IERI, subito dopo il Consiglio dei ministri che ha approvato il disegno di legge in favore della cittadinanza più rapida per gli immigrati e per i loro figli nati in Italia, Romano Prodi ha dichiarato: «L’azione di governo comincia a ingranare e andrà sempre più spedita». Era soddisfatto il nostro premier e credo ne avesse buone ragioni. Certo c’è ancora molto da fare prima che la nave Italia – lasciata dal precedente governo con molte falle nella chiglia e molti guasti nella timoneria – possa raggiungere la velocità di crociera, ma la rotta mi sembra quella buona e ci consente di sperare.
L’appuntamento grosso verrà in autunno con la finanziaria, ma il timoniere è esperto e lo stato di necessità del bilancio e dello sviluppo dovrebbero aiutare e aver la meglio sui dissensi, che sono legittimi e possono contribuire alla formazione di interventi equilibrati, nel rispetto di obiettivi inderogabili per l’interesse generale e compatibili con le attese dell’Europa e dei mercati.
In politica estera la linea Prodi-D’Alema è solida e nitida. Purtroppo le soluzioni per la crisi in Medio Oriente non sono nelle nostre mani, ma dipende anche da noi rafforzare la posizione europea e per quella via esercitare una pressione sulla comunità internazionale nel senso del dialogo e della pace.
Perciò aspettiamo con fiducia, pur non nascondendoci la fragilità di un assetto politico che deve essere ogni giorno sorretto con duttile intelligenza accompagnata da coerente fermezza. Fermezza, coerenza, duttilità. Ma soprattutto tenacia. Mai pensare d’essere all’ultima svolta, mai puntare su una sola carta l’intera posta; mai decidere da soli, mai rinviare le decisioni subendo veti e capricciose impuntature.
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Tutto ciò premesso permangono tuttavia alcuni motivi di disagio non marginale che hanno natura etico-politica.
Per dire che non riguardano il piccolo cabotaggio politichese, ma mettono in gioco ragioni profonde e una concezione della politica che ponga in discussione i sentimenti di appartenenza e le ragioni ideali che motivano il voto per una anziché per l’altra delle parti politiche contendenti.
Su questi motivi di disagio bisogna essere molto chiari. Ci sono domande da fare, questioni da discutere, risposte da esigere. Con onestà di intenzioni. Al di fuori delle ipocrisie, delle mezze verità e del tirare a campare.
In un rapporto sincero con la pubblica opinione democratica, strumento prezioso di supporto e di controllo dell’azione politica e delle sue motivazioni ideali.
La prima questione – ai miei occhi quella fondamentale – riguarda il modo di concepire lo Stato come entità ben distinta dal governo. E quindi la qualità della legislazione e dell’amministrazione, i rapporti tra le forze politiche e le istituzioni, il tema della continuità e della discontinuità. La moralità pubblica. L’efficienza. La legalità. La politica delle poltrone.
Il costituendo partito democratico, per la cui nascita si cercano le ragioni necessarie, ha in questo gruppo di problemi la sua motivazione. Ciò che lo rende indispensabile. Senza di che sarebbe una pura invenzione fatta a tavolino, senz’anima e senza quindi alcun reale consenso.
La storia politica dell’Italia gira da molto tempo intorno a questa questione. La debolezza del riformismo è dovuta alla mancata risposta alle domande che abbiamo indicato. La mala pianta del trasformismo rappresenta la controprova delle soluzioni mancate. La stessa fragilità della vittoria elettorale del centrosinistra si deve interamente a questa lacuna. La trappola della pessima legge elettorale con la quale si è dovuto votare ha certamente contribuito a quella fragilità, ma non ne è la vera causa. La vera causa, la causa prima, sta nell’assenza d’una concezione dello Stato e delle istituzioni. Questo avrebbe fatto la differenza tra una destra populista e demagogica e una sinistra democratica e innovatrice.
