« La Repubblica, 26 agosto 2016 (c.m.c.)
Oggi, a metà agosto 2016, leggo che sono già 2500 i migranti annegati nel Mediterraneo tra gennaio e maggio, un terzo in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. E leggo anche che da gennaio in Francia sono morte 68 donne, uccise dai loro compagni o dai loro ex senza che la notizia finisse mai in prima pagina, giusto un caso di cronaca come tanti. Queste statistiche, che sembrano avere in comune soltanto la morte di esseri umani e l’indifferenza, l’accettazione fatalista che essa provoca, mi sono tuttavia parse, in maniera intuitiva, meritevoli di una riflessione.
In quanto donna che sa quanto sia stato lungo il cammino fatto per ottenere l’uguaglianza dei diritti con gli uomini, che si è rallegrata di vederla figurare tra i “principi fondamentali” dell’Unione Europea, mi sento spesso preda di turbamenti, e scoraggiata. Ci si dice, dati alla mano, che le ragazze hanno un tasso di successo scolastico superiore a quello dei ragazzi, che svolgono ogni professione, che sono “presenti” dappertutto, come se ancora non si trattasse di qualcosa di scontato.
Ma presenti quanto, come? Queste giovani donne con più titoli di studio dei loro colleghi scompaiono per incanto prima di varcare la soglia degli uffici dirigenziali, nelle imprese, in politica, nei consigli di facoltà, nelle giurie letterarie. La lista è lunga. Quanto a quelle che, in maniera comparabile agli uomini, sono riuscite a realizzarsi come ministre, artiste, scrittrici, registe, umoriste, imprenditrici, arriva sempre un momento in cui tutte, chi più chi meno, provano l’impressione confusa di non essere considerate nei rispettivi ambiti “legittime” o “credibili” quanto i loro omologhi maschili, spesso a causa dei modi accondiscendenti, dell’eccessiva confidenza, nonché talvolta della violenza verbale cui sono esposte. Una violenza verbale che risulterebbe scandalosa se a farne le spese fosse un uomo, una violenza che riduce le donne ai loro corpi, le essenzializza.
Edith Cresson, la sola donna che finora abbia ricoperto l’incarico di primo ministro in Francia, constatava: «Se un uomo urla davanti all’Assemblea nazionale si dice: che oratore! Se a farlo è una donna si dice: guarda che isterica!». Non sopportando di essere vittimizzate, il più delle volte queste donne, e ne faccio parte anch’io, oppongono alle aggressioni la loro calma e la loro forza. Ma non fraintendiamoci: ciò che davvero sottintendono questi attacchi è la “normalità” implicitamente riconosciuta del potere maschile, nella sfera pubblica ma anche in quella privata.
Una normalità che autorizza l’accondiscendenza e le frasi umilianti, ma anche — derivanti da un’identica sensazione, dalla convinzione di poterlo fare — i palpeggiamenti, gli stupri e le violenze coniugali. Una normalità che comporta il silenzio di chi la subisce, e l’indifferenza dei media. Per fare i conti con questa realtà abbiamo avuto bisogno che, 13 anni fa tra qualche giorno, morisse un’attrice celebre, Marie Trintignant, per le percosse del suo altrettanto celebre compagno, il cantante Bertrand Cantat: non c’è donna che sia al riparo dalla violenza fisica maschile, fino a morirne.
Qual è il legame tra quanto di peggio possa capitare a una donna — questa espressione estrema di un’egemonia maschile manifesta e condivisa — e i naufragi di migranti nel Mediterraneo? Cercando di vederci più chiaro su quanto mi è venuto da collegare intuitivamente, direi che in gioco c’è il posto delle donne all’interno di un’Europa che si sta via via trasformando in una fortezza. A nessuno sfugge il ripiegamento dei Paesi europei sulle proprie identità nazionali, né il fatto che i migranti vengano percepiti nel migliore dei casi come un “problema”, nel peggiore come un “pericolo”.
Ora, nella Storia il nazionalismo è sempre stato accompagnato da valori virili, in primo luogo quello dell’autorità. Il richiamarsi a un ordine “naturale” e il ritorno alla tradizione, qualunque essa sia, sono sempre andati a svantaggio delle donne, in un modo o nell’altro. Alcune conquiste sono fragili: lo è il diritto alla contraccezione, lo è il diritto all’aborto. E aggiungerei anche il matrimonio omosessuale, a sua volta accusato da chi gli si oppone di essere contro-natura.
Assisto all’avanzata di questa ideologia conservatrice e intollerante giorno dopo giorno. Anche la cronaca francese di questi giorni me ne offre un esempio, insidioso e ingannevole: il divieto di indossare il burkini, emanato e difeso da sindaci — maschi — che lo giustificano adducendo, tra i vari pretesti, anche quello del femminismo, ergendo insomma il bikini a vessillo della nostra libertà.
L’inganno sotteso è quello di avallare in nome della libertà delle donne un tipo di provvedimento che conduce all’esatto contrario, dal momento che proprio a delle donne impedisce di vestirsi come vogliono nello spazio pubblico di una spiaggia. Il provvedimento ha suscitato un dibattito nazionale, cosa che apparirebbe surreale se non fosse evidente che si tratta di un’altra zuffa per il controllo del corpo femminile: è questo il punto a cui siamo nel 2016.
Non posso terminare questo mio breve contributo alla celebrazione di quel manifesto di Ventotene che ha gettato le fondamenta dell’Unione Europea se non auspicando l’avvento di un’Europa sociale e aperta, rivolta verso il mondo, un’Europa che sia la migliore garante della libertà delle donne.