Non è mai cosa semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l’incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s’impantana in paesi lontani; nessuna guerra, infine, va chiamata guerra.
Il governo italiano è specialista di quest’ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice «addolorato per Gheddafi» senza sentir dolore per le sue vittime non sa la storia che fa, né perché la fa.
A questi luoghi comuni sono affezionati sia gli avversari incondizionati delle guerre, sia i governi che le guerre le fanno senza pensarle, o pensandone i moventi (petrolio e gas libici) senza dirli. I luoghi comuni sempre rispondono al primo istinto, più facile. Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel ‘38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c’è solo la banalità del male. Esiste anche la banalità dell’indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell’indifferenza.
L’Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1,7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli consente (se l’aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7).
Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel ‘94. Nonostante ciò l’Onu è l’unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l’Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell’Unione europea: l’assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. D’altronde l’Onu ha imparato qualcosa dal Ruanda. Nel 2005, su iniziativa dello stesso Kofi Annan, ha approvato il principio della «Responsabilità di proteggere» le popolazioni minacciate dai propri regimi (Responsibility to Protect, detto anche RtoP), anche se è imperativa l’approvazione del Consiglio di sicurezza. È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia.
A partire dal momento in cui questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle guerre è la verità», e quest’antica saggezza va riscoperta. Se l’Italia «non è in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch’essi per Gheddafi? È questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un’intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l’ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri Michèle Alliot-Marie?
Ma forse c’è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all’esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l’Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l’America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. In parte è l’Onu, prigioniera dei protagonismi nazionali, a evitare parole chiare. Di qui le tante ambiguità della risoluzione sulla Libia: un testo che vuol accontentare tutti e in realtà non sa quello che vuole, né quello che non vuole. Perfino sulla questione cruciale regna il buio: non si vuol spodestare Gheddafi, e però non pochi chiedono proprio questo. Il primo a tentennare è Obama: stavolta non vuole cambi di regime alla Bush, ma il risultato è che ciascuno nell’amministrazione dice la sua come in un giardino d’infanzia. Il 18 marzo il Presidente annuncia che «il cambiamento nella regione non sarà e non può esser imposto dagli Usa né da alcuna potenza straniera: in ultima istanza, sono i popoli del mondo arabo a doverlo compiere». Tre giorni dopo, il 21 marzo in Cile, ripete che la missione è proteggere i civili ma aggiunge: «La politica degli Stati Uniti ritiene necessario che Gheddafi se ne vada: tale politica sarà sostenuta da mezzi aggiuntivi». Ben altro aveva detto domenica il capo di stato maggiore Michael Mullen: l’obiettivo è di «limitare o eliminare le capacità del dittatore di uccidere il proprio popolo e di sostenere lo sforzo umanitario», non di provocare un cambio di regime. Per lui, Gheddafi può anche restare al potere.
Non è l’unica ambiguità: gli interventisti proclamano di non volere occupazioni né attacchi terrestri, ma nutrono parecchi dubbi in proposito. Anche perché con la sola aviazione e gli spazi aerei interdetti si ottiene poco, o peggio ancora: in Bosnia-Erzegovina, la no-fly zone fra il ‘93 e il ‘95 non impedì il massacro di 8000-10000 musulmani bosniaci a Srebrenica, città sotto tutela dell’Onu.
Non meno equivoco è il ritardo con cui l’Onu interviene. Il divieto di sorvolo poteva essere imposto prima, quando Gheddafi non aveva ancora riconquistato città e creato una spartizione di fatto della Libia. Uno dei difetti dei cieli interdetti è la scelta dei tempi. Le no-fly zone in Iraq (1991-2002) furono istituite dopo che a Nord l’orrore era già avvenuto (3.000-4.000 villaggi curdi distrutti da Saddam con armi chimiche, nell’88, più di 1 milione di morti), e nel Sud il divieto restò inascoltato.
L’Europa non solo è inesistente, ma pericolosa nella sua frantumazione: la scommessa fatta da Obama sulla sua autonomia è fallita, e non per sua colpa. Uno dei motivi per cui Lega araba è incollerita pur volendo l’intervento è la fretta di Sarkozy, che ha fatto partire i propri aerei senza mai consultare gli arabi. Non basta qualche aereo del Qatar per riempire il vuoto, abissale, di politica. Sarkozy interventista pensa ai suoi casi elettorali non meno della Merkel anti-interventista: di qui il litigio sulla guida o non guida della Nato. Quanto all’Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: «La politica internazionale attuale dell’Italia non è che politica di rimorchio. L’Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d’iniziare un affare o un’impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce».
Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. La settimana scorsa, la Bbc ha diffuso un dibattito organizzato dalla Fondazione Qatar (il Doha Debate) in cui una platea di giovani arabi discuteva dell’Egitto. La maggioranza ha votato una mozione in cui si chiede di non indire subito le elezioni, perché la democrazia «non si esaurisce nelle urne»: è fatta di infrastrutture democratiche, di costituzioni garanti delle minoranze, di separazione dei poteri. Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici.
Pensando all’Italia, ho avuto l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.