Repubblica, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)
IL “Gender” è la traccia, nemmeno tanto sotterranea, che tiene insieme molti luoghi dell’opinione, culturale e politica, apparentemente lontani tra loro. È decisamente al centro della campagna elettorale americana, dove le offensive e a tratti violente esternazioni del candidato repubblicano hanno mosso non semplicemente il senso del disgusto, ma la determinazione a reagire.
Il genere conta. Conta anche a guardare la politica americana da parte democratica: perché vi è la possibilità concreta che una donna diventi commander in chief della prima superpotenza. Da un lato le donne sono trattate come “ pussycat” da prendere e usare, secondo una visione del mondo che ci porta molto indietro nel tempo, ai cliché insopportabili dei mad men che come despoti toccano, aggrediscono, usano e promuovono. Dall’altro, sempre più donne, come Michelle Obama, sentono l’urgenza di farsi politiche per ristabilire l’ordine della decenza e della libertà, spiegando dalla tribuna della campagna per Hillary Clinton che non è ammissibile che la vulnerabilità diventi arma di potere nelle mani di un uomo, e che è offensivo per gli uomini che uno di loro li metta tutti insieme nel modello dei “discorsi da spogliatoio”. « Enough is enough » ha scandito Michelle Obama.
Perché il genere produce tanto scompiglio? Perché, dopo decenni di più o meno efficace aggiustamento dei sistemi politici e giuridici alla pratica e alla cultura dei diritti civili, si avverte in ogni ambiente, politico e religioso, culturale e d’opinione, il disagio per la forza che la cultura di genere ha avuto nel trasformare i codici comportamentali e, soprattutto, nel contestare la divisione dei ruoli secondo la lettura maschile del pubblico e del privato?
Parlando dalla Georgia alcune settimane fa, papa Francesco ha fatto sue le preoccupazioni dei cristiani tradizionalisti che animano ogni anno il Family Day. Anche lui ha chiamato in causa la «teoria del gender», una «colonizzazione ideologica» che tenta di ridefinire i contorni naturali del matrimonio tra uomo e donna, sovvertendo l’ordine delle cose.
Il gender però non è una «teoria», non un’arma polemica da usare contro; è invece una cultura dei diritti civili che mette al primo posto la dignità della persona, nella sua specificità, la sovranità della decisione individuale e della scelta. È una cultura della maturità e della responsabilità, non della ludica irresponsabilità. Il genere mette a dura prova le culture sedimentate di ruoli e valori, non mobilita il mondo delle donne contro quello degli uomini. Critica abiti mentali, ruoli istituzionalizzati e linguaggi, e invita, donne e uomini, a leggerli come indicatori di un mondo gerarchico che offende e svaluta una parte dell’umanità, qui quindi tutta l’umanitá.
C’è bisogno di una cultura di genere, anche perché l’appello ai diritti e all’imparzialità della giustizia non ha da solo avuto la forza di cogliere le specificità delle condizioni di dominio e di violenza, di richiamare l’attenzione sul rovesciamento della diversità sessuale in subordinazione. Il genere consente di recuperare la dignità della donna come persona, senza dover azzerare la sua specificità e senza confinare l’esperienza femminile allo spazio del privato.
Questa categoria ci invita a pensare che l’opposto del truculento mondo da spogliatoio di Trump non è la devozione sacrificale della donna ai ruoli domestici. Aspirare alla Casa Bianca è una delle strade che si diramano dalla cultura del genere; una, non la sola. È la pluralità dei percorsi di vita, la stessa pluralità che ogni persona rivendica, la prospettiva che la cultura dei diritti ha contribuito a consolidare.
Guardare il mondo sociale dalla prospettiva del genere fa vedere e sentire come insopportabile ogni forma di discriminazione e di diseguaglianza, da quella che permane nell’uso ordinario della lingua a quella che si sperimenta nel mondo del lavoro e nella forza degli stereotipi. Anche quando il diritto ha acquistato piena cittadinanza in tutte le pieghe della vita sociale. La cultura del genere può svolgere questo ruolo critico perché fondata sul principio della dignità della singola donna e del singolo uomo. Da questa radice hanno preso forza le parole « enough is enough », scandite da Michelle Obama: non si possono tollerare narrazioni di subordinazione, immagini di donne deboli che l’uomo marchia. La forza della cultura del genere si prova qui.