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Claudia Cernigoi
Operazione foibe a Trieste
27 Febbraio 2005
Italiani brava gente
Le foibe: cavità carsiche riempite da migliaia di cadaveri italiani gettati, vivi o uccisi, dagli slavi comunisti. Così gran parte dell’opinione pubblica, di destra (ovviamente, e da sempre) e di sinistra (per negare oggi il proprio essere stati “diversi”, e per giustificare la propria ignoranza). Non fu così. Lo testimonia questo scritto documentato e rigoroso, di cui inserisco ampi stralci e, in appendice, il link al testo integrale.

Claudia Cernigoi, Operazione foibe a Trieste, Edizioni Kappa Vu, Udine 1997

Il libro è integralmente pubblicato in formato digitale nel sito http://www.cnj.it/foibeatrieste/, "per renderne accessibile la preziosa documentazione in seguito all'esaurimento di tutte le copie disponibili".

PREFAZIONE

Credo che il lavoro di Claudia Cernigoi sia una specie di lezione per la categoria di persone che si occupano professionalmente di storia, alla quale appartengo, che tanto scarsa prova di se hanno dato nell’affrontare la questione delle foibe. Mentre infatti paleo e neo revisionisti e fascisti, largamente finanziati da privati e istituzioni pubbliche, inviano i loro libercoli propagandistici a magistrati e scuole, dove poi vengono invitati - per ignoranza o peggio - a tener lezione sul “genocidio di italiani della Venezia Giulia”, gli storici professionisti “democratici.. (salvo rare e perciò ancor più apprezzabili eccezioni, che peraltro non trovano spazio sugli stessi media che ne offrono in abbondanza a Pirina & C.) non si degnano di affrontare seriamente la questione per mettere fine alle strumentalizzazioni, ma si dedicano, nel migliore dei casi, a girare attorno all’argomento e a dotte riflessioni su giornali e TV che generalmente giungono a

una conclusione comune: quanto fossero cattivi i comunisti, e gli “slavocomunisti” in particolare, e come le masse combinino orrori quando si muovono per modificare a proprio favore equilibri sociali ormai insopportabili. E nel fare tutto questo si danno sostanzialmente per buone cifre e tesi presentate dai revisionisti, limitandosi a formulare ipotesi sulle motivazioni dei presunti “massacri”.

Ma come biasimare gli storici “democratici”, se poi a scatenare l’ultima campagna propagandistica sulle foibe a livello nazionale è stata la “sinistra democratica” ora al governo! Essi in realtà non fanno che adeguarsi (con maggiore o minore convinzione) al clima della “pacificazione nazionale” (che partendo dalla comprensione per i fascisti arriva a farne dei martiri dell’”italianità”), finalizzata al ricompattamento politico della borghesia italiana e a fornire un supporto ideologico alla nascente Seconda Repubblica e alle sue mire da potenza regionale. Indirizzandosi queste mire in primo luogo verso obiettivi tradizionali, come l’Albania e le regioni confinarie slovene e croate, ecco rimessi in campo anche gli altrettanto tradizionali strumenti propagandistici e di pressione su Slovenia e Croazia, da sempre inscindibilmente legati tra loro: foibe ed esodo. E non si può non accorgersi di come le campagne stampa su questi temi preparino il terreno, con l’aizzamento dell’odio nazionale, a un eventuale energico intervento di “riparazione dei torti subiti”.

Il lavoro di Cernigoi, anche se affronta la questione foibe nel solo territorio della provincia di Trieste, era quindi più che necessario. L’autrice non nega la realtà delle foibe, né gli eccessi e le vendette personali, ma attraverso una ricerca rigorosa riporta il fenomeno fuori dal mito, presentandoci sull’argomento un lavoro agile, ma organico e completo. I risultati immediati del lavoro (presentato già in parte sul periodico La Nuova Alabarda) sono tutt’altro che disprezzabili (tenuto conto poi del fatto che i media locali ne hanno costantemente taciuto) avendo infatti costretto Pirina a ritirare “spontaneamente”dal commercio il suo “Genocidio” per correggerne gli “errori”. Ma è stata anche messa in serissimo dubbio l‘esistenza di infoibati in quella che è la foiba-simbolo di Trieste, quella di Basovizza (lo Šoht), dichiarata monumento nazionale non molti anni fa e sulla quale si svolgono ogni anno celebrazioni, alle quali partecipano autorità e picchetti d’onore militari.

I meriti maggiori del libro sono però due: l’aver affrontato la questione di chi e quanti fossero gli infoibati nella zona di Trieste e la ricostruzione, breve ma esaustiva, della storia dell’utilizzo propagandistico delle foibe. Il curriculum di squadristi, aguzzini, spie e altro, nonché la presenza tra gli uccisi di diversi sloveni, smentisce nel modo migliore la tesi degli infoibati uccisi solo in quanto italiani e chiarisce i veri motivi del fenomeno foibe.

Per quel che riguarda il numero degli infoibati si tratta di ristabilire semplicemente la verità storica - quella di un fenomeno limitato – di fronte alle cifre iperboliche letteralmente inventate dagli ambienti nazionalisti e (neo)fascisti.

La ricostruzione delle vicende dell’uso propagandistico del tema foibe dimostra come la cosa venga da lontano e come quella intorno alle foibe sia stata, e sia tuttora, una operazione di vera e propria “dezinformacija”, di guerra propagandistica, e lascia intravedere, per gli ambienti in essa coinvolti (X Mas), collegamenti con altre operazioni (per es. Gladio). E risulta molto più plausibile anche l’ipotesi che la costante riproposizione delle sparate propagandistiche sulle foibe faccia parte di un progetto politico molto più ampio (comprendente per esempio l’insediamento massiccio di esuli a Trieste) per mantenere alta la tensione nazionale in queste terre di confine.

Ed è proprio a partire da questo ultimo tema, che indica prospettive di ricerca tutte da percorrere, che vorrei fare alcune considerazioni generali più ampie. Contro il revisionismo, ormai divenuto dottrina semi-ufficiale anche della sinistra di governo, non serve a mio avviso cercare di difendersi, come fanno parte degli ex comunisti locali sulla questione delle foibe, vantando meriti patriottici e scaricando le presunte responsabilità sui comunisti sloveni e croati, facendo così il gioco di chi vuole ridurre tutto a contrapposizione nazionale, A mio avviso la sfida del revisionismo va accettata ritorcendogli contro i suoi stessi argomenti, come ha fatto l’autrice di questo libro, e abbandonando l’impostazione oleografica della Resistenza. La Resistenza non è stata infatti solamente lotta di liberazione nazionale, ma anche lotta per il potere da parte della classe operaia e delle altre classi subalterne.

Nella Resistenza c’era chi lottava per questi obiettivi e chi (per sua stessa ammissione) c’era entrato per impedire che tali obiettivi si realizzassero, se necessario anche con le armi e con l’aiuto dei fascisti, e riconsegnare il potere nelle mani di quella borghesia che il fascismo lo aveva finanziato e messo al potere. Come dimostra anche la vicenda delle foibe, i connubi con i fascisti sono continuati anche nel dopoguerra, tanto che lo stesso assioma secondo il quale la Repubblica sarebbe nata dalla Resistenza va messo in discussione, viste le persecuzioni dei partigiani comunisti e le stragi di operai e contadini attuate da quella stessa Repubblica (con largo ricorso a personale fascista) fin dall’immediato dopoguerra (per non parlare delle successive “Stragi di Stato”).

Alla luce di queste considerazioni e di quanto dice questo libro risulterà forse più chiaro come mai ogni anno rappresentanti ufficiali delle istituzioni repubblicane si rechino alla foiba di Basovizza ad onorare la memoria di “martiri dell’italianità” del tipo di quelli che ci descrive Claudia Cernigoi. Ed i primi a sentirsi offesi dal fatto che l’italianità venga rappresentata da “martiri” di tale risma, dovrebbero essere proprio quegli italiani che desiderano rispettare se stessi ed essere rispettati dai popoli vicini.

Sandi Volk

ricercatore storico

INTRODUZIONE

È da ormai cinquant’anni che l’immaginario reazionario si trastulla con il discorso del “genocidio” delle foibe, ma negli ultimi due anni il problema ha assunto rilevanza nazionale dopo la campagna stampa attivata intorno all'inchiesta sulle foibe condotta dal Pubblico Ministero di Roma Pititto e, più recentemente dall’estate del '96, dopo gli interventi non solo locali ma anche a livello nazionale dei vertici del P.D.S. che, in una malintesa logica di “pacificazione”, hanno raccolto gli inviti delle destre revisioniste che chiedevano, dopo il processo Priebke, anche «giustizia per i crimini delle foibe» [1]. Dopo questa pubblica “assunzione di colpa”, da parte del partito degli ex-comunisti (si noti però che queste “colpe” il P.D.S. le fa comunque ricadere su altri, non su se stesso!), anche i dibattiti e le discussioni sulla revisione della storia hanno preso nuovo avvio, ma questo problema lo approfondiremo in maniera più organica nell'ultimo capitolo.

Lo spunto per questa nostra ricerca ci è stato dato dalle dichiarazioni del PM Pititto, che intende chiedere il rinvio a giudizio per “genocidio” di un numero imprecisato di persone, e che ha più volte asserito che una delle “prove” basilari della sua inchiesta sono i libri pubblicati dal pordenonese Marco Pirina.

È appunto partendo da uno di questi libri di Pirina (il numero 4 della collana “Adria Storia” ovvero “Genocidio...”, che tratta anche della zona di Trieste), che abbiamo cercato di fare un po’ di luce su tutto ciò che in questi anni è stato detto a proposito (ed a sproposito!) sulle foibe.

Le pagine che seguono non vogliono essere un punto di arrivo ma un punto di partenza per fare finalmente luce sulla questione foibe, al di là delle facili retoriche, delle demagogie strumentali, degli pseudo-studi condotti finora solo da una parte politica, in funzione meramente propagandistica.

