Finalmente, dopo 68 anni, l'obelisco di Axum è tornato a casa, nel quartiere ecclesiastico di Nefas, lungo le rive del Mai Heggià. Quando, a giorni, le sue tre parti, trasferite in Etiopia nel ventre di un Antonov ucraino, saranno riunite, e potrà essere di nuovo innalzato verso il cielo, finalmente gli etiopici potranno ammirare questo straordinario esemplare di arte axumita, diventato col tempo, nella febbrile attesa del suo rimpatrio, anche un simbolo del patriottismo etiopico. Con la restituzione di questo monumento, imposta all'Italia dall'articolo 37 del Trattato di pace di Parigi, nel lontano, lontanissimo 1947, si chiude, dopo rinvii immotivati, tentativi di sabotare l'obbligo, false storie di donazioni, finti problemi tecnici, la più incredibile, la più sconcertante, la più vergognosa telenovela che il nostro inaffidabile paese abbia mai prodotto.
È molto probabile che l'idea di trasferire in Italia uno degli obelischi di Axum sia venuta ad Alessandro Lessona, a quel tempo ministro dell'Africa Italiana. Lessona conosceva molto bene Mussolini, la sua infinita vanità. Sapeva che un omaggio, di stampo autenticamente imperiale come un monumento dell'antica civiltà axumita, non poteva che riuscirgli gradito. Affidò perciò l'incarico all'archeologo Ugo Monneret di Villard, che stava conducendo degli scavi proprio nella zona di Axum, di scegliere uno degli obelischi e di trasferirlo in Italia. La scelta dell'archeologo cadde su di un monolito alto 24 metri e del peso di 160 tonnellate, che giaceva a terra spezzato in tre parti. Iniziati nel 1937, i lavori per il recupero e il trasporto del monumento sino al porto di imbarco di Massaua, durarono tre mesi.
Furono gli operai della Gondrand, sotto la guida del piacentino Mario Buschi, a portare a termine il difficile trasporto, per il quale fu addirittura necessario sbancare fette di montagna. Trasferito a Napoli e quindi a Roma, l'obelisco veniva eretto sul piazzale di Porta Capena. Con questa straordinaria preda di guerra, complice Lessona, Mussolini poteva così celebrare, il 28 ottobre 1937, il quindicesimo anniversario della marcia su Roma.
Adesso che l'Italia, sia pure a denti stretti, ha assolto al suo obbligo di restituire il mal tolto, a Porta Capena c'è un vuoto da riempire. Noi vorremmo oggi rinnovare la proposta che il 23 ottobre 2002 facemmo proprio sulle colonne de il manifesto. Quella di sostituire l'obelisco di Axum con un altro obelisco, sia pure di ridotte dimensioni, sul quale incidere semplicemente delle date e dei nomi. Le date degli eccidi consumati nelle ex colonie italiane, delle deportazioni di intere popolazioni, della creazione dei lager della Sirtica, di Danane, di Nocra. E i nomi dei patrioti che più si sono distinti nella difesa delle loro terre. Pensiamo al degiac eritreo Batha Hagos, al somalo Mohammed ben Abdalla Hassan, al libico Omar al-Mukhtar, agli etiopici ras Destà Damteu, degiac Nasibù Zamanuel, abuna Petros. Alcuni di questi leader chiusero la loro esistenza dinanzi ad un plotone di esecuzione o appesi ad un cappio. Impossibile scolpire nella pietra i nomi di tutti i patrioti uccisi. Soltanto i libici sono centomila. Trecentomila gli etiopici.
Con la restituzione dell'obelisco di Axum abbiamo soltanto sciolto un obbligo di carattere internazionale, non abbiamo per nulla affrontato il problema delle colpe coloniali e degli obblighi di natura morale. È vero che l'ex presidente Oscar Luigi Scalfaro, nella sua visita ad Addis Abeba, ha chiesto perdono agli etiopici per i crimini commessi dall'Italia fascista; e che l'allora capo del governo Massimo D'Alema, nel suo viaggio a Tripoli, sostando dinanzi al monumento ai martiri di Sciara Sciat, ha esclamato: «Qui gli eroi nazionali sono stati giustiziati dagli italiani». Ma queste chiare ammissioni di colpa non sono state seguite da gesti concreti. Mentre nel paese è tutt'altro che chiusa la lunga stagione delle amnesie, delle rimozioni, del revisionismo revanscista.
Mentre ad Axum accorrono i pellegrini festanti per venerare la stele restituita, sarebbe opportuno e molto significativo che in Italia si desse inizio a quel dibattito storico sul colonialismo, tante volte ostacolato o rimandato. Con il risultato che l'Italia repubblicana e democratica non ha ancora saputo sbarazzarsi dei miti e delle leggende che si sono formati nel secolo scorso, mentre una minoranza non insignificante