Grazie, Presidente! Grazie, Silvio! Confesso di aver vacillato per un istante sotto la mole delle proteste, contestazioni, indignazioni, distinguo, recriminazioni, persino pianti e lacrime, e ingiurie, calunnie, prese in giro, dileggi e persino sputi in faccia suscitati dal mio articolo sul manifesto del 13 aprile. Per fortuna (attenzione, questa è una battuta), qualche giorno fa, sabato 16 aprile, ho potuto ascoltare il discorso pronunciato dal Presidente del Consiglio all'incontro con quest'altra bella invenzione politico-organizzativa, che è il movimento «Al servizio degli Italiani», e mi sono facilmente persuaso che le cose non stanno affatto come le avevo descritte e interpretate in quell'articolo: stanno molto peggio.
Cosa c'è infatti di nuovo in tale discorso anche rispetto al nostro più recente passato? C'è che Berlusconi ha sentito il bisogno, proprio in questo momento (sottolineo: proprio in questo momento), di pronunziare un'allocuzione così estesa e impegnativa, anche se condita inevitabilmente di qualche inaudita volgarità (del resto, more solito). Egli, evidentemente, nutre oggi la piena sicurezza di poterlo fare, e ci ha tenuto, more solito, a darlo a vedere. Ha parlato, cioè, da vincitore, o che si crede tale (per lui spesso sono la stessa cosa, e questo, inverosimilmente ma incontestabilmente, aumenta sempre la sua potenza di fuoco).
Ne è scaturito un vero e proprio, impegnativo, denso e suggestivo, programma di lavoro, che torna orgogliosamente alle origini, ricostruisce, come forse finora non era mai accaduto con tanta chiarezza, una propria genealogia politica (dal pentapartito anticomunista pre-'89 a Bettino Craxi, non a caso tutti liquidati a loro tempo dalla protervia eversiva di magistrati di sinistra, anticipatori di quelli che oggi perseguitano lui), si spinge con grande sicumera fino alla fine della legislatura, si propone di riempire i prossimi due anni di tutti gli strumenti atti a vincere di nuovo le elezioni, va ancora oltre, disegna a tutto tondo un ritratto dell'Italia da ricostruire.
Nella sostanza questo discorso, questo programma di lavoro si può legittimamente considerare come il vero, autentico Manifesto di una visione pre e para-dittatoriale dell'agire politico in Italia. Suggerirei, a chi ne ha i mezzi tecnici, di rivedere il filmato al rallentatore, isolando, e tornando più volte a rivedere, i momenti culminanti di tale discorso, che andrebbero uno per uno ritrasmessi e illustrati per la chiarezza interpretativa di ascoltatori ed elettori. Come in tutte le progettazioni politiche che si rispettino, la costruzione del nuovo è preceduta dalla decostruzione del vecchio: e qui la decostruzione è totale. Il forsennato odio per qualsiasi forma di «giudizio» (l'Unto del Signore non può essere giudicato) mette al centro del programma l'annichilimento della macchina giudiziaria italiana, l'avvilimento subalterno, quasi servile, dei pm, la separazione e insieme lo smembramento delle funzioni, la persecuzione, minacciata e gridata, dei giudici e dei pm che fanno il loro lavoro, la subalternità della magistratura al potere politico.
Ma poi tutto il resto è coerente con questo disegno di decostruzione totale. Pensate al virulento attacco alla scuola pubblica. Perché costui ce l'ha tanto con i «professori», nella grandissima maggioranza dei casi onesti funzionari dello Stato, che fanno un lavoro di enorme responsabilità, sottopagati e sottostimati? Ma perché - come io vado sostenendo da tempo, e mi ostino a ripetere in tutte le situazioni - la scuola pubblica italiana, con tutti i suoi difetti e tutte le sue povertà, è uno degli architravi portanti dello spirito di unità e civiltà nazionali, il luogo dove programmaticamente si cerca di formare coscienze non succubi e non subalterne. Per questo diventa così esplicitamente il secondo obiettivo da distruggere dopo la magistratura. L'attacco ai libri di testo fa il resto. E chi potrà impedire che, secondo una sciagurata consuetudine storica, che pensavamo seppellita nel nostro più fosco passato, si passi in breve dai libri di testo ai libri tout court, alle case editrici che li pubblicano, ai loro autori malfamati e perciò destinati a entrare in un nuovo indice a uso e consumo dell'Unto?
E poi: l'attacco al meccanismo faticoso e snervante del gioco parlamentare (se ne farebbe volentieri a meno), la denuncia accorata dell'impotenza del governo e in modo particolare, ovviamente, del suo Capo, l'inceppo intollerabile rappresentato dalla Coste costituzionale, l'eccesso di potere (almeno per ora) nelle mani del Presidente della Repubblica... Insomma: tutto da cambiare, tutto da riformare, tutto da decostruire e rendere impotente, affinché tutto sia più soggetto al suo potere. La prospettiva che ne scaturisce è quella di un cambiamento radicale di struttura e costituzione formale e materiale dello Stato democratico e repubblicano, in vista di un accentramento dei poteri nelle mani del Capo, cui farebbe da pendant illusorio una diffusione crescente delle libertà individuali nel paese, secondo il principio - cui il Capo del resto si è esemplarmente ispirato nel corso di tutta la sua carriera e che anche in questo caso ha eloquentemente perorato - per cui «è lecito tutto quello che ti fa comodo». Non parliamo in questo quadro di diritti del lavoro e di obblighi di solidarietà sociale, tramontati ovviamente insieme con tutto il resto. E non parliamo, ma solo per ora, delle questioni attinenti all'unità politico-istituzionale del paese, da decidere più avanti con i complici della Lega.