Noi non affronteremo il problema “foibe” né da un punto di vista politico né da un punto di vista etico: intendiamo semplicemente fornire dei dati di fatto (sui quali non v’è possibilità di intervenire polemicamente, perché si tratta appunto di fatti dimostrati) allo scopo di ritrovare le vere dimensioni di quello che viene spacciato come «genocidio di migliaia di infoibati perché italiani». In tutti questi anni a Trieste la destra ha continuato a perpetrare la propria ideologia facendosi forte della lotta contro gli «slavocomunisti infoibatori di italiani», mentre la sinistra non ha mai avuto la volontà di prendere in mano i dati sulle foibe per cercare di fare chiarezza, per ricercare la verità, per realizzare uno studio serio, basato su dati incontrovertibili e testimonianze attendibili e non su “voci” o “sentito dire”; uno studio che dimostri cosa effettivamente c’è e c’è stato nelle varie foibe; quanti siano realmente stati i morti e di questi quanti i militari, quanti i partecipanti ai rastrellamenti, quanti i membri della Guardia Civica, della Guardia di Finanza, dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza e quanti i civili; e di questi quanti i collaborazionisti e via di seguito.

Lo studio che presentiamo vuole appunto fare chiarezza sulla storia delle nostre terre, vuole rendere giustizia ai morti di tutte le parti, finora strumentalizzati a scopo di propaganda; vuole mettere fine a quella continua creazione di elementi di tensione politica in un’area di confine delicata come la nostra e, oltretutto, potrebbe servire a liberare finalmente anche gli Sloveni e la sinistra tutta da quel senso di colpa che si portano dietro come “infoibatori”, accusa che viene loro mossa incessantemente da cinquant’anni senza che d’altra parte si tenga minimamente conto dei vent’anni di dominio fascista e snazionalizzazione forzata subita dai popoli “non italiani” e dei successivi anni di guerra con massacri feroci perpetrati contro le popolazioni dell’Istria, della Slovenia e di tutta quell’area che una volta veniva chiamata Venezia Giulia.

Le “prove” del “genocidio”

Gianni Bartoli, già sindaco democristiano di Trieste (noto come Gianni Lagrima dato che nei suoi comizi si metteva regolarmente a piangere ricordando le terre perdute d’Istria e Dalmazia), pubblicò nel 1961 il “Martirologio delle genti adriatiche-Le deportazioni nella Venezia Giulia e Dalmazia”, libro che raccoglie 4.122 nomi di “scomparsi” (dalle province di Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia...); questi nomi sono accompagnati da note biografiche che, pur nella loro incompletezza, possono servire, se lette con un minimo di fantasia e senso critico, ad inquadrare la realtà dei fatti. Dei militari, ad esempio, è spesso indicato il posto in cui risulterebbero dispersi (dispersi in combattimento, si badi bene, quindi non “infoibati”); le indicazioni riferite ai “civili”, invece, possono spesso essere d'aiuto per ricostruire la storia della persona scomparsa, che da un’indagine accurata può risultare completamente diversa da quella indicata da Bartoli [2].

Un altro discorso merita l’”Albo d’oro” [3] di Luigi Papo (che si autonomina “de Montona”, ma, visto che è nato a Grado e non a Montona, che è una cittadina dell’Istria, a noi viene voglia di chiamarlo “de Grado”...), il quale riporta (salvo errori di computo nostri, visto che lui non fornisce il totale), 20.712 nomi di morti tra Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia e non meglio identificate “terre irredente” (“Fronte russo”, “Fronte greco”, Corsica...), in un periodo storico che inizia con il 10.6.40, ed arriva fino a citare il generale Licio Giorgieri (ucciso dalle B.R. il 28.3.87) ed il militare Millevoi Andrea (ucciso a Mogadiscio l’1.7.93). E perché non, ci chiediamo noi, anche Pietro Greco, ucciso a Trieste dalla polizia il 9.3.85 oppure i giornalisti della RAI uccisi a Mostar e a Mogadiscio nel 1994 ?

Tra questi oltre ventimila nomi troviamo: tutti i caduti sui vari fronti della seconda guerra mondiale, i deportati nei lager tedeschi, i partigiani (mancano però sia Alma Vivoda, uccisa da un carabiniere a Trieste il 28.6.43 [4], che Pinko Toma’i’, fucilato ad Opicina dai fascisti il 15.12.41), i morti sotto i bombardamenti, nelle rappresaglie naziste, e le “vittime degli slavi” tra le quali spiccano perle come questa: «Ciurcovich Leonardo, da Borgo Erizzo (Zara), ivi ucciso il 9.8.40 per aver difeso la propria italianità di fronte ad elementi slavofili». Con quel cognome la vicenda ci pare contraddittoria...

Oppure quest’altra: «Serbo Eugenio, capitano 57° Rgt. Art. Div., rimpatriato dalla Germania fu catturato dagli Slavi e deportato nei pressi di Lubiana; risulta deceduto il 14.12.44 a Leitmeritz».

Ora, Leitmeritz è il nome tedesco di Litom’rice, cittadina che si trova nell’attuale Repubblica Ceca nei pressi di Terezin [5], praticamente a metà strada tra Praga e Dresda. Ci pare difficile che i non meglio identificati “slavi” di cui parla Papo siano riusciti a deportare il capitano Serbo a Lubiana e farlo morire nel 1944 in un lager tedesco.

