Il manifesto, 30 luglio 2013
Gli insulti alla ministra dell'Integrazione Kyenge, ma anche le offese alla presidente della Camera Laura Boldrini e le violenze quotidiane contro le donne. «E' come un coacervo di tutti i pregiudizi e soprattutto della relazione machista con le donne» osserva Nadia Urbinati, politologa e docente di Teoria della politica alla Columbia University di New York. Non proprio stupita dall'impennata di episodi di razzismo delle ultime settimane. «E' da diversi anni ormai che parliamo e scriviamo di razzismo in Italia. Io ricordo alcuni anni fa, all'inizio del governo Berlusconi, numerosi casi di razzismo nei confronti degli immigrati, la campagna contro gli illegali e i boat-people. C'è stato un processo di consolidamento di pratiche e pregiudizi che è andato insieme alla depoliticizzazione delle relazioni pubbliche, rendendo la società più permeabile al razzismo.
Va bene, stiamo raccogliendo i frutti di venti anni di politica leghista sull'immigrazione. Ma il ministro Kyenge viene presa di mira in quanto donna e nera.
Ritengo che i pregiudizi si siano rafforzati in questi anni insieme alla decadenza della cultura civica e politica, perché il linguaggio si è privatizzato; invece che cittadini che si relazionano come estranei in uno spazio pubblico, ci scambiamo opinioni personali, le quali si accavallano senza cura alla forma del linguaggio, al fatto che esso può offendere e far male. Parlerei di decadenza del linguaggio della politica e di egemonia pubblica di modelli soggettivi di comportamento. Non mi stupisce per niente in questo senso il legame donne e etnia. Anche nella cultura americana è così. I pregiudizi si attraggono l'un l'altro, si accumulano. Negli Stati del Sud degli Stati uniti, o nella zone del Midwest dove è più forte il radicamento del partito repubblicano, questo connubio tra cultura contro l'affermative action, cioè contro le pari opportunità, si coagula con i pregiudizi contro i neri e tutte le minoranze che reclamano un trattamento comparato alla loro condizione di svantaggio.
Ma il fatto che Kyenge oltre a essere nera sia una donna di governo influisce? Dopo l'elezione di Obama in America, nel 2008, aumentarono le aggressioni nei confronti dei neri. Fa paura un nero che ha potere?
Sì che fa paura. Io ricordo che appena si comprese che Obama stava sopravanzando Bush alcuni gruppi legati al partito repubblicano (poi confluiti nel Tea Party) cominciarono a diffondere dubbi sulla sua identità americana. Dichiarandolo non americano, lo si decretò escluso, ma anche un nemico totale se provava a scalare le istituzioni dello Stato. Per i razzisti del Tea Party non era concepibile avere un presidente che fosse nero e americano. C'è quasi un'idea incorporata nel pregiudizio che chi è oggetto di pregiudizio appartiene a un sotto non a un sopra, quindi non può diventare parte della leadership politica. Quando questo succede è un motivo di scandalo. Anzi, provoca la perdita di autorevolezza delle istituzioni. Un ministro nero vuol dire che il ministero ha meno valore. Per anni (e ancora oggi) questo è valso anche nel caso delle donne.
E questo si riflette anche sul ministro Kyenge.
Certo perché è nera e donna, un "difetto" dal quale, oltretutto, lei non si può emancipare. Essere nera e donna intacca le istituzioni dello Stato.
Tra le donne finite nel mirino c'è anche la presidente Boldrini.
Come tutti coloro che difendono una cultura dei diritti contro la non-cultura della sopraffazione pregiudiziale.
Non è la prima volta che in Italia abbiamo un presidente della Camera donna. Penso a Nilde Iotti e Irene Pivetti. Eppure non hanno scatenato gli attacchi che adesso è costretta a subire la presidente Boldrini.
Direi che i tempi erano diversi. Entrambe le precedenti due presidenti si collocavano in un'Italia che non aveva ancora questa forte presenza multiculturale e multietnica. Ora invece abbiamo una situazione in cui queste espressioni di diversità hanno addirittura voce politica nello Stato. Quindi difendere Kyenge, come ha fatto la presidente Boldrini, significa esporsi a due rischi: essere oggetto di offese come donna e come sostenitrice di posizioni che per chi ha pregiudizi razziali sono insostenibili.
Ma cos'è che fa più paura: l'essere donna o l'essere neri?
Qui in Italia l'essere neri. Tuttavia l'attacco alle donne è gravissimo e rientra nello stesso discorso sul razzismo; un nuovo esempio di debolezza del cosiddetto mondo maschile, prepotente e violento.
Questi episodi sono l'espressione di una minoranza becera oppure su certi temi è proprio il sentire nazionale che sta cambiando?
Guardi io non so quantificare quante persone si identificano con simili atti, però il nostro paese ha subito profonde trasformazioni dopo tre decenni di influenza nella cultura popolare dalle televisioni commerciali, che hanno formato intere generazioni imponendo un linguaggio spesso molto povero e soprattutto inadatto a dialogare ma pronto invece a pontificare e asserire. Modi del discorso diffusi anche in politica. E questi episodi di razzismo sono così ripetuti e continui che viene quasi da pensare che quel che si dice, la condanna di questi fatti, non abbia presa, non abbia più influenza.
Come vede il futuro?
Non lo so. Penso però che questa situazione di blocco che stiamo vivendo, questa alleanza politica anomala deve finire prima possibile, perché non stimola la chiarezza delle idee, non lascia la libertà agli attori di essere se stessi. Perché c'è un veto incrociato, per cui non si può fare tutto ma non si può nemmeno dire tutto. Se in politica non esistono più differenze, che sono il sale della politica, esse si travasano altrove. Vanno a finire nei rapporti privati, diventano divisioni identitarie di etnie e genere. Ecco una ragione non secondaria della recrudescenza del razzismo e della violenza contro le donne. Certo, sarebbe sbagliato pensare che questa è una ragione del razzismo - non è questo che voglio dire. Voglio semplicemente mettere l'accento sul fatto che l'impotenza della politica, il blocco della dialettica politica o tra avversari politici, rende più agevole aprire nuovi terreni di contrapposizione, dove non le idee ma i pregiudizi hanno cittadinanza.