Cosa sarebbe dell'Italia senza la democrazia? Per capirlo è sufficiente vedere cosa sta succedendo a Pomigliano, in una fabbrica chiusa e riaperta da Marchionne sotto altro nome per cancellare il sistema di garanzie e diritti sindacali e individuali conquistati in più di un secolo di lotte.
Sotto il Vesuvio, lungo le linee della nuova Fiat Panda, la Fiom non ha accesso, è stata messa fuori da un accordo separato che getta alle ortiche il contratto nazionale di lavoro e riconosce qualche sparuto diritto sindacale solo alle organizzazioni che hanno firmato la resa loro e la morte di un altro sindacato che invece non si è arreso. Qui, su duemila «nuovi» assunti non ce n'è uno iscritto alla Fiom. Forse uno o due ce l'aveva quella tessera extraparlamentare, ma per essere assunto l'ha dovuta strappare. Allora, a Pomigliano senza Fiom succede che se un operaio selezionato (politicamente e sindacalmente) non ce la fa a reggere i ritmi infernali del nuovo modello produttivo Fiat, se ritarda di qualche secondo o se monta male un pezzo, non solo viene sanzionato ma a fine turno e senza poter andare in mensa a mangiare è costretto a presentarsi nell'«acquario», un open space dove al disgraziato viene consegnato un microfono e davanti a una folla di capi, capetti e sottocapi deve dire «song n'omm e mmerda». Meglio ancora se accusa il suo vicino alla catena di montaggio per quel ritardo o quell'errore. Così, con meno pause, con la mensa spostata a fine turno, con i ritmi da far paura all'operaio Charlie Chaplin, con il divieto di scioperare e di eleggersi liberamente i propri rappresentanti, con i pubblici atti di dolore e di autoflaggellazione, ci raccontano che la locomotiva Italia riconquisterà la competitività sul mercato globale. E quasi nessuno, tra i monti e i colli di Roma, trova da ridire.
Se così stanno diventando le fabbriche e tutti i posti di lavoro - perché la Fiat fa scuola in Italia, da Pomigliano a tutti gli stabilimenti del gruppo, all'indotto meccanico, chimico e via costruendo e trasportando, e via egemonizzando in Federmeccanica, in Confindustria, al governo dei tecnici, persino dentro il centrosinistra e negli altri sindacati - cosa ne sarà della nostra democrazia? Una democrazia sospesa, e dormiente, una politica che si è consegnata ai tecnici illuminati dalla finanza.
Inutile chiedersi se e quando si risveglierà la nostra democrazia, raccontandoci che saranno gli stessi anestetisti, un giorno, a decidere di aprire le finestre.
Quelle finestre resteranno chiuse, se non ci penseremo noi a spalancarle. Dove il noi comprende tanti pezzi di società non pacificati che stentano a mettersi in comunicazione tra di loro. Bisogna capire, come si ostina a fare la Fiom, che la condizione precaria riguarda l'intero mondo del lavoro e del non lavoro, che non c'è contrapposizione tra difesa dell'articolo 18 che andrebbe semmai esteso a tutti insieme agli ammortizzatori sociali, e battaglia per un reddito di cittadinanza.
Il 9 marzo sarà un'occasione per tutte le voci fuori dal coro del pensiero unico dominante. Lo sciopero generale della Fiom deve diventare un embrione di alternativa allo stato di cose presente, un primo momento di ricostruzione di un progetto comune con cui uscire dalla difensiva.
Ieri a Roma la parte viva del sindacato italiano ha lanciato un appello generale. Con uno slogan - la democrazia al lavoro - e la convinzione che è il lavoro a creare la ricchezza mentre la finanza lo distrugge. I delegati e le delegate metalmeccaniche hanno raccontato un paese in crisi, fabbriche occupate e in cassa integrazione, interi distretti industriali desertificati, regioni come la Sardegna a cui hanno tolto il tappo e adesso rischia di affondare. Ma anche fabbriche salvate dalla lotta coraggiosa della Fiom, come il cantiere navale di Sestri, o prima ancora la Innse. Dunque, è di lavoro e investimenti per un nuovo modello di mobilità e di sviluppo che bisogna parlare, di come creare occupazione qualificata, di come lo stato deve intervenire nell'economia, e non di come rendere ancor più facili i licenziamenti. Invece il centrosinistra si limita a dire che sul mercato del lavoro va bene quel che decidono i sindacati naturalmente uniti e le parti sociali. Di quale unità vanno cianciando, nella stagione degli accordi separati?
La sinistra parlamentare non ha niente da dire sul mercato del lavoro, e neanche vuole vedere quel che succede a Pomigliano. Il dio mercato è diventato anche per loro il regolatore generale che non ammette variabili indipendenti. La sinistra parlamentare non guarda nei call center, o all'università, o nel mondo giovanile a cui è interdetta la possibilità di crearsi un futuro e di accedere a un lavoro se non a condizioni schiavistiche e ricattatorie. Non guarda al trasporto che è diventato un bene di lusso per pochi, perché solo i capitali e i capitalisti possono muoversi liberamente. Gli altri restino a terra. Viva la Tav e abbasso i treni dei pendolari. L'Italia pagherà le multe all'Unione europea perché gli autobus che girano nelle nostre città sono i più vecchi e inquinanti del continente, e la politica non ha nulla da dire quando la Fiat decide di chiudere l'unica fabbrica di autobus italiana per andare a costruire altrove.
Inutile far finta di non sapere per chi suona la campana. Ieri a Roma hanno parlato operai, tecnici, ricercatori, studenti, precari, il popolo No-Tav rappresentato da una sindaca della Valsusa e tanti altri. Quel che succede a Pomigliano non è diverso da quel che sta per succedere o già succede in tutta la società italiana. Bisogna tagliare il filo spinato che stanno stringendo intorno alla Fiom come ai cantieri dell'Alta Velocità.
Come ha detto Maurizio Landini, sbaglia chi si riscalda per i tre delegati persi dalla Fiom a Melfi e non va ad abbracciare gli altri duecento delegati Fiat che non hanno gettato la spugna e ancora stringono in pugno orgogliosamente la loro tessera. Sono quelli che scelgono di abbassare gli occhi al cospetto della moglie e dei figli a cui non riescono più a garantire una vita decente, pur di non abbassare la testa di fronte a Marchionne. Sono quelli che hanno imparato l'insegnamento di Giuseppe Di Vittorio, quando diceva ai lavoratori di non togliersi il cappello al cospetto del padrone. Dopo gli anni Cinquanta sono arrivati i Sessanta, non per grazia ricevuta ma grazie alla tenacia e alle lotte dei lavoratori che più volte salvando la propria dignità hanno salvato la democrazia. Il 9 febbraio la campana suona anche per noi. La lotta che stanno facendo i compagni del manifesto, è stato detto ieri dal palco dell'Atlantico gremito fino all'inverosimile, è la nostra stessa lotta. Questo fa sentire la Fiom e il manifesto meno soli, e un po' più forti.