Nell’insieme il libro di Papo è un elenco di nomi e dati non sempre completi. Quanto alle introduzioni ed alle note, più che della solita becera propaganda nazional/fascista non si tratta. Giova forse ricordare che durante la guerra Luigi Papo si è reso responsabile di rastrellamenti in Istria; fu arrestato dai partigiani per i crimini di guerra da lui commessi e deportato a Prestranek in Slovenia, da dove però venne rilasciato. Importante elemento dei servizi d'informazione della Milizia repubblichina, collaborò, dopo la fine della guerra con i servizi alleati ed i neocostituiti servizi italiani, occupandosi, indovinate un po', di documentazioni sulle foibe... Logicamente non possiamo attenderci da lui informazione storica imparziale.

Tuttavia, pur con tutte le duplicazioni e le inesattezze presenti nei libri di Bartoli e di Papo, essi sono di gran lunga più accurati degli elenchi pubblicati nei libri di Pirina [6], che riportano anch’essi duplicazioni ed inesattezze (senza, tra l’altro, avere la scusante che potrebbe avere Bartoli e cioè che ai suoi tempi non esistevano i computer!), ed hanno inoltre il grosso difetto di non riportare la minima nota esplicativa ai nomi trascritti. Si tratta cioè di un mero elenco di nomi, a volte solo di cognomi, talvolta con l’indicazione della qualifica e della data di “scomparsa” (ma tali indicazioni, anche quando ci sono, spesso - come vedremo - non corrispondono al vero); in ogni caso, Pirina non chiarisce cosa possa essere successo a questi "scomparsi", limitandosi a scrivere “D” per deportato, “S” per scomparso, “I” per infoibato...; però non riporta alcun “R” (rimpatriato) se il “deportato” ha poi fatto ritorno, come in molti casi è successo. Tutto ciò serve solo a lasciar credere che tutti i deportati siano anche scomparsi facendo lievitare le cifre dei morti.

Neanche nel capitolo dedicato alle “foibe” Pirina dà prova di serietà, mescolando assieme “foibe” istriane e triestine, inserendo prima un ‘abisso di Semich’ e poi un ‘abisso di Semez’ nella stessa pagina, senza accorgersi (?) che si tratta dello stesso “abisso” e facendo poi una gran confusione tra i morti della foiba Plutone e quelli di Gropada. Vale la pena qui di citare il passo, perché è indicativo del modo di lavorare di Pirina:

«FOIBA DI GROPADA. Sono recuperate 5 salme. “...Il 12 maggio 1945 furono fatte precipitare nel bosco di Gropada 34 persone, previa svestizione e colpo di rivoltella alla nuca. Tra le ultime Dora Ciok, Rodolfo Zuliani, Alberto Marega, Angelo Bisazzi, Luigi Zerial e Domenico Mari”».

A parte che Pirina non cita la fonte da cui ha tratto questi dati, va precisato in ogni caso che dalla foiba di Gropada furono recuperati 10 corpi di persone uccise in tempi diversi, e che, come vedremo nel Cap. III, Dora ‘ok (e non Ciok!) e Marega sono stati uccisi a Gropada nel maggio del ‘45, ma Zuliani e Zerial furono infoibati già a gennaio (erano due ex-partigiani.che si erano dedicati alla borsa-nera); ed infine Bigazzi (non Bisazzi!) e Mari sono stati uccisi e gettati nella Plutone (foiba che Pirina stranamente non nomina).

Ma appunto neanche Pirina è uno “studioso” imparziale. Presidente del FUAN (l’organizzazione universitaria neofascista) a Roma alla fine degli anni Sessanta, fu anche presidente del “Fronte Delta”, gruppo di estrema destra operante all’università “La Sapienza” di Roma. Per l’attività in questo gruppo fu incriminato per il coinvolgimento nel golpe Borghese; arrestato nel luglio del 1975 fu rilasciato un mese dopo e poi prosciolto, come tutti quelli coinvolti nel golpe. Alla fine degli anni Ottanta Pirina fonda a Pordenone l’associazione “Silentes loquimur”, e, grazie anche a finanziamenti pubblici, è riuscito a sfornare più o meno un libro all’anno sui temi dei “crimini” compiuti dai partigiani, testi di matrice tipicamente revisionista e comunque pieni di inesattezze e falsi storici.

Nella sua carta intestata si autonomina “Prof. Marco Pirina, deputato al Parlamento Mondiale per la Sicurezza e la Pace, Presidente Centro Studi e Ricerche Storiche “Silentes loquimur”, presidente Commissione Cultura comune di Pordenone” (quest’ultima parte, purtroppo, corrispondeva al vero, almeno fino alle recenti elezioni comunali).Ed è proprio dall’analisi del libro “Genocidio... Adria storia 4” di Marco Pirina ed Annamaria D’Antonio (edito dalla “Silentes loquimur”), che presentiamo nelle pagine seguenti, che risulterà evidente il metodo della falsificazione e del revisionismo storico seguito dai due autori.

CAPITOLO I

A TRIESTE LA STORIA NON COMINCIA IL 1° MAGGIO 1945

1.UN PO’ DI STORIA

Prima di addentrarci nella “ricerca” di Pirina dobbiamo parlare un po’ di storia, perché la storia di Trieste e della Venezia Giulia non è purtroppo molto conosciuta, neanche in zona, e spesso la gente tende a dimenticare che prima del 1° maggio del 1945 (giorno della liberazione di Trieste per mano partigiana) erano accadute un bel po’ di cose, la maggior parte delle quali di gran lunga peggiori delle peggiori azioni compiute nei 40 giorni di amministrazione jugoslava. Ma la maggior parte della gente, purtroppo, tende a dimenticare le cose avvenute prima, anche perché, come diceva il poeta Carolus Cergoly nella sua poesia sulla Risiera di S. Sabba: «Su, femo i bravi. / In fondo xe un brusar / Ebrei e Slavi» [1]. Così era la concezione mentale del triestino medio, che non visse male sotto il fascismo prima ed il nazismo poi, perché “non si occupava di politica”, innanzitutto, e poi era “italianissimo” ed “arianissimo”, ed in fin dei conti sotto il duce non ci mancava niente e poi i Tedeschi mettevano un po’ d’ordine ed in fin dei conti gli Slavi sono un popolo di bifolchi e gli Ebrei lasciamo perdere... così era, ma così, disgraziatamente, è ancora, almeno in parte.

A Trieste il nazionalismo italiano assunse delle connotazioni esasperate, con caratteristiche che saranno poi tipiche dello squadrismo fascista, già prima dell’inizio della prima guerra mondiale. I propugnatori di questo “ideale” furono gruppi irredentistici, legati soprattutto ad alcuni ambienti massoni ci cittadini. Tra gli “ideologi” di questo irredentismo troviamo Ruggero Timeus il quale, dopo essersi autodefinito “irredentista-imperialista”, “militarista e conquistatore” asseriva: «A noi che la lotta abbia un carattere civile o anticivile non importa nulla... contro questi “ignari bifolchi” ...noi non possiamo rispondere con la severa coscienza nazionale... ma con l’odio che sussulta, che aggredisce, che affama... nell’Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono... Se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati...» [2]. Va precisato che nell’”Istria” Timeus comprendeva anche tutta la zona di Trieste, retroterra carsico compreso. Diceva ancora Timeus: «è dovere d’ogni popolo uccidere ogni imperialismo che non sia il suo», «noi accettiamo l’assioma germanico che la bontà di un’idea si dimostra con la forza» ed ancora: «l’italianità si afferma imponendola ai popoli stranieri. È questo un ideale che non si esaurisce che con la conquista del mondo».

Riteniamo a questo punto opportuno ricordare che al signor Timeus, propugnatore di simili “ideali”, è tuttora dedicata una via di Trieste...

Le idee di Timeus non erano solo sue, erano condivise da buona parte di quel movimento irredentista di cui si diceva prima, magari non in maniera tanto “estremista”, ma che comunque vedeva necessario stroncare i popoli slavi per fare spazio all’imperialismo italiano e che identificava nel plurinazionalismo asburgico il proprio nemico da eliminare.

Dopo la fine del primo conflitto mondiale le tappe della repressione “antislava” procedettero rapidamente: i soldati austroungarici prigionieri che rientravano a casa, soprattutto se slavi, vennero internati in campi di prigionia speciali e particolarmente duri, dove molti trovarono la morte per le privazioni e le malattie [3].

Come già nelle Valli del Natisone, dove la snazionalizzazione forzata della comunità slovena locale iniziò immediatamente dopo l’annessione al Regno d’Italia, così pure nella neonominata “Venezia Giulia” (composta dalle province di Trieste e di Gorizia, compresi i retroterra che oggi si trovano in Slovenia e l’Istria), sia nelle città che nelle campagne iniziarono subito le opere di snazionalizzazione e repressione. Già il 13 dicembre 1918 lo scrittore Sem Benelli, all’epoca capo dell’Ufficio Politico del Comando in Capo della Piazza Marittima di Pola, scrisse in un rapporto ufficiale: «le società politiche Jugo-Slave mantengono continuamente desto lo spirito di rivolta. Sono focolai che non hanno grande importanza ma che tengono gli animi sospesi ed a volte formano qual.che fanatico. Essi sono i piccoli Narodni Dom delle campagne. Si chiamano “Citaonce” ossia società di lettura... sarebbe opportuno sciogliere questi circoli politici... Anche il giornale Hrvatski List che nelle campagne è molto letto dai Croati, mantiene vivo il fermento Jugoslavo e la convinzione che l’occupazione italiana sia semplicemente provvisoria». L’originale del documento reca una nota manoscritta, relativamente al giornale: «farlo partire sempre con alcuni giorni di ritardo?» [4].

È dell' aprile del ‘19 invece la nota del commissariato civile di Pola in cui si comunica che delle 49 scuole croate (37 pubbliche e 12 private) esistenti prima dell’arrivo dell’Italia in quelle terre, 45 erano state chiuse, ma «era però necessario di provvedere acchè migliaia e migliaia di fanciulli non rimanessero, in seguito alla chiusura di tante e tante scuole, senz’alcuna istruzione. In esecuzione degli ordini del predetto Comando venivano perciò aperte scuole e giardini infantili con lingua d’insegnamento italiana anche in quelle frazioni dove non era ancora sistemata una scuola italiana provinciale e fu assunto il personale necessario» [5]. Queste direttive anticipano la famosa legge di riforma delle istituzioni scolastiche dell’ottobre 1923 (la legge Gentile) che sancirà la definitiva chiusura delle scuole di lingua non italiana (tedesche, slovene, croate) nelle nuove province del Regno d’Italia. «Nel corso dei cinque anni scolastici successivi, con l’uscita delle generazioni scolastiche precedenti, la lingua slovena sparì dalla scuola statale. Ciò significò la trasformazione di quasi 500 scuole elementari slovene e croate in scuole italiane» [6].

