Superare oppure abrogare la legge 30, correggerla o lasciarla intatta, come vorrebbero Confindustria e centrodestra? In realtà, se si guarda alla situazione attuale del mondo del lavoro, il quesito appare di limitata rilevanza. Per quattro motivi.
Primo. Oltre tre milioni di persone hanno un´occupazione precaria, nel senso che sanno con certezza che a una certa data si troveranno senza lavoro, ma non sanno affatto se e quando ne troveranno un altro. Circa 2,1 milioni di essi sono lavoratori dipendenti con un contratto a termine.
Un altro milione e passa è formato da varie figure contrattuali atipiche: co.co.co. (che ancora esistono nel pubblico impiego, grande fabbricante di lavoro precario); collaboratori a progetto (come la legge 30 ha rietichettato i co.co.co.); lavoratori in affitto ovvero in somministrazione; persone che svolgono lavori occasionali, apprendisti e altre figure, incluse le partite Iva imposte dal datore di lavoro.
Molti di essi hanno un reddito annuo inferiore alla media, perché tra una occupazione e l´altra non ricevono alcun salario, oppure percepiscono solamente la cosiddetta indennità di disponibilità, che equivale a meno di un terzo del salario medio. A parte la carenza di altre tutele e diritti (sanità, maternità, ferie), la maggior parte di questi lavoratori va incontro a una pensione miseranda, dell´ordine del 30 per cento o meno di un salario medio.
Secondo. Almeno altri tre milioni di persone lavorano in nero. Per circa la metà si tratta di persone fisiche, che lavorano regolarmente in una situazione del tutto irregolare. L´altra metà è formata dalle cosiddette "unità di lavoro assimilate": cinque milioni di persone che svolgono, a tempo parziale ma sempre in nero, una massa di secondi e terzi lavori equivalenti ad almeno un milione e mezzo di lavoratori a tempo pieno. Una parte di coloro che lavorano in nero lo fanno sicuramente per convenienza. Ma una parte rilevante lo fa perché questo è il lavoro che propongono le aziende, piccole e grandi, oppure perché dinanzi all´offerta di retribuzioni che sono sì regolate da un contratto, e però non superano i cinque euro l´ora, l´interessato preferisce riceverne dieci in nero.
Terzo. I salari italiani sono i più bassi tra i grandi Paesi dell´Unione europea. Inoltre, diversamente da quanto è avvenuto in Francia, Germania e Regno Unito, essi sono quasi fermi, in termini reali, da una decina d´anni. Alla stagnazione dei salari in Italia hanno concorso parecchi fattori, il principale dei quali è la scarsa produttività del lavoro. A sua volta ciò è dovuto al limitato contenuto tecnologico della produzione, ma in misura non minore a un´organizzazione del lavoro che fu concepita in passato, ma è tuttora dominante nelle aziende. Essa è caratterizzata dall´intento di non utilizzare qualifiche professionali elevate, e meno che mai è idonea a sollecitare o a lasciare spazi sul lavoro per forme diffuse di formazione permanente.
Quarto. Le aziende in difficoltà tendono a licenziare, mettere in mobilità lunga o avviare al prepensionamento soprattutto i lavoratori e le lavoratrici quarantenni. Al tempo stesso le aziende in sviluppo preferiscono non assumerli. I giovani, si sa, costano meno e sono freschi di studi. Chiunque abbia superato i quarant´anni è oggi consapevole che ai primi segni di crisi il suo posto di lavoro è a rischio, e che in caso di licenziamento sarà molto difficile trovarne un altro di pari livello professionale e a parità di retribuzione. L´allungamento in atto dell´età pensionabile rende particolarmente critica la condizione di tale fascia delle forze di lavoro.
Allo scopo di porre riparo a una simile situazione occorre una legge sul lavoro di vasto respiro. Più probabilmente, un complesso di leggi tra loro correlate. Gli obiettivi dovrebbero essere molteplici: ridare visibilmente centralità al lavoro produttivo; semplificare drasticamente la presente giungla contrattuale tanto nel privato che nel pubblico impiego; regolare attivamente i passaggi dal bacino dei contratti a tempo determinato, che possono continuare a svolgere funzioni utili per le persone come per le aziende, al bacino del tempo indeterminato, in modo da evitare la trappola della precarietà senza fine; favorire il passaggio dal bacino del lavoro nero ai due bacini del lavoro regolare, senza ignorare gli stretti legami che esistono tra economia formale ed economia informale; sviluppare, per mezzo di adeguati incentivi a nuovi tipi di organizzazione del lavoro, la formazione continua per tutto l´arco della vita attiva. Un processo, questo, indispensabile per assicurare alle aziende personale provvisto di elevate competenze professionali e organizzative, e al tempo stesso per evitare che i quarantenni si sentano dire, da un giorno all´altro, che sono diventati tecnologicamente obsoleti.
Il nuovo governo è dunque dinanzi a un compito grande e oneroso, da svolgere mediante la necessaria discussione con le parti sociali. Nel corso della quale le eventuali modificazioni del decreto attuativo della legge 30 apparirebbero, è dato presumere, come le naturali e circoscritte conseguenze di un disegno sostanzialmente più ampio.
In vista di un tale disegno meritano attenzione le proposte avanzate di recente da lavoce.info. Anch´esse partono dalla necessità di riformare la legge 30, ma, pur nella varietà delle posizioni, vanno molto al di là di essa. Riconoscono l´importanza di estendere a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica la protezione offerta dal diritto del lavoro. Prevedono la costruzione di sentieri verso la stabilità dell´occupazione, fondata su un rapporto di lavoro unico a tempo indeterminato. Prospettano una limitazione dell´uso e della ripetibilità dei contratti a tempo determinato, mirata principalmente a fare di essi meccanismi davvero efficaci di accumulazione di esperienze professionali da parte delle persone e di verifica delle competenze dei neo-assunti da parte delle aziende.
Queste proposte non toccano, peraltro, il problema dei problemi, ossia il fatto che il mercato del lavoro italiano è non solo bipartito, bensì tripartito. Accanto alle due quote visibili dei lavoratori che sono regolarmente protetti e di quelli non protetti, esiste infatti la quota dei lavoratori invisibili, gli irregolari, che è di gran lunga la più alta registrata nei Paesi sviluppati. Se si può definire basso il grado di protezione dei lavoratori atipici, quello degli irregolari è sicuramente sotto zero. Non si può certo ignorare che su questo fronte i governi sono stati finora sconfitti. Ma la causa prima stava nell´errore di concepire il lavoro irregolare come se fosse un fenomeno collaterale, invece che un elemento strettamente intrecciato all´economia contemporanea; visto, tra l´altro, che produce almeno il 15 per cento del Pil.
Per questa ragione una legge complessiva per il lavoro che, insieme con gli altri problemi delineati, non affrontasse in una prospettiva e con metodi innovativi anche la necessità di far passare il maggior numero di persone dal bacino del lavoro irregolare ai bacini del lavoro regolare, porterebbe in sé il germe della propria inefficacia.