Se Benedetto XVI avesse citato non solo la frase insultante pronunciata dall’imperatore bizantino su Maometto, martedì nella prolusione all’università di Regensburg, ma avesse raccontato come andò l’intero dialogo fra Manuele II Paleologo e il dotto persiano che avvenne una notte d’inverno del 1390-1 o 1391-2, tutto oggi sarebbe un po’ più chiaro, più complicato e forse anche un po’ più triste. Sarebbe più chiaro perché conosceremmo le argomentazioni del Mudarris, il professore teologo musulmano che davanti all’imperatore di Bisanzio difende l’Islam con forza e precisa convinzione. Sarebbe più complicato, perché il dissidio non riguarda tanto la ragione quanto l’essenza della fede, la sua vocazione a sperare, legiferare. Saremmo più tristi, perché in quella notte del XIV secolo il dialogo è una pratica normale, mentre nel secolo nostro non esiste. In quella notte c’è ascolto, voglia d’apprendere, immensa curiosità di conoscere le ragioni dell’altro e di fare in modo che la propria fede prevalga razionalmente anche se molti suoi tratti non sono razionali. Oggi quel dialogo è completamente assente. Se tutti ne parlano, se tanti l’invocano come un valore fine a se stesso che implica nei cristiani dissimulazione della propria identità, è perché tra i due monoteismi il baratro è enorme. Il basileus bizantino non deve scusarsi, il Papa sì.
La lettura dell’intero dialogo fra Manuele e il Persiano ci mostra innanzitutto una cosa: che non sono affatto il logos e l’Ellade a dividere il mondo cristiano dal musulmano. Rifacendosi alla filosofia greca, Manuele denuncia la propagazione delle fede attraverso la spada, vedendo nella guerra santa o jihad non solo un abito «malvagio e disumano» ma un’«assurdità non conforme a ragione», dunque sgradita a Dio «che non si compiace nel sangue». Il Persiano gli risponde che la vera ragionevolezza sta dalla propria parte, essendo l’Islam fondato su moderazione e praticabilità, su misura (métron) e giusto mezzo (mesòtes): categorie aristoteliche centrali. Ambedue sono immersi nella cultura greca. Ambedue si sforzano di poggiare argomentazioni e precetti sulla ragione e su una ragionevolezza «abbordabile». Il disquisire dei conversanti è logico, e in alcuni punti talmente sillogistico da apparire sofistico.
Quel che veramente li divide è in realtà qualcos’altro. Non è la fiducia o non fiducia nella ragione (il dialogo si conclude con la comune constatazione che «la Misura è la migliore delle cose»), ma sono i diversi modi di vivere le leggi, i folli paradossi insiti nella fede e nell’attesa. E la maggior follia non è quella dell’Islam ma del cristiano. Il basileus-imperatore bizantino lo riconosce d’altronde apertamente: in fondo è vero quel che il Persiano rimprovera al credo di Cristo - la sua follia, la non ragionevolezza, la «dismisura», il contraddirsi tormentoso tra poter essere e dover essere. Quel che fin d’allora stupisce più i musulmani - compresi i messianici sciiti - è proprio questa follia cristiana: il credere l’incredibile, il tendere smisuratamente l’anima verso l’alto, il non compromesso con le cose del mondo. Ed è l’insegnamento centrale del Cristo: l’amare il proprio nemico, il porgere l’altra guancia, oltre al disfarsi d’ogni ricchezza e al precetto che ingiunge, se si vuol esser discepoli, di «odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria psyche, la propria anima» (Luca 14, 26): «Qual è l’uomo di ferro, di diamante, più insensibile della pietra - così il Persiano - che sopporterà queste cose?».
Manuele Paleologo non dissimula, non sminuisce: è vero che il cristianesimo mostra al credente una strada infinitamente più difficile, come deplorato dal musulmano. Una strada «dura, esagerata, eccessiva», dunque «impraticabile» (la parola greca abatos impiegata dal Persiano è la via che non si può camminare, l’inattraversabile). Impregnato anch’egli di pensiero ellenico, il dotto musulmano cita la «dottrina degli Antichi» e critica una via, quella cristiana, «contraria alla ragione», «pari a una trappola», «fardello violento» (per esempio sulla verginità). Una via «che in un certo modo forza la nostra natura terrestre a montare verso il cielo». Che raccomanda «cose impossibili, disumane».
