Il Sole 24ore, 1 luglio 2017 (i.b.)
Il termine «populismo», oggi continuamente evocato per designare fenomeni diversissimi, è generalmente associato all’idea di una degenerazione della politica e, in particolare, della democrazia. Rappresenta un sintomo dello scollamento tra governanti e governati, una ribellione dal basso da parte di coloro che si sentono traditi ed esclusi da classi dirigenti incapaci e corrotte. È sufficiente demonizzare, esaltare o banalizzare tale fenomeno che appare ormai diffuso?
Il libro di Marco Revelli offre una acuta e documentata analisi di questo termine passepartout, districandone e chiarendone i vari significati nel contesto delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania e Italia).
Tra i tanti «populismi» individua, tuttavia, un’aria di famiglia, contraddistinto, da un lato, dallo stato d’animo, dal mood, di gente «carica di rancore, frustrazione, intolleranza, radicalità che il declassamento e la disgregazione comportano»; dall’altro, dall’espressione di una «malattia senile della democrazia». Il populismo ottocentesco e del primo Novecento era, infatti, caratterizzato dall’essere una «rivolta degli esclusi», di quanti, per censo o per classe, non potevano partecipare alla vita politica (in questo senso, si era allora dinanzi a una «malattia infantile» del ciclo democratico).
Quello attuale è, invece, rappresentato da una «rivolta degli inclusi», di quanti sono stati messi ai margini, dagli esponenti impoveriti «di strati fino a ieri ascendenti», che assistono con risentimento alla «ascesa vertiginosa di piccoli gruppi di vecchi e di nuovi privilegiati, segno inquietante di un’improvvisa inversione di marcia del cosiddetto “ascensore sociale”».
La lotta di classe “orizzontale” si è, così, trasformata in contrapposizione “verticale” tra popolo indifferenziato, buono per definizione, ed élite, tra onesti e corrotti, tra perdenti «homeless della politica» – in cerca di qualcuno, magari un miliardario, «purché rozzo», che li rappresenti – e la vincente «congrega dei privilegiati». I primi, negli Stati Uniti di Trump, non sono sempre costituiti da poveri che si vendicano dei privilegiati, ma da chi ha perso qualcosa e che sa, però, «non solo di averlo perduto: di esserne stato privato. Da altri: le élite, la finanza e le banche, la palude di Washington, i gay e le lesbiche e i transgender, le star di Hollywood, famose e dissolute, gli ispanici che mangiano nei loro giardini, i neri che seminano bottiglie vuote per strada, gli islamici che hanno più fede di loro, i petrolieri arabi che si comprano le loro città e finanziano i tagliagole… Un variopinto esercito di traditori del popolo laborioso e pio, distribuito lungo tutta la scala sociale, dal fondo alla cuspide».
Specie nell’affrontare il populismo americano, il libro di Revelli mostra tutta la sua originalità nel ricostruirne la genesi, che risale addirittura al settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson. Nell’iniziare l’age of commonman, 1830-1840 (quella che Tocqueville aveva visto sorgere poco prima di scrivere i due volumi de La democrazia in America), Jackson condusse una vera e propria guerra contro il potere bancario, convinto che «le banche rendano i ricchi più ricchi e i potenti più potenti».
Nel 1892 viene poi fondato il National People’s Party, che ha molte somiglianze con il populismo di Trump e ne ripercorre in gran parte l’area geografica del consenso. Anche la situazione economico-sociale del tempo presenta analogie con quella presente a livello globale: «Gli storici economici calcolano che nell’ultimo decennio del XIX secolo l’1% più ricco della popolazione americana possedesse all’incirca il 51% dell’intera ricchezza nazionale, e che al 44% più povero non ne restasse che l’1,1%! Li chiamavano irobber barons».
Con il senno di poi, non era difficile capire le ragioni che avrebbero portato al successo di Trump. Bastava «porre maggiormente l’orecchio al suolo, dove l’America profonda fa sentire i propri brontolii. E allo stesso modo capire che un Paese complesso come quello non ha un solo tempo sincronizzato e uniforme, muove a differenti velocità, e accanto alla vertigine temporale del word trade e della società globalizzata ci sono altre temporalità, che resistono e vanno in direzione contraria. Lunghe durate, che la velocità di superficie può marginalizzare, ma che sopravvivono e riemergono – carsicamente, appunto – in comportamenti individuali e collettivi».
Coloro che si avvertono de-sicronizzati rispetto alla velocità con cui avanzano i ceti dominanti sono, nella fattispecie (secondo le parole di David Tabor, direttore editoriale di Hot books) «i veterani scartati dalle guerre senza fine in Medio Oriente, i colletti blu che mai più guadagneranno i soldi che hanno fatto quando erano giovani, i residenti dei villaggi rurali e degli avamposti suburbani che vengono sempre trascurati dai radar dei media».
Più noto, ma ugualmente utile, è l’esame dettagliato, compiuto da Revelli, degli attuali populismi europei, in relazione alla Brexit, alla Germaniafelix – che ha «le sue zone d’ombra. E le sue aree sociali malate. Essa è oggi tra i paesi più disuguali in Europa» – e, soprattutto, all’Italia.
Nel nostro paese, i populismi hanno in comune alcuni elementi: la personalizzazione, il rapporto diretto del leader con il suo i suoi potenziali elettori, il «rifiuto della complessità dei processi decisionali previsti dalla costituzione», la rottura con il passato, che assume la forma di una ostentata distanza dalla politica e di una proclamata volontà di rottura o di «rottamazione» riguardo ai precedenti governi.
Quello di Berlusconi è un populismo televisivo da «tempi facili, il populismo dell’edonismo che nasce dal benessere del carpe diem, occasionalistico e rapinoso». Quello di Grillo è un «cyberpopulismo», che si avvantaggia del declino della televisione, specie fra i giovani, e punta su una mini-democrazia diretta. Quello di Renzi è, infine, un «populismo “ibrido”. Un po’ di lotta, un po’ di governo». Un populismo «dall’alto».
Si può, in conclusione, curare questa «malattia senile della democrazia» o saremo condannati a costatarne, inermi, l’ineluttabile declino? La terapia proposta da Revelli, in tono dubitativo, è questa: «basterebbero forse dei segnali chiari […] per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-democrazia incombente: politiche tendenzialmente redistributive, servizi sociali accessibili, un sistema sanitario non massacrato, una dinamica salariale meno punitiva, politiche meno chiuse nel dogma dell’austerità… Quello che un tempo si chiamava “riformismo” e che oggi appare “rivoluzionario”». Si tratta di una rivoluzione possibile in un futuro non lontano, quando keynesianamente saremo tutti morti?