Comune.info,11 settembre 2016 (c.m.c.)
Lo spazio pubblico, che ha nel suo atto fondativo l’esclusione delle donne, si è andato sempre più femminilizzando, ma sembra al medesimo tempo diminuita progressivamente la conflittualità tra i sessi, proprio là dove l’impatto con saperi e poteri marcatamente maschili — l’economia, la politica, la scienza, ecc.— faceva pensare che sarebbe riemersa con forza. Permangono pressoché inalterati luoghi storici, come la scuola e i servizi sociali, dove una predominante presenza femminile è garantita dalla continuità con quella “naturale” o “divina missione,” che vuole la donna «madre per sempre, anche quando è vergine,» oblativamente disposta alla cura, anche fuori dalla mura domestiche.
Ma la femminilizzazione è andata oltre, spingendosi fin nelle pieghe del tessuto sociale, esaltata come fattore di innovazione e risorsa preziosa da un sistema economico, politico, culturale che risente del declino di antichi steccati tra sfera privata e sfera pubblica, natura e cultura, sessualità e politica — quelle linee di demarcazione che hanno permesso finora alla comunità storica degli uomini di pensarsi depositaria di un marchio di umanità superiore.
Sui giornali più vicini alla Confindustria, come Il sole24ore, non c’è giorno che non si elogi il “valore D,” il contributo di qualità relazionali che le donne possono portare ai livelli alti del management, in soccorso di un sistema produttivo sempre più flessibile e immateriale. Nelle professioni, e in generale nei rapporti di lavoro, si celebrano esempi eroici di “supermamme,” capaci di eccellere allo stesso modo nella cura di un figlio e nella carriera.
Libertà, diritti acquisiti, non sembrano aver scalfito alla radice l’aspetto più accattivante dei ruoli sessuali, la complementarietà, «quel profondo, benché irrazionale istinto» — come ha scritto Virginia Woolf— a favore della teoria che solo l’unione dell’uomo e della donna, del maschile e del femminile, provoca «la massima soddisfazione,» rende la mente «fertile e creativa.» Di questo ideale ricongiungimento di nature diverse si alimenta l’amore di coppia e il suo antecedente originario, la relazione madre-figlio. Poco, o per nulla indagate dal femminismo, queste zone più intime del rapporto tra i sessi, ricompaiono oggi, deformate, sotto la maschera di una emancipazione che stentiamo a riconoscere come tale.
Al posto della rincorsa omologante a essere come l’uomo, sono gli attributi tradizionali del femminile – le «potenti attrattive» della donna, di cui parlava Rousseau, e cioè la maternità e la seduzione – a essere impugnate come rivalsa, appropriazione di potere, scalata sociale. Se l’emancipazione del passato poteva essere vista come «fuga dal femminile» screditato, oggi è il femminile stesso – il corpo, la sessualità, l’attitudine materna – a emanciparsi come tale, e a prendere nello spazio pubblico il posto che compete a un complemento indispensabile alla cultura maschile.
Il patriarcato sta divorando se stesso, scricchiolano le impalcature su cui si è costruita la polis, alle donne, le escluse-incluse di sempre, si offre l’occasione per portare allo scoperto quel potere di indispensabilità all’altro di cui si sono fatte forti finora solo nel privato. La femminilizzazione della sfera pubblica ammorbidisce il conflitto tra i sessi, e come nell’illusione amorosa, fa balenare la possibilità di una ‘tregua.’ Ma, proprio come per l’amore, lascia aperto il dubbio che sia invece, come ha scritto Pierre Bourdieu nel suo libro, Il dominio maschile (Feltrinelli 1998), la forma più insidiosa, perché invisibile, della violenza simbolica.
Quella che vediamo oggi sulla scena pubblica è una situazione molto diversa, si potrebbe dire capovolta, rispetto agli anni Settanta, e molto lontana dai cambiamenti che si prospettava il femminismo, sia riguardo al rapporto uomo-donna, sia riguardo ai legami da riscoprire tra ‘personale’ e ‘politico.’
Il corpo, e tutte le vicende che lo attraversano —nascita, morte, sessualità, maternità, malattia, invecchiamento, ecc— non è più il rimosso della sfera pubblica, la parte, pur essenziale, dei bisogni e dei comportamenti umani che è stata svalutata, perché più vicina alla natura, a pulsioni incontrollabili, consegnata al sesso femminile come destino, sottoposta a un potere patriarcale più feroce e illimitato di quello pubblico.
Particolarmente sovraesposto è il corpo femminile, come corpo vittima di violenza manifesta e psicologica — stupri, maltrattamenti, omicidi domestici, molestie, finalmente denunciati dalle donne stesse —, ma anche come corpo al centro di forme di prostituzione più o meno esplicite: corpo mercificato, usato come ‘risorsa,’ ‘capitale’ che le donne impugnano a proprio vantaggio, scambiandolo con carriere, denaro, successo.
Nasce allora spontanea una domanda provocatoria: i corpi femminili che vediamo muoversi nel luogo da cui sono stati a lungo banditi sono corpi liberati o corpi prostituiti? Sono donne che si sono riappropriate della propria vita, sciogliendola da un ‘destino naturale’ e disponendone liberamente, o sono schiave volontarie, donne che decidono di impugnare attivamente e nel proprio interesse quella che è stata storicamente la condizione del loro asservimento: il corpo oggetto, messo al servizio dell’uomo? La richiesta di ‘doti femminili,’ come ‘valore aggiunto,’ viene oggi dagli ambiti più diversi e più imprevedibili della società maschile — dall’industria dello spettacolo e dalla pubblicità, ma anche dall’economia, da una politica sempre più mediatica. Non meraviglia che siano le donne stesse a decidere di ‘usarle,’ ‘metterle al lavoro,’ ricavarne un beneficio.
A prendere rilievo sono i due attributi del ‘femminile,’ considerati a lungo ‘naturali’: la seduzione e la maternità. Se nel primo caso è più facile lo slittamento verso forme vicine alla prostituzione, a cui rimandano in parte le figure delle ‘escort,’ delle ‘veline,’ delle ‘donne immagine,’ nell’altro, quello che ha a che fare con la produzione e che valorizza le capacità relazionali, la flessibilità, le competenze ‘domestiche’ femminili, la retorica del materno impedisce di vedere l’aspetto di subalternità, di messa a servizio, che conferma, nella vita pubblica, il destino famigliare della donna, quel lavoro gratuito di cura, gratuito e invisibile perché confuso con l’amore. Non si esce, in entrambi i casi, da una soggettività femminile vista come ‘oggetto,’ merce preziosa, che resta, nonostante l’uso che oggi tendono a farne le donne stesse, in una posizione di asservimento rispetto al sesso dominante.
Femminilità al lavoro
Mentre il privato avanza minaccioso a minare le istituzioni della vita pubblica, nell’ambito lavorativo la presenza femminile, il sapere maturato in quel luogo ‘altro’ dalla polis che è la casa, appare imprevedibilmente come la via d’uscita alla crisi di un sistema produttivo rimasto storicamente il caposaldo del dominio maschile. La «potenza dell’amore» e la «coercizione al lavoro,» dopo essersi fatte a lungo la guerra, sembrano oggi destinate a un ideale ricongiungimento, per effetto della rivoluzione che sta attraversando l’economia e per l’opportunità che essa potrebbe offrire alle donne di far riconoscere il valore del talento femminile, a lungo ignorato. «Professionalità sensuale,» «intelligenza emotiva,» «pensiero emozionale,» sono le forme linguistiche che prende il sogno d’amore —armonia di nature opposte e complementari— , quando si trasferisce dalla relazione di coppia all’ambito lavorativo.
