Festa del Lavoro? Si è già parlato, più o meno scherzosamente, del suo opposto: festa del non lavoro. E dunque, se così è, si può ancora parlare di festa? E si può scendere nelle strade, invadere le piazze, agitare le bandiere, e cantare le canzoni del “Movimento”, e infine, dopo i pranzi fuori porta e le libagioni di rito, ascoltare i concerti che sembrano orma diventati il cuore dei nostri primi maggio? Si può, insomma, ripeto: “festeggiare”?
Sì e no.
Oggi, questa ricorrenza, come non mai, cade in un momento di feroce attacco padronale – mi scuso per la banalità dell’espressione che i miei critici leggeranno in chiave di nostalgismo veterocomunista, ma tant’è – ai ceti proletari e in generale ai subalterni, a “coloro che non hanno e che non sanno”, per citare un esponente del pensiero reazionario italiano, di oltre un secolo fa (tale Mario Morasso, ispiratore della destra più estrema del tempo). Oggi, un Ministero di “tecnici” sta facendo il lavoro sporