«Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del "foro" aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande».
il manifesto, 20 maggio 2017 (m.p.r.)
Non tutti sanno che nel suo progetto originario, risalente agli anni ’60, la pavimentazione del Tribunale di Roma, uffici, aule e corridoi, era interamente costituta da «sampietrini», i cubetti di porfido caratteristici delle strade e delle piazze romane. Una scelta, questa, discutibile sotto il profilo pratico ed estetico, ma dotata di una straordinaria potenza evocativa: il luogo della giustizia non è un luogo «separato» dalla città, ma ne rappresenta l’inevitabile continuazione.
Le strade della città entrano all’interno del tribunale che appartiene dunque a tutti i cittadini e non è dominio incontrastato di una magistratura separata e autocratica. Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del «foro» aperto alla città e anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia e il Paese si è fatta sempre più grande, procedendo di pari passo con l’idea che i tribunali fossero dei «giudici», che i palazzi di giustizia fossero i luoghi nei quali i pubblici ministeri esercitavano il loro potere.
Difficile non pensare a questo percorso, non solo simbolico, che l’idea stessa di giustizia ha disegnato negli ultimi decenni, quando apprendiamo del diniego opposto da alcuni importanti magistrati alla richiesta di poter raccogliere firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere fra magistratura inquirente e giudicante.
A Firenze, in particolare, la presidente della corte di appello e il procuratore generale hanno giustificato la mancata autorizzazione con non meglio precisate ragioni di sicurezza. Ed è difficile immaginare quale pericolo possano costituire un cancelliere dello stesso tribunale, intento ad effettuare l’autentica delle firme di pacifici cittadini, considerato che questi esercitano il loro più naturali diritti politici e quelli la più tipica delle loro funzioni.
Nei nostri Tribunali vi sono banche, uffici postali, cartolerie edicole e librerie, si raggiungono accordi e si firmano contratti, ma non si sottoscrivono leggi che vogliono distinguere le carriere di quel giudice e di quel procuratore generale.
È bizzarro riflettere sulla circostanza che l’iter di raccolta delle firme ha inizio con il deposito formale del testo della legge di riforma di iniziativa popolare proprio all’interno del «Tribunale supremo», in un’aula della Corte di Cassazione, raccogliendo le firme dei promotori, mentre ai cittadini dovrebbe essere preclusa la possibilità di promuovere tale iniziativa in una normale aula di Tribunale.
In ogni altro luogo ma non lì. Resta la sensazione che questa proposta di legge che non fa altro che realizzare un articolo della Costituzione rimasto inattuato, e avvicina il sistema giudiziario italiano a quello degli altri paesi europei cui è del tutto ignota quella «colleganza» fra giudici e pubblici ministeri, in fondo scopra un nervo sensibile dell’ordine giudiziario di questo Paese, da troppo tempo adagiato sull’idea che la giustizia sia una cosa propria della magistratura, una cosa da somministrare paternalisticamente a ignari cittadini, fissata su cardini di potere inamovibili, fondata su principi che le leggi umane non devono e non possono mutare.