«L’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie».
il manifesto, 7 maggio 2017 (c.m.c.)
Nonostante la pioggia battente un fiume di persone ha percorso, ancora una volta, le strade della Val Susa per dire No al Tav e alle altre grandi opere che devastano il paese. Un fiume colorato, vivace e combattivo, di oltre quindicimila persone provenienti da ogni parte d’Italia e non solo. Davanti a tutti le mamme della Terra dei fuochi e una rappresentanza di terremotati di Amatrice. E uno slogan scritto su cento striscioni e ritmato lungo tutto il corteo: «Contro la Torino-Lione c’eravamo, ci siamo e ci saremo!».
I siti dei grandi giornali – almeno mentre scrivo – ignorano un evento di cui avevano anticipato il probabile insuccesso, evocando divisioni e disaffezione e amplificando le polemiche della destra e del Pd per la partecipazione del vicesindaco di Torino. Invece è stato, ancora una volta, un esempio di democrazia. Da parte di un movimento che da venticinque anni tiene aperta la partita ed è più che mai determinato a vincerla con gli strumenti della politica, della parola, degli argomenti, della ragione. Ma la manifestazione dice qualcosa di più. La consapevolezza che la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è un’opera devastante, di grande impatto ambientale, di conclamata inutilità trasportistica, insostenibile in termini di spesa e decisa in modo autoritario apre la strada a una consapevolezza ulteriore.
Quella secondo cui lo scontro in atto in Val Susa è prima di tutto una grande questione di democrazia. Perché l’esclusione delle popolazioni interessate dai processi decisionali è una costante di tutte le grandi opere e svela l’involuzione neocoloniale delle democrazie, aggravata dalla delega agli apparati (polizia, magistratura e, addirittura, esercito) della gestione delle più rilevanti questioni politiche.
Si spiega così la durata e l’ampiezza della partecipazione, che è anche una forma di resistenza contro la violazione di diritti fondamentali delle persone e delle comunità. Una violazione che non può essere legittimata da un voto di maggioranza. Perché – come ha scritto Gustavo Zagrebelsky – «nessuna votazione, in democrazia chiude definitivamente una partita. La massima: vox populi, vox dei è soltanto la legittimazione della violenza che i più esercitano sui meno numerosi. Questa sarebbe semmai democrazia assolutistica o terroristica, non democrazia basata sulla libertà di tutti».
È una lezione che dovrebbe essere meditata da quel che resta di una sinistra troppo spesso interessata alle questioni istituzionali più che alle dinamiche reali e profonde del paese.