Facciamo ora un passo, anzi due indietro. La domanda che innanzi tutto ponevo nel mio precedente articolo era: è vero o non è vero che esiste in Italia una situazione di rischio mortale per la democrazia ad opera del progetto politico e, se si vuole, anche della megalomania (ma questa è l'associazione che sempre si verifica in casi del genere) dell'attuale Presidente del Consiglio? Questo è il punto, questo è il punto, questo è il punto. Non mi pare sconsiderato affermare che l'ultima uscita sua - quella di cui abbiamo testé parlato - formalizzi e per così dire istituzionalizzi i presupposti di tale analisi e di tale previsione. Certo i fattori della crisi sono anche altri: per esempio, la debolezza della prospettiva politica e della coesione ideale delle forze di centrosinistra, come mi rammenta Pierluigi Battista sul Corriere della sera. Ma se questo è vero, non è vero e anche più decisivo l'altro fattore - l'attacco alla divisione dei poteri, al sistema delle garanzie, all'indipendenza dell'ordine giudiziario e al «pubblico» in tutte le sue forme - di cui invece non si parla o si parla troppo poco e quasi di sfuggita?
Se anche questo è vero - e questo, sì, questo io penso che sia assolutamente vero - ne scaturiva la seconda domanda: come si affronta, e si supera, una crisi verticale della democrazia che avanza a colpi di infrangibili e inattaccabili, sorde e mute, maggioranze parlamentari? È qui che la mia proposta di istituire a partire dall'alto uno «stato di eccezione» volto a garantire il ritorno alla «normalità» democratica, contro l'attuale fase di degenerazione estrema del sistema, ha suscitato proteste e dissensi anche in campo amico. Sono corse castronerie bipartisan d'ogni tipo - dal golpe militare alla «dittatura democratica», e altro - mentre non era impossibile capire (lo hanno fatto con grande chiarezza Paolo Flores d'Arcais e Furio Colombo sul Fatto quotidiano e Piero Bevilacqua sul manifesto), che forzare intenzionalmente la natura della soluzione avrebbe significato costringere tutti ad uscire allo scoperto - come è accaduto, e come forse con una più piana e perbenistica dimostrazione non sarebbe accaduto.
Comunque, accantono la proposta ma rinnovo la domanda: come si affronta, prima che sia troppo tardi, l'inedita questione, per cui il precipitare di una democrazia verso un'(altrettanto inedita) forma di governo populistico-autoritario, avviene a colpi di maggioranza parlamentare? Ci si può accontentare del residuo, sempre più disperato gioco delle parti all'interno delle Camere? È possibile invece prevedere una consultazione preventiva e non necessariamente pre-elettorale di tutte le forze di opposizione - tutte le forze di opposizione - per una denuncia clamorosa di quanto sta accadendo? Si può tornare a ragionare distesamente delle prerogative in materia del Capo dello Stato (io, ad esempio, nella mia ignoranza giuridica, non penso affatto che l'art. 89 della Costituzione ponga delle condizioni ostative nei confronti dell'applicazione dell'art. 88, ma naturalmente bisognerebbe discutere)? Non sarebbe auspicabile una dichiarazione solenne da parte di chi può che l'indipendenza della magistratura e il sistema delle garanzie (Csm, Corte Costituzionale) non si toccano - anzi, non si possono toccare? E, infine, per tornare al linguaggio duro, non sarebbe meglio prevedere e favorire - e perciò ben governare - una crisi istituzionale invece di aspettare passivamente tutte le conseguenze negative striscianti? Insomma, scegliete voi, purché scegliate, e scegliate presto, perché non c'è più tempo.
Tutto ciò, probabilmente, non avrebbe l'urgenza che io sento e vedo, se nel frattempo, come sempre è accaduto in tutte le consimili situazioni del passato, non si fosse scatenato l'esercito dei cani da guardia del sistema, cui è demandato per professione il compito di far piazza pulita delle menti libere e dello spirito critico - spirito critico sempre commendevole anche quando sbaglia. La caccia è aperta. A chi? Ma all'untore, ovviamente, mentre nel frattempo da tutti i pori del sistema spira indisturbata la pestilenza. Non è anche questo un argomento degno d'esser trattato nel quadro dell'attuale degenerazione del costume etico-politico italiano? Giro la domanda ai politici perbene e a quei commentatori che non hanno rinunciato a vedere al di là del proprio naso e della propria (non in tutti i casi egualmente stimabile) buona educazione.