Il basileus bizantino non nega tutto questo, abbiamo visto. Sì, la via cristiana comporta - quando è perfetta - una scelta deliberata di «soffrire cose penose, quale che sia la loro qualità e quantità»; di «sopportare con mitezza chiunque ci calpesti»; di «percorrere vie dolorose perché ogni strada in salita lo è». Il basileus non nega neppure che ci sia follia, nella religione della croce. Quest’ultima spiritualizza leggi che nell’Islam sono rigide, troppo semplificate e abbordabili, «copiate dalle sorpassate leggi di Mosè». Ma la follia cristiana ha un possente lievito curativo, come contrappeso: l’illimitata speranza, questa follia che guarisce dalla follia. Ha la speranza-certezza che l’incredibile diventi credibile, che l’insperabile sia sperabile, che i frutti della virtù si rivelino dolci pur essendo la loro radice amara. Questo il paradosso che distingue il cristiano: l’attesa di quel che verrà, la promessa del regno celeste, il presagire un futuro non visto ma sentito vicino. Per il Paleologo è vicinissimo, come lo era per Giovanni. Manuele dice: oggi l’aldilà è ineffabile ma «nel secolo a venire» sarà visibile. Gesù confida a Giovanni, in Apocalisse 22, 20: «Sì, verrò presto».
Questa speranza ineffabile e però vicinissima oggi manca, nel cristianesimo. Di speranza si parla anzi poco, come scrive Luciano Manicardi, monaco di Bose, in un bellissimo saggio che uscirà a settembre ne «La rivista del clero italiano»: questa è epoca di «passioni tristi, narcisiste», che ha perso interesse nel futuro, che non prendendo tempo per pensarlo impoverisce il rapporto stesso col tempo. Eppure proprio questo è sperare: «dar forma al tempo». La ragione fatica a combinarsi con lo sperare, e il Persiano non ha torto quando osserva che «vivere con simili speranze non permette di mantenere la misura» ed evitare il peccato d’orgoglio. Se include le domande religiose sull’essere e sul perché esistiamo, la ragione si rimetterà a cercare: in questo il Papa nuota nel profondo e alla ragione apre più vasti spazi. È la follia dell’attesa che nel suo discorso non c’è. Non c’è l’ossimoro che è la speranza nell’insperabile. Non c’è neanche il riconoscimento che jihad è sforzo individuale oltre che guerra: sforzo non diverso dal combattimento spirituale (agone pneumatico) che il Paleologo esalta come cristiano. Questo è segno di intristimento, ma ancor più triste è la sordità dell’Islam alle parole cristiane, e a ogni alterità. La forza del persiano nel dialogo del ’300 è nell’ascolto, ed è una forza che oggi l’Islam non ha. Non è capace di dialogo e di esame della propria storia religiosa perché è come se avesse perso se stesso, e la scelta del Papa di parlare con massima franchezza (è un’altra virtù greca: la parresia) sarà «tragica e pericolosa» come scrive il New York Times, sarà più professorale che politica come dicono alcuni, ma ha la nobiltà politica dell’impolitica, della profezia. La collera nell’Islam nel mondo è diffusa ma esistono anche voci dissenzienti. Il capo della comunità musulmana in Germania, Aiman Mazyek, non scorge attacchi: le parole pontificali contro la violenza sono indirizzate non alla religione, ma a chi trasforma l’Islam in ideologia estremista. «Sono piuttosto un’incitazione a esercitare con più forza l’autocritica nelle nostre comunità», e a «mettere più apertamente in discussione il nichilismo infiltratosi nell’Islam» (Süddeutsche Zeitung, 14-9). In realtà l’Islam è meno forte di quanto sembri credere il Papa stesso in alcuni momenti. In realtà il vuoto lo minaccia.
Proprio questo svuotamento può tuttavia dischiudere porte, inaspettatamente. In un nitido testo pubblicato il 15 settembre sul Corriere, la scrittrice Azar Nafisi (Leggere Lolita a Teheran) dice: «Vivere nel vuoto (accade nell’Iran del dopo-Khomeini, ndr) è molto meglio che sentirsi intrappolati da ideologie prefabbricate». Vivere nel vuoto - o come scrive Manicardi: nella disillusione, disperazione - apre a quel che Nafisi chiama «l’emergere d’un nuovo linguaggio». Il linguaggio della società aperta, che presuppone in ciascun individuo la coesistenza di molteplici identità: civili, estetiche, etiche, religiose (fra esse l’identità creata dall’arte: «L’arte consente di vivere molte vite», spiega a Nafisi il regista Mohsen Makhmalaf, che a forza di filmare e guardare ha abbandonato il fondamentalismo). Solo la laicità dà questa possibilità, e quando non è convinzione esclusiva ma metodo inclusivo rende obsolete definizioni riduttive come civiltà islamica, o buddhista, o cristiana. È la debolezza e non la potenza dei monoteismi che schiaccia nazioni e cittadini sulla sola appartenenza religiosa, trasformandola in unico cemento politico. Fare il vuoto perché emerga un nuovo linguaggio non esclude il conflitto, non inibisce l’affermazione della propria fede, non è neppure nichilismo: è l’inizio del dialogo, quello vero.