Trieste ha anche un altro primato: «il 3 aprile 1919, a pochi giorni di distanza dalla fondazione dei fasci in piazza S. Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), il fascio veniva costituito a Trieste» [7]. Cresce l’attività di violenza squadrista del neo-costituito partito fascista: nel 1920 a Trieste viene incendiato il centro economico, politico e culturale dei gruppi etnici sloveni e croati della città, il Narodni Dom, costruito all’inizio del secolo su progetto dell’architetto Max Fabiani, che ospitava al proprio interno una sede bancaria, un centro culturale, un albergo e la tipografia dei principali giornali sloveni, tra cui il quotidiano “Edinost”. L’edificio non verrà restituito, neppure dopo la Liberazione, alla comunità slovena della città ed oggi è trasformato in sede universitaria.

Tra il 1919 ed il 1922 i fascisti, finanziati dalla destra economica, «incoraggiati dall’alta burocrazia civile e militare, aizzati dalle campagne provocatrici e sciovinistiche del quotidiano “Il Piccolo” diretto da Alessi» [8], compiono decine di azioni squadristiche contro centri culturali e politici di tutta la “Venezia Giulia”, incendiando e distruggendo sedi, redazioni di giornali, tipografie; aggredendo, picchiando ed anche uccidendo militanti politici (però vi furono violenze anche contro scolaresche e va citata la strage di Strugnano [9], del 19.3.21, dove i fascisti spararono dal treno contro un gruppo di bambini che giocavano, ne uccisero due e ne ferirono cinque, due dei quali rimasero invalidi per tutta la vita).

Alla fine di queste “operazioni” si ebbe la chiusura di quasi mille circoli, tra culturali, sportivi, assistenziali, e moltissimi dei beni, confiscati, venivano assegnati ad associazioni fasciste. Nella maggior parte dei casi neanche queste sedi sono mai state restituite dallo Stato italiano, “nato dalla Resistenza”, agli aventi diritto.

Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, le violenze divennero anche “legali”: dal 1926, con l’entrata in vigore delle “Leggi Speciali per la difesa dello Stato” e poi dal 1931 con il codice Rocco e le sue leggi di polizia, la soppressione della stampa d’opposizione e lo scioglimento di tutti i partiti, ogni speranza di democrazia era sparita dall’Italia.

Oltre le azioni squadristiche v'erano anche altri sistemi per attuare la “pulizia etnica”: ad esempio i dipendenti non italiani (Sloveni, Croati, Tedeschi...) delle amministrazioni pubbliche (ferrovieri, insegnanti, poliziotti...) vennero o allontanati mediante trasferimento in località all’interno del Regno, oppure addirittura costretti a licenziarsi [10].

Contemporaneamente inizia la “riduzione” in forma italiana dei toponimi e dei nomi e cognomi “stranieri” [11], in modo tale da cancellare, ove possibile, anche la memoria dell’esistenza slava in queste terre.

Contro queste azioni di pulizia etnica e di programmato etnocidio vi furono dei tentativi di resistenza, anche armata, compiuti con organizzazioni “segrete”, quali il T.I.G.R. [12] e l'organizzazione “Borba”, che agivano contro singoli squadristi o collaborazionisti, contro postazioni militari e contro le scuole, che erano diventate centri di snazionalizzazione. Queste attività portarono ad una repressione feroce, basti pensare che «su 978 processi condotti dal Tribunale Speciale fascista negli anni 1927-1943, 131 furono condotti contro 544 imputati appartenenti alle minoranze slovena e croata. Su un totale di 4.596 condanne pronunciate, 476 furono comminate a Sloveni e Croati. Su 27.727 anni di carcere sentenziati, 4.893 furono inflitti a queste due comunità. E infine, su 42 condanne a morte, 33 furono emesse contro Sloveni e Croati. Negli anni 1930-1942 caddero davanti ai plotoni di esecuzione fascisti 19 Sloveni, dieci di essi prima dell'inizio della vera lotta armata» [13].

Il 6 aprile 1941 l’Italia sferra l’attacco alla Jugoslavia, arrivando alla creazione della “Provincia di Lubiana”, ed arrestando numerosi esponenti antifascisti sloveni, originari delle province di Trieste e Gorizia, che erano stati costretti all’esilio dalla repressione fascista. L’occupazione della Provincia di Lubiana, durata 29 mesi, fu contrassegnata da particolare durezza, tanto che esistono documenti del comando superiore delle Forze Armate italiane che recitano: «il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”» [14] e «si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed ignavia...» [15]. Già i127 aprile del 1941, a Lubiana, si era costituito l’Osvobodilna Fronta–Fronte di Liberazione che, basandosi su un accordo interpartitico di lotta contro gli invasori italiani, tedeschi ed ungheresi, ed appoggiandosi ad alcuni militari jugoslavi non disposti ad arrendersi, sviluppò azioni di lotta partigiana fin dall’inizio contro gli occupanti, collegandosi anche con elementi attivi nel Litorale sloveno, cioè nelle province di Trieste e Gorizia.

