l'una all'altra (Sylos Labini, Ahi serva Italia). La caratteristica di simili personalità è l'indifferenza all'etica pubblica, la disinvoltura con cui minacciano slealtà, mercanteggiano lealtà, usano parlare di gioco politico per dissolvere nella levità dei vocabolari infantili la distruttività. Sono chiamati spesso simpatici per il modo in cui esibiscono la spregiudicatezza come un pennacchio (lo osservava con acutezza Thomas Mann, poco dopo l'ascesa di Mussolini, nel racconto Mario e il Mago: «Quello strano tipo di uomo, che gli italiani chiamano simpatico, confonde singolarmente il giudizio morale con quello estetico»). Altri attributi estetizzanti si sono nel frattempo aggiunti: geniale, coraggioso, intelligente, addirittura intelligentissimo. L'imperturbabilità nelle tempeste è scambiata automaticamente col coraggio, il cinismo è preso per acume: qui fiorisce spesso l'estremismo del centro.
La morale, con tutti questi attributi, non ha rapporto alcuno. La morale del geniale è quella tartufesca di chi ininterrottamente chiede un qualche risarcimento per i sacrifici fatti, una compensazione per la lealtà che in politica si dovrebbe dare gratuitamente. Andreotti abilitato a togliersi sassolini diventa modello, anche se sconfitto: ognuno ritiene di poter rivendicare un indennizzo sotto forma di promozione, in cambio della propria fedeltà. Nel dizionario Battaglia il risarcimento è «la riparazione di danni causati ingiustamente, l'ottenere soddisfazione a seguito di un danno morale, un'offesa, un'ingiustizia». Tutto a questo punto può divenire illecita offesa, danno morale: perdere la maggioranza nel voto, subire indagini, processi: tutti - da Berlusconi a Andreotti - devono esser pacificati con risarcimenti. Se così stanno le cose, son soprattutto le parole ad ammalarsi e a dover esser ripulite. Questa non è la seconda repubblica di cui si parla, né stiamo entrando nella terza. Siamo tuttora immersi nelle escrescenze della prima, che l'hanno appestata.
Stiamo tuttora cercando il gancio che ci riconnetta con l'Italia quando fu davvero coraggiosa: nel Risorgimento, nella Resistenza, nel dopoguerra. Certo siamo in emergenza, e ogni emergenza richiede larghe intese per fronteggiare ingovernabilità e maggioranze esigue. Ma larghe intese su cosa precisamente, su quali requisiti personali, pubblici? Se il terreno comune non ha come base la maestà della legge e la moralità da restaurare, le larghe intese sono un complice patto che perpetua il fango e rende grotteschi i paragoni con la grande coalizione tedesca. Se non si cerca un altro tipo d'accordo, l'insolente distruttività delle ultime ore si ripeterà per l'elezione del Capo dello Stato, e vorrà dire che dalle notti di aprile si è appreso poco. Il centrosinistra potrebbe forse proporre queste intese all'opposizione: su legalità, etica pubblica, imparzialità vera delle nomine. Se Berlusconi e alleati dissentiranno, vorrà dire che ben altro vogliono: non intese ma cosiddetti inciuci. Un vocabolo che dissolve ogni cosa - civile coerenza, divisione tra destra e sinistra - nei miasmi del pateracchio, del pettegolezzo e dell'intrigo.
Per Andreotti questi non sono stati giorni di riscatto, proprio perché da essi si era aspettato non già giustizia ma risarcimento. Questi sono stati giorni in cui la terribile profezia di Aldo Moro, pronunciata in una lettera dalla prigionia brigatista («Lei uscirà dalla Storia e passerà alla triste cronaca che le si addice»), si è in parte avverata e non è stata contraddetta da una vera conoscenza di sé, oltre che delle proprie responsabilità.