Se esiste il problema di rafforzare la sinistra in corso d’opera – e dio sa se esiste – quel rafforzamento sarà realizzabile solo facendo emergere nella nuova legislazione e nella nuova amministrazione quella differenza di fondo che con una definizione di scuola si chiama lo stato di diritto, senza il quale il sostantivo democrazia e l’aggettivo democratico non sono che parole vuote, gusci vuoti, castelli di carta esposti ad ogni vento e ad ogni fulmine. Il potere si riduce a sopravvivenza, furberia, corruttela diffusa. Durare per durare. Questo è il peggior andreottismo nelle sue forme minimaliste. E il peggior berlusconismo nelle sue forme roboanti e mediatiche. La peggiore continuità della storia italiana cui fa riscontro simmetrico la retorica massimalista dell’estremismo e la vocazione infantile della pura testimonianza.
La politica non è testimonianza e tantomeno immondezzaio. È scelta di obiettivi, tenacia e fatica per realizzarli, intelligenza e capacità di spiegarli.
Educazione civica da dare quotidianamente con l’esempio.
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La politica delle poltrone, o meglio la politica delle spoglie: ecco una frase che il centrosinistra non dovrebbe né pensare né tantomeno praticare perché è esattamente l’opposto di una concezione democratica dello stato di diritto.
Non dovrebbe esistere una politica delle spoglie. Non dovrebbero esistere i tecnici di area. Non dovrebbero esistere cariche da affidare a candidati sconfitti alle elezioni o ricompense da attribuire a chi fa mostra d’aver indossato i colori della maggioranza di turno o il vessillo del duca e del conte più potenti in un sistema feudale e pre-moderno.
Si parla di modernizzare il paese e lo Stato. In realtà se ne parla da quando questo Stato esiste. Cominciarono a discuterne ai tempi loro Marco Minghetti e Silvio Spaventa. Nientemeno.
Adesso l’accento della modernizzazione è stato messo sulla liberalizzazione dei mercati. Con ragione, perché le forme di oligopolio deformano il mercato, ne rendono difficile l’accesso, premiano le rendite di posizione.
Ma la liberalizzazione dei mercati è solo uno degli aspetti d’una questione molto più vasta perché in un’economia moderna e complessa i punti d’interferenza e le intersecazioni tra potere pubblico e imprenditoria privata sono innumerevoli, inevitabili e perfino necessari per configurare un progetto-paese che orienti, coordini, apra la strada alle innovazioni, alle tecnologie, agli investimenti, alla competitività, alla concorrenza.
Se le istituzioni preposte a questi compiti sono considerate luoghi dove si annida il potere dei partiti, se le "lobbies" alzano il vessillo di questo o di quello, la liberalizzazione dei mercati sarà puramente nominale, le partite saranno sempre truccate come le partite di calcio di Calciopoli.
Le rappresentanze sindacali e sociali dovrebbero essere più interessate alla piena realizzazione dello stato di diritto; troppo spesso invece si iscrivono anch’esse tra le "lobbies" sia pur legittime. Dovrebbero stare molto attente e non sporcarsi anche loro con la politica delle spoglie.
Per non parlare dei partiti, ai quali dovrebbe esser vietato per principio di esprimere, sostenere, impicciarsi di candidature ad enti, banche, imprese concessionarie di pubblici servizi.
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Farò tre soli esempi di questa politica delle spoglie che considero quanto mai nefasta poiché è l’esatto contrario di uno stato di diritto e quindi d’una forte e giusta democrazia.
Il primo esempio riguarda gli organi dirigenti della Rai, società concessionaria d’un pubblico servizio e interamente posseduta dal ministero del Tesoro.
L’attuale consiglio d’amministrazione della Rai, nominato dal precedente governo, è l’esempio peggiore di lottizzazione partitocratica mai visto fino ad oggi. Faccio salva la qualità delle persone che non è eccelsa ma neppure infima. Il punto non è questo, ma la provenienza e quindi la rappresentanza politica che ciascuno dei consiglieri porta con sé, l’intervento diretto delle segreterie di partito e degli apparati di corrente sui quali si sono pedissequamente appiattiti i presidenti delle Camere di allora.