Delle repressioni compiute dai fascisti in Istria, in Slovenia e nell’entroterra triestino e goriziano durante il secondo conflitto mondiale, stragi, incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio (che non erano solo tedeschi ma anche “italianissimi” come quelli di Arbe-Rab, in Dalmazia e di Gonars in Friuli), esiste ampia documentazione [16]; tanto per citare delle cifre: «Dopo il 1941 l’occupazione italiana e poi tedesca di ampi territori jugoslavi (vengono annesse all’Italia la “provincia di Lubiana”, capitale slovena e la Dalmazia occupate) è particolarmente feroce e provoca sino al 1945 nei territori adriatici (Litorale) tra gli Sloveni e i Croati ed anche tra antifascisti italiani complessivamente 45.000 morti, 7000 invalidi, 95.460 arrestati, internati e deportati in campi di concentramento italiani e tedeschi, 19.357 case distrutte totalmente e 16.837 parzialmente (per lo più interi villaggi), il tutto con atrocità in cui si distinguono sia italiani che tedeschi» [17].

Scrive Galliano Fogar [18]: «II 7 ottobre (1943, n.d.a.) Berlino annuncia la conclusione dei rastrellamenti “nella regione di Trieste da parte delle truppe tedesche e di reparti fascisti: sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati fra cui gruppi di ufficiali e soldati badogliani". Un comunicato del 13 afferma che la “pace” è stata raggiunta grazie a più di 13mila banditi uccisi o fatti prigionieri... A parte la gonfiatura propagandistica delle cifre, il numero delle vittime è stato altissimo e fra esse buona parte è di inermi civili.(...) “L’impeto dei tedeschi è meraviglioso” commenta il quotidiano triestino “Il Piccolo”. Raccontando l’odissea di un gruppo di prigionieri liberati dall’intervento germanico, il cronista rileva che gli scampati, mentre si dirigono verso Trieste, possono constatare che “ogni casa ha uno straccetto bianco di resa e tutti i rimasti salutano romanamente chiedendo pietà” (questo si riferisce alla zona di Pinguente, in Istria, n.d.a.). Dopo il passaggio delle truppe tedesche, il giornale riferisce che è tornata la tranquillità e giustifica lo strazio della cittadina di Pisino, osservando che “dure misure sono state provocate” dalla resistenza dei partigiani...».

Nella provincia di Trieste furono bruciati per rappresaglia i paesi di Mavhinje-Malchina, Čerovlje-Ceroglie, Vižovlje-Visogliano, Medjevaš-Medeazza, Mačkovlje-Caresana, Gročana-Grozzana.

Anche nella città di Trieste furono compiuti diversi eccidi di rappresaglia, di cui i più noti sono i seguenti: 3 aprile 1944: 71 fucilati al poligono di Opčine Opicina; 23 aprile 1944: 51 impiccati nell’edificio del Conservatorio di musica di via Ghega; 29 maggio 1944: 11 impiccati a Prosek-Prosecco; 18 settembre 1944: 18 ostaggi fucilati od impiccati; 21 settembre 1944: 5 fucilati della “missione Molina” [19]; 28 marzo 1945: 5 impiccati in via D’Azeglio; 28 aprile 1945: 20 fucilati al poligono di Opčine-Opicina. Ed abbiamo qui citato solo gli eccidi di maggior rilievo, senza contare i morti (dai 3 ai 5.000) della Risiera di S. Sabba, le migliaia di deportati nei lager tedeschi, sia Israeliti (tra cui gli 80 Ebrei prelevati dall’ospizio della Pia Casa Gentiluomo [20] ed i 25 prelevati dall’Ospedale Psichiatrico di Trieste), sia militari che non avevano voluto collaborare con la Repubblica di Salò ne con il Reich tedesco, sia partigiani e resistenti che semplici civili.

Oltre a tutto questo bisogna ancora ricordare che se il 25 aprile, giorno dell’insurrezione di Milano, è considerato a tutti gli effetti l’anniversario della Liberazione in Italia, questa data non rappresenta la fine generale delle ostilità. Infatti in varie parti d’Italia s’è continuato a combattere fino ai primi giorni di maggio. I partigiani hanno liberato Trieste il 1° maggio, però i nazisti in città si arresero definitivamente soltanto al 2 maggio, dopo l’arrivo delle truppe neozelandesi e ad Opicina si combatté fino al 3 maggio.

Dice Diego De Castro nel suo libro sulla “questione di Trieste”: «Mentre per gli Alleati, la guerra era finita, gli Slavi avevano ancora dietro le spalle i1 97° Corpo d’Armata tedesco, forte di oltre 15.000 uomini che, se fossero stati portati in tempo a Trieste, avrebbero difeso benissimo la città, attendendo gli Occidentali. Ordini errati li tennero fermi e, dopo pochi giorni, si arresero» [21].

Evidentemente De Castro avrebbe preferito un po’ di nazismo in più, in attesa dell'arrivo degli “Occidentali”. Comunque da questa affermazione appare chiaro come nell’immediato retroterra di Trieste le forze tedesche fossero ingenti, motivo per cui l’Armata jugoslava aveva di che stare sul chi vive. Infatti a Lubiana (che dista una sessantina di chilometri da Trieste), gli scontri terminarono appena l’11 maggio 1945.