Il mito dell’interezza, che accompagna da sempre la cultura maschile, come nostalgica immaginaria riparazione a tutti i dualismi che ha prodotto, a partire dal diverso destino riservato a uomini e donne, viene oggi reclamato da versanti apparentemente opposti: da un lato, la centralità che stanno prendendo nel sistema produttivo le relazioni e i servizi alla persona, e di conseguenza il corpo, la dimensione affettiva e sessuale; dall’altro, l’affermarsi di un “desiderio” femminile che rifiuta l’alternativa tra la cura dei figli, della casa, e la volontà di «stare nel mondo,» che pensa di poter fare dell’esperienza della quotidianità «una leva per cambiare il mercato del lavoro.»
Il venir meno dei confini tra la casa e la pòlis sembra aver aperto il campo ad una ambigua ‘femminilizzazione’ dello spazio pubblico, e ad una non meno ambigua mercantilizzazione della vita intima. Se la precarizzazione, la perdita di diritti e garanzie certe, la pluralità imprevedibile delle occupazioni, fanno apparire il tempo di lavoro sempre più pervasivo e soffocante, e il capitalismo globale “un vampiro,” l’ingresso delle donne in ruoli manageriali di grandi aziende accende al contrario la speranza di poter ridefinire con un segno proprio poteri e regole organizzative della produzione, tradizionalmente riservati agli uomini.
Una volta cadute le barriere che hanno tenuto le donne, e tutto ciò che dell’umano è stato identificato col loro destino, confinati in una sorta di natura immobile, ignorata per quanto essenziale alla conservazione della specie, era inevitabile che la “differenza femminile” si mostrasse in tutta la sua contraddittorietà: potenza materna e risorsa sessuale assoggettate e poste al servizio dell’uomo, manodopera di riserva subordinata alle necessità del ciclo produttivo, libertà e creatività esaltate nell’immaginario e storicamente insignificanti.
La riflessione prodotta dal femminismo sulle esperienze lavorative di donne di età e collocazione sociale diversa hanno oscillato, non a caso, tra marcare il “vantaggio,” il “di più” di competenza che verrebbe oggi al femminile dalla nuova economia, e ammettere invece la deriva verso forme di autosfruttamento, estese alla vita intera. L’Eros, che insieme alle donne e alle attitudini un tempo nascoste nel privato si fa strada dentro le rigide, impersonali impalcature delle organizzazione del lavoro, conserva il suo volto duplice trasferendosi contemporaneamente in “lavori marchetta” e in materia emozionale, creativa, per forme inedite, armoniose, di un potere non più separato dalla vita.
Se c’è chi cerca di svincolarsi dal coinvolgimento eccessivo, scegliendo lavori che non offrono «possibilità di grande soddisfazione,» e tanto meno conferme identitarie, altre fanno dell’azienda il luogo tanto atteso della «costruzione di sé,» di una affermazione di esistenza, prima ancora che di riuscita professionale: Si chiede al dipendente di mettere in gioco una certa corporeità, ammiccante e sorridente.
E’ possibile che si vada creando un contesto prostituzionale allargato, legato al fatto che, quando l’attività relazionale tende a prendere il sopravvento, il soggetto debba anche lasciare agire, usare, sfruttare le capacità del corpo e la mimica della profferta sessuale … Nei lavori atipici la componente personale e relazionale ha un peso sempre più importante, sia nel contesto del lavoro che nella relazione contrattuale col padrone. Debbo imparare a vendermi bene, a rendermi appetibile. Non conosco i miei diritti, non saprei con chi discuterne nel mio posto di lavoro.
La discussione che riguarda le donne e il lavoro, da qualunque parte venga fatta, non riesce a sottrarsi al binomio uguaglianza/differenza, che ha contagiato anche parte del femminismo, nonostante si sia affermata da tempo la consapevolezza che si tratta di un falso dilemma imposto dal potere maschile. Se è stato facile, per la generazione degli anni ’70, prendere distanza da un’idea di emancipazione che andava a confondersi con modelli virili, più tortuoso e tuttora incerto si è dimostrato il processo di liberazione che avrebbe dovuto criticare ogni forma di dualismo, di complementarietà, di riunificazione degli opposti.
