La Repubblica, 7 aprile 2017
Con 16 anni di ritardo, l’Italia riconosce i propri torti e patteggia a Strasburgo per tentare di scongiurare una condanna per le torture inflitte ai manifestanti del Social Forum nella caserma di Bolzaneto il 21 e 22 luglio del 2001, i giorni terribili del G8 di Genova. Proprio quest’anno l’Italia tornerà ad ospitare un incontro dei leader delle maggiori economie planetarie, il 26 e 27 maggio a Taormina. La notizia del patteggiamento è arrivata ieri, con il governo che ha infine deciso di risarcire alcune delle vittime nel corso di un procedimento di fronte alla Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo: riceveranno 45mila euro ciascuno per indennizzare danni morali, materiali e spese processuali.
I giudici europei così prendono atto della «risoluzione amichevole tra le parti» e chiudono i procedimenti pendenti.
I casi in cui è stato possibile raggiungere il patteggiamento sono sei sui 65 aperti da cittadini italiani e stranieri che avevano fatto ricorso di fronte alla Corte, alla quale aderiscono tutti i 47 Paesi membri del Consiglio d’Europa, istituzione esterna all’Unione europea che vigila sul rispetto dei diritti fondamentali in tutto il continente. Si tratta di Mauro Alfarano, Alessandra Battista, Marco Bistacchia, Anna De Florio, Gabriella Cinzia Grippaudo e Manuela Tangari. L’avvocato di due dei ricorrenti, Laura Tartarini, però sottolinea che «quella che lo Stato offre è un piccola cifra, ha accettato chi ha necessità economiche e personali, per gli altri il ricorso continua per ottenre la condanna dell’Italia».
Le denunce a Strasburgo sostenevano che lo Stato italiano avesse violato il diritto a non essere sottoposti a maltrattamenti e tortura e denunciavano l’inefficacia dell’inchiesta penale domestica sui fatti di Bolzaneto. Con l’accordo, si legge nelle due distinte decisioni della Corte, il governo afferma di aver «riconosciuto i casi di maltrattamento simili a quelli subiti dagli interessati a Bolzaneto come anche l’assenza di leggi adeguate ». Questo il dato politico, l’aver ammesso abusi e torture nei giorni del G8.
Così l’esecutivo italiano ora si impegna ad adottare le misure necessarie a garantire in futuro il rispetto di quanto stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani, compreso l’obbligo di condurre indagini efficaci e l’introduzione di sanzioni penali per punire i maltrattamenti e gli atti di tortura. Nell’accordo il governo si impegna anche a «predisporre corsi di formazione specifici sul rispetto dei diritti umani per le forze dell’ordine».In cambio del risarcimento di 45mila euro dal canto loro i ricorrenti rinunciano a ogni altra rivendicazione nei confronti dell’Italia per i fatti all’origine del loro ricorso.
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nelle carceri, sottolinea l’importanza che finalmente dopo 16 anni il governo riconosca che «a Bolzaneto si è trattato di tortura: a 30 anni dalla convenzione Onu il governo si è impegnato ad introdurre il reato di tortura, impegno che – auspica - va rispettato subito».
«Da 28 anni il nostro Paese attende la norma che l’Europa ci impone di introdurre Ecco perché finora è rimasta lettera morta»
Di fronte alla Corte Europea dei diritti umani, l’Italia riconosce che, nel luglio del 2001, nei giorni del G8 di Genova, le violenze inflitte ad innocenti trattenuti nella caserma della polizia stradale di Bolzaneto furono tortura. Che quegli abusi fisici e psicologici meritino per questo un risarcimento delle vittime che chiami le cose con il loro nome. Tortura, appunto. È un’ammissione dovuta, e tuttavia tardiva e penosa per la vergogna che ne è il presupposto. L’ingiustificabile assenza nel nostro ordinamento di una norma che preveda e punisca il reato di tortura. E per la cui introduzione nel nostro sistema penale, l’Italia, ventotto anni fa, si era solennemente impegnata, sottoscrivendo prima e recependo poi la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”. Salvo farne, da allora, lettera morta.
Ancora nel maggio del 2014, in un magnifico libro (Gridavano e piangevano, Einaudi), Roberto Settembre, magistrato mite e giudice a latere della Corte di appello di Genova che giudicò i fatti e le responsabilità della Bolzaneto, ricordando il suo tormento di quei giorni, scriveva: «Ero di fronte a un evento non solo di dimensioni macroscopiche, ma di una particolare qualità: centinaia di cittadini non solo erano stati privati della libertà, non solo erano stati lesi nella loro incolumità fisica e psicologica. Erano stati vittime di comportamenti tesi a far sorgere sentimenti di paura, di angoscia, di inferiorità in grado di umiliarli così profondamente da ledere la dignità umana». Violenze per le quali lui, il giudice, non aveva uno strumento di legge proprio. Il reato di tortura.
Per non dire del Comitato dei ministri del Consiglio di Europa, che, nel marzo scorso, dopo una sentenza di due anni prima della Corte europea, intimava al nostro Paese di «introdurre, senza più attendere, i reati di tortura e trattamenti degradanti, assicurando che siano sanzionati adeguatamente e gli autori non restino più impuniti». Parole che non hanno increspato le acque limacciose di un Parlamento dove, nell’autunno scorso, in Senato, è silenziosamente affondato anche l’ultimo disgraziato disegno di legge che avrebbe dovuto allinearci agli standard normativi di rispetto dei diritti umani in vigore nelle altre democrazie occidentali.
In questa vergogna tutta italiana, come documentano gli atti parlamentari del dibattito che ha accompagnato l’ultimo tentativo abortito di introduzione del reato di tortura, c’è tutta la debolezza e ipocrisia di una classe politica, di maggioranza e di opposizione,incapace di sottrarsi all’intollerabile ricatto di settori, per altro minoritari, delle forze dell’ordine che nel reato di tortura sostengono si nasconda un formidabile strumento di vendetta nelle mani di chi delinque. È infatti accaduto che, nell’ultimo percorso parlamentare, che ha interessato prima il Senato, quindi la Camera, e nuovamente il Senato, una norma di agevole scrittura, necessaria a definire un comportamento proprio di un pubblico ufficiale (dal momento che è proprio questa qualità di chi esercita violenza che pone la vittima in una condizione di oggettiva sudditanza, fisica e psicologica rendendo l’abuso nei suoi confronti di particolare gravità) sia diventata prima “reato generico” e quindi oggetto di un singolare quanto capzioso dibattito. Che ha prima stabilito che per configurare una tortura si debba essere in presenza non di una semplice «violenza» (singolare), ma di «violenze» (plurale). E, quindi, che queste debbano essere «reiterate». Come se una violenza in un’unica soluzione sia troppo poco. Per giunta, che, in caso di abusi psicologici, la sopraffazione emotiva, per essere riconosciuta come tortura, debba avere caratteristiche particolari e «clinicamente accertabili».
Per altro, nel frenetico lavoro di depotenziamento del reato di tortura e del disegno di legge che lo istituiva, il Senato era riuscito anche a immaginare che, a dispetto del suo carattere di crimine contro l’umanità — e dunque in quanto tale non soggetto ad estinzione — nella sua declinazione italiana, la tortura fosse “prescrivibile”. Come una rissa al semaforo. Troppo. Persino per gli alfieri di un compromesso quale che fosse. Abbastanza, come detto, per avviare su un binario morto anche questo ennesimo tentativo in ventotto anni.
Nel patteggiamento di fronte alla Corte Europea, l’Italia torna ora con il governo Gentiloni a promettere ciò che non è stata capace di mantenere in ventotto anni e fino all’autunno scorso, assicurando, per altro, che lo sforzo sarà anche quello di una «formazione » permanente e «specifica» delle nostre forze dell’ordine «al rispetto dei diritti umani». Si vedrà.
Ma per capire l’aria che tira, e la qualità del dibattito parlamentare, è sufficiente registrare l’immediata risposta di Elvira Savino, capogruppo di Forza Italia in Commissione Politiche della Ue alla Camera e una carriera politica nata dall’amicizia con Giampaolo Tarantini e Sabina Began, i buttadentro delle cene eleganti dell’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi. «I corsi di formazione delle forze dell’ordine sono una vergogna».