Che cosa ci si aspettava dal nuovo governo? E che cosa ancora ci si aspetta? Che l’attuale consiglio sia rimosso e sostituito non già col criterio del manuale Cencelli perché in tal caso avremmo solo la sostituzione d’una maggioranza con un’altra, bensì col criterio della competenza e dell’indipendenza da fazioni e interessi. Si obietta: la tessera di partito diventa dunque un impedimento? Per cariche di questo genere sì, deve diventare un impedimento.
Può darsi che a termine di legge non si possa costringere il consiglio a dimettersi anzitempo. Non lo so. Ma in tal caso si crei una Fondazione, si passi ad essa il possesso delle azioni della Rai creando in tal modo una novazione strutturale e si affidi ad essa la nomina dei nuovi consiglieri.
Questo ci si aspettava e questo ci si aspetta. Ma non si ha sentore che il governo si stia mettendo su questa strada. Ne saremmo rassicurati se ciò fosse.
Il secondo esempio riguarda Francesco Cognetti, medico e scienziato di fama europea, direttore scientifico dell’istituto Regina Elena di Roma. Da lui portato a punti di eccellenza competitivi con le maggiori istituzioni sanitarie italiane e internazionali.
Sulla base del criterio delle spoglie il ministro della Salute Livia Turco ha decretato la sua sostituzione con altra persona, scientificamente accettabile, ricercatrice ma non medico. Senza valutare i risultati oggettivi e le qualità scientifiche e mediche di Cognetti.
Nonostante che gran parte dei primari del Regina Elena abbiano inviato al ministro una lettera in favore del direttore scientifico e nonostante che molte personalità abbiano fatto altrettanto a cominciare dalla Rita Levi Montalcini, premio Nobel e senatore a vita.
Il ministro della Salute (e il presidente della Regione) dovrebbero quantomeno dare pubblica motivazione di questo provvedimento che suscita profonde perplessità nella pubblica opinione e non giova certo al prestigio del ministro e meno che mai alla persona subentrata nell’incarico.
Infine il terzo esempio altrettanto rivelatore d’una prassi che non esito a definire pessima. C’è da nominare il presidente della Ferrovie. Padoa-Schioppa, d’accordo con Prodi, offre l’incarico a Fabiano Fabiani, attuale presidente dell’Acea e già presidente per molti anni di Finmeccanica. Un manager di tutto rispetto. Non iscritto a nessun partito.
Fabiani viene interpellato. Si riserva di rispondere. Poi invia una lettera al ministro dell’Economia dove pone una sola condizione: che i consigli d’amministrazione delle società controllate dalle Ferrovie siano nominati dal presidente e dall’amministratore delegato della holding senza alcuna interferenza politica e che i predetti consiglieri, se di provenienza da altre cariche delle Ferrovie, riversino alla holding gli emolumenti di spettanza. Aggiunge che per quanto lo riguarda non vorrà alcun emolumento come già accade per lui all’Acea.
Il vicepresidente del Consiglio, Francesco Rutelli, si oppone alla nomina. Prodi gli chiede una rosa di candidati. Rutelli fornisce la rosa. Si aspettano decisioni. Fabiani si è ritirato e resta dov’è (credo che in cuor suo ne sia ben contento). Ma il senso di quanto è accaduto è molto chiaro: Fabiani è stato escluso non per appartenenza politica non gradita, ma per non appartenenza e per desiderio di immettere nelle società controllate amministratori «non appartenenti». Come dovrebbe essere.
Mi permetto di fare una critica al ministro dell’Economia, che stimo molto e di cui sono amico di vecchia data. Se la nomina del presidente delle Ferrovie è di sua spettanza, sia pure concertando col presidente e con i vicepresidenti del Consiglio, dopo il concerto proceda alla nomina se è convinto della sua scelta. Debbo dire: Tremonti ha sempre fatto così, anche in aperto e pubblico dissenso con Fini. Tra le tante pessime cose di cui è responsabile, questa gli va riconosciuta come merito anche perché spesso le sue scelte erano pienamente accettabili.
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Sarebbe motivo di vera speranza e conforto se il governo imboccasse questa buona strada per modernizzare lo Stato e liberare le istituzioni. Ho già detto: aspettiamo con fiducia. Ma presto. Il buongiorno infatti si vede dal mattino. Anche quello