Colpisce il fatto che siano proprio le donne, nel momento in cui si sfrangiano e si eclissano le identità e le appartenenze di ogni tipo, a impugnare, come rivalsa o affermazione di autorevolezza, una ‘natura’ o un ‘genere’ femminile usati dalla civiltà dell’uomo per tenere le donne in uno stato di minorità sociale, giuridica e politica. Ma forse sta proprio in questa “incongruenza” uno dei nodi irrisolti della questione dei sessi. D’incongruenze e contraddizioni sono piene, non a caso, le analisi che più esplicitamente si sono poste l’obiettivo della «valorizzazione delle differenze di genere.»
La conciliazione di amore, cure materne e lavoro, la ricerca dell’interezza della persona, nonostante le evidenti ricadute “ancillari,” sia nel privato che nel pubblico, continua a essere perseguita dalle donne stesse, incuranti delle fatiche e delusioni a cui vanno incontro. All’accanimento nel volere che sia riconosciuta l’ “autorevolezza” femminile anche in ambito produttivo, fa riscontro la messa in ombra del potere, ancora saldamente in mano maschile, e degli interessi economici dominanti.
Ma è solo il bisogno di essere amate, l’attesa di una contropartita affettiva, a tenere le donne ancorate al sogno di una «armoniosa famiglia integrata»? Nel capovolgimento delle parti, non è forse una femminile onnipotenza -accedere al potere pubblico senza rinunciare a quello privato, seduttivo e materno- che inconsciamente le donne desiderano e gli uomini temono?
L’interrogativo si potrebbe formulare anche in un altro modo. Se oggi è il sistema produttivo, la nuova economia, ad aver bisogno del “valore D,” come vanno ripetendo da tempo i giornali della Confindustria, perché le donne in carriera notano tanta resistenza dei loro “capi” a riconoscere l’apporto creativo a un migliore funzionamento dell’azienda che esse possono dare? Perché prevale la tendenza a “usare” la loro dedizione materna, la “sovrabbondanza” del loro impegno lavorativo, come avviene per quel ‘dono d’amore’ che è, nella famiglia, il lavoro di cura?
E’ come se ci fosse, dentro l’economia capitalista, un residuo patriarcale che ne frena lo sviluppo: i dirigenti, coloro che hanno il potere di decidere avanzamenti di carriera, definire i criteri di valutazione, sono innanzitutto uomini, che non hanno alcun interesse a lasciarsi crescere al fianco, nei luoghi storici della loro autonomia, una potenza femminile più libera e più forte di quella conosciuta nel privato.
Oggi, pur restando ancora predominante nei servizi alla persona, la presenza femminile ha guadagnato terreno: a richiedere ‘competenze’ femminili, capacità relazionale, flessibilità, è il sistema produttivo stesso, la nuova economia incentrata sul lavoro cognitivo, immateriale. Alla ‘differenza’ femminile si aprono territori inaspettati, ma ancora una volta può fare la sua comparsa solo come ‘risorsa,’ ‘merce preziosa,’ ‘valore aggiunto’ e complementare di un ‘intero’ che non cambia volto, mentre potenzia, nella riunificazione dei due rami della specie umana, le sue capacità.
La scena pubblica viene a prendere la figura di un doppio, l’uomo-femmina, da sempre presente nei miti della cultura maschile, come ricomposizione armoniosa di ciò che la storia ha separato e contrapposto secondo un preciso ordine gerarchico. Il corpo femminile, nella sua duplice valenza — erotica e materna— entra prepotentemente nell’economia e nella politica, dalla televisione al mercato pubblicitario, dai Palazzi del potere alla produzione industriale.
Con un’unica differenza: mentre il corpo nudo della ‘donna-immagine,’ della ‘escort’ o della ‘velina,’ provocano sussulti di indignazione, non accade altrettanto per l’uso, a costo zero, che il potere aziendale fa delle ‘doti materne’ – cura dei rapporti interpersonali, fluidificazione dei contrasti, dispensa di affetti e di attenzione.