[L'Autrice analizza nelle successive pagine i comportamenti di tutti gli altri crpi italiani, dalla X Mas alle guardie di finanza]

CAPITOLO II

IL NOSTRO STUDIO

[L’Autrice illustra il metodo seguito, le fonti utilizzate ed elenca i presunti “infoibati” della provincia di Trieste annotando per ciascunol’esito dei risconti. Conclude il capitolo come segue]

Alla luce di quanto esposto finora si possono trarre intanto le seguenti conclusioni:

1) nella provincia di Trieste non si può assolutamente parlare di “genocidio” per 517 persone di etnie diverse arrestate per motivi politici e poi, alcune giustiziate altre morte di malattia nei campi;

2) non vi furono massacri indiscriminati: della maggior parte degli arrestati si sa che erano militari o comunque collaboratori del nazifascismo;

3) le persone realmente “infoibate” risultano essere una quarantina;

4) di processi contro gli “infoibatori” e persone accusate di “delazione” nei confronti degli “scomparsi” se ne sono svolti un’ottantina e non si possono riprocessare le persone per gli stessi reati, né processare altri per reati dei quali si sono già condannati i colpevoli;

5) se vi furono delle vendette personali, di questo non si può rendere responsabile un intero movimento di liberazione, né creare un caso politico che dura da cinquant’anni.

In quanto alle onoranze richieste per i “caduti delle foibe” (commemorazioni, erezioni di monumenti e lapidi, intitolazione di vie), visti i ruoli impersonati dalla maggior parte degli “infoibati”, personalmente ci rifiutiamo di onorarli. Si può provare umana pietà nei confronti dei morti, ma da qui ad onorare chi tradiva, spiava, torturava, uccideva, ce ne corre.

Una lezione si può, e si deve, a parer nostro, trarre da tutto questo: che quando l’umanità si lascia trascinare dalla febbre del nazionalismo, dalla voglia di supremazia e prevaricazione di un popolo su un altro, dalla guerra imperialista, quando si lascia andare alla violenza, allora la violenza genera altra violenza fino a coinvolgere tutti, indiscriminatamente, chi ha iniziato la violenza e chi s’è dovuto difendere e magari è stato costretto a fare violenza a se stesso per riuscire a controbattere con la violenza alla violenza altrui.

Un’unica lezione bisogna dunque trarre da questi fatti: mai più nazionalismi, mai più violenze, mai più guerre; ed impari finalmente l’uomo, come diceva Brecht, ad essere un “aiuto all'uomo”.

CAPITOLO IIILE FOIBE TRIESTINE

1. LA “CULTURA” DELLA “FOIBA”

Bisogna precisare innanzitutto che la “cultura” della “foiba” non ha proprio una matrice di sinistra. Troviamo infatti in un libro di testo in uso nelle scuole della regione durante il ventennio fascista questa poesiola molto educativa:

De Dante la Favella

Mia mama m’ha insegnà,

Per mi xe la più bella

Che al mondo ghe xe sta.

E per difender questa

E sovenir la Lega [1]

Convien che ognun s’appresta

A fare el suo dover.

O mia cara patria

Mio dolce Pisin [2],

Mio nono cantava

Co iero picin.

Me par de vederlo

Là in fondo al castel

Che sempre ‘l dixeva

A questo ed a quel:

Fioi mii, chi che ofende

Pisin, la pagherà:

In fondo alla Foiba

Finir el dovarà.

Non è questa propaganda slavocomunista, ci sembra...

Però abbiamo poi anche il vate Giulio Italico, al secolo Giuseppe Cobol (poi italianizzatosi in “Cobolli Gigli”), che pubblicò, nel 1919 (ben prima dell’avvento del fascismo, dunque), un libretto dal titolo “Trieste. La fedele di Roma”. In esso è contenuta la trascrizione dell’aulica canzoncina, anch’essa di evidente origine pisinota, che così recita:

A Pola xe l’Arena,

La “Foiba” xe a Pisin

che i buta zò in quel fondo

chi ga zerto morbin.

E a chi con zerte storie

Fra i piè ne vegnerà,

Diseghe ciaro e tondo:

Feve più in là, più in là.

Questa è dunque la tradizione culturale che ha portato al fenomeno “foiba”. Non ci risultano canzoni partigiane, slave o italiane che siano, che facciano l’apologia della foiba [3].

Va anche riferito che più volte furono i fascisti a gettare nelle voragini persone ancora vive, persone “colpevoli”, magari, solo di essersi fatte scoprire a dire qualche parola in sloveno o croato; così come risultano, dall’archivio dello Stato civile triestino [4], diverse persone “infoibate da forze nazifasciste” durante la guerra. Bisogna ricordare che molto spesso i partigiani celavano nelle foibe i corpi dei propri compagni caduti in combattimento, per evitare che fossero trovati dal nemico, identificati e di conseguenza le loro famiglie fossero oggetto di rappresaglie.

[ Il testo prosegue con la puntuale descrizione delle diverse foibe, dei corpi rinvenuti e degli eventi in seguito ai quali essi vi furono gettati. Il capitolo successivo è dedicato a un’analisi delle “Inchieste” che si sono succedute. in appendice sono riportati docmenti ufficiali]

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17 Giugno 2018

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