E proprio quella forza, inaddomesticata e assertiva, si respirava tra le migliaia di presenze che ieri hanno cominciato a invadere pacificamente piazza Esedra e che hanno sfilato fino a piazza San Giovanni. Non erano lì per rivendicare, ma per dire che – dalle giovani alle meno giovani – sanno di sé. In effetti non è da ieri che lo sanno, sanno quale è il proprio desiderio, quale è il proprio bene senza tutele da parte di uno Stato che decide di proporre un piano antiviolenza senza neppure consultarle e che invece è proprio con quella piazza colma di appassionata radicalità che dovrebbe parlare.
Sanno della loro forza insomma grazie alla fatica, spesso trascurata o ignorata da finanziamenti risicati senza progetti istituzionali lungimiranti, e al lavoro che da anni molte di loro svolgono nei Centri antiviolenza, nei collettivi, nelle associazioni, nei movimenti.
Le parole più utilizzate, presenti nei cartelli, nei visi, negli ombrelli e nelle tele enormi, sorrette da chi si è dato appuntamento a Roma da tutte le parti d’Italia, raccontavano diverse cose. Intanto che il lessico di una grande, potente mobilitazione passa per una reinvenzione del linguaggio.
In parte – si potrà obiettare – una fenomenologia già conosciuta negli slogan più noti come «Io sono mia» – ripetuto più volte e in diversi punti del corteo – oppure «Le strade libere le fanno le donne che le attraversano». D’altro canto invece si è assistito a una presa d’atto che deve molto al femminismo e a ciò che di esso è circolato anche tra le giovani – e giovanissime – generazioni. Non è un fatto anagrafico ma di generazione anche politica che racconta una materialità e un presente davanti a cui porsi in ascolto.
Tra gli striscioni ci sono stati i confronti di questi mesi, e di questi anni, la consapevolezza di una libertà femminile che sa misurarsi con i molti (non moltissimi) uomini presenti ieri in piazza. Anche loro giovani e meno giovani, insieme a bambine e bambini. Sì, perché nel corteo che ha accolto duecentomila anime, per lopiù donne, quelli che brillavano erano almeno due segnali, importanti e ineludibili: il mutamento dell’immaginario a proposito della narrazione della violenza maschile contro le donne di cui farsi carico insieme e le tante generazioni, trasversali, anche negli anni e nelle pratiche.
La grammatica politica che emerge da Non Una Di Meno e nella presenza dei corpi, dei tantissimi colorati e festosi corpi a raccontare che «la libertà delle donne è la libertà di tutti» o che «migliora la vita di tutti». Questo «sommovimento» dei corpi che svettano sulla retorica, capaci di spiazzare per la leggerezza con cui si presentano, l’ha insegnata il movimento degli anni Settanta, lo insegnano quelle che negli anni Settanta e Ottanta ci sono nate e sanno di essere dentro a una storia precisa. Lo sanno sui loro corpi, e dicono «no» a un tentativo di istituzionalizzazione e di stravolgimento della narrazione su quegli stessi corpi.
UDI, La rete DI.RE e Io Decido, le tre realtà che si sono per prime costituite in rete e che hanno dato il via al progetto di Non Una di Meno, hanno chiarito da subito che si sarebbe trattato di un movimento dal basso e così è stato. Un movimento senza sigle di partito, senza patrocini, in cui a sfilare ci sono state almeno quattro generazioni diverse di donne, dalle ragazze che portavano dentro alle fasce i propri bambini piccoli a intere famiglie, arcobaleno e no. Non è decisivo quando alle forme nucleari si preferiscono le comunità politiche.
Attraversando via Cavour, due signore anziane e minute affacciate alla finestra guardano la marea sotto di loro e fanno con le mani il gesto femminista. Prima una, poi anche l’altra prende coraggio. Il «fiume» sotto se ne accorge e cominciano gli applausi. Ma quelle due signore, di cui la foto ora rimbalza sui social, ridevano felici non certo per essere applaudite. Perché sapevano quel che facevano e quel che stava accadendo davanti ai loro occhi. Sapevano forse che le più divertite erano, come recitava un altro piccolo cartello, quelle «nipoti delle streghe che non siete riusciti a bruciare».
Ora qualcuno scriverà che si tratta di una rinascita del femminismo, o che finalmente le donne si fanno sentire, che sono tornate. Chissà da dove poi. In realtà la manifestazione di Non Una Di Meno è il frutto maturo di un percorso lunghissimo, che non finirà presto e che domani comincerà la sua seconda fase di discussione attraverso i tavoli. Non finirà, bisogna farsene una ragione.
Il motivo per cui si dovrebbe «tremare» non è allora il «ritorno» delle donne, come delle streghe, ma la consapevolezza, chiara, gioiosa, a tratti commossa che le donne ci sono sempre state. Tremate dunque, tremate. È giusto. Perché le donne non se ne sono mai andate.