Contratti atipici, part-time, assunzioni personalizzate, sembrano oggi venire incontro sia alle necessità del sistema produttivo che al desiderio di molte donne di conciliare maternità e lavoro, il “doppio sì” di cui parla il Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano nel Quaderno di Via Dogana 2008. La ‘cura,’ che le donne prodigano gratuitamente all’interno delle case, svalutata per la contaminazione col corpo e con la dipendenza, con i bisogni essenziali della persona, cambia segno, diventa il valore sulla base del quale rivendicare il part-time come «gesto di libertà femminile,» «autodeterminazione dei tempi di lavoro.»
Il paradosso del femminile, già descritto lucidamente da Virginia Woolf come «insignificanza storica ed esaltazione immaginativa» delle donne, prende nuovi nomi ma non cambia nella sostanza. Una nuova forma di emancipazione, scoppiettante di promesse, rivincite, privilegi inaspettati, viene a prendere il posto delle «oscure carriere» che la Woolf aveva previsto per le generazioni future di donne impegnate nella vita pubblica. Allo sforzo di somigliare all’uomo si sostituisce una strada più facile e più rapida, incoraggiata a quanto sembra da entrambi i sessi: valorizzazione delle attrattive che l’uomo ha visto nel corpo femminile e che, cadute alcune barriere di controllo patriarcale e di pudore, possono essere oggi impugnate dalle donne stesse come ‘rivalsa’ e come ‘capitale’ da far fruttare sul mercato del denaro e del successo.
Lo scambio sessuo-economico, venuto alla ribalta con le vicende berlusconiane, è solo l’aspetto più vistoso di un processo che vede il corpo, la sessualità, ma anche la maternità, emanciparsi in quanto tali. La donna celebra il suo ingresso nella polis come ‘genere’ portatore di ‘valori’ divenuti indispensabili, ma pur sempre ‘aggiuntivi.’ Il bisogno di migliorare i profitti si viene a sposare con quel desiderio di maternità «inscritto nel corpo e nella mente delle donne.»
L’ondata di critiche e di appelli, che giustamente si sono alzati contro il sessismo di Stato e contro la misoginia diffusa nei media, rischia dunque di far passare in ombra una ‘conciliazione’ senza conflitti tra la forza lavoro femminile e un sistema produttivo che, pur nel declino, non ha perso i tratti del potere patriarcale e capitalistico. Amore e lavoro, riunificati nello spazio pubblico, possono far calare di nuovo sulle coscienze il lungo sonno che ha impedito fino alle soglie della modernità di sottrarre alla natura il dominio di un sesso sull’altro.
Riportare alla maternità – come tempo da dedicare a un figlio e piacere di vederlo crescere – la mole di lavoro senza sosta che comporta la quotidiana vita famigliare, fatta di bambini, ma anche di anziani, malati e adulti perfettamente sani, avvezzi ad avere chi si preoccupa del loro buon vivere, significa, di fatto, lasciare che continui a pesare essenzialmente sulle donne la responsabilità delle condizioni indispensabili per la continuità della vita, confermare la loro ‘natura’ salvifica e la loro complementarietà rispetto a un modello dominante maschile a cui si chiede solo di farsi più attento ai desideri dell’altro sesso.
Tornare a nominare, come è stato fatto da alcuni gruppi femministi negli anni ’70, la quantità di lavoro non pagato e spesso non riconosciuto come tale dalle donne stesse, sembra un anacronismo, nel momento in cui le case si riempiono di collaboratrici domestiche e di ‘badanti’ straniere. Ma se si prende in mano un volantino di quegli anni, ci si può accorgere facilmente che la monetizzazione, là dove lo consentono le condizioni sociali, di una parte di lavoro domestico non ha sciolto né l’intreccio di lavoro e di affetti, né la svalutazione che porta ad assegnare la ‘cura’ alla parte svantaggiata della popolazione, né la convenienza per il capitalismo di avere una riserva indefinita e gratuita di servizi confinati nella sfera privata, contro l’evidenza che li vorrebbe al centro dell’etica pubblica e della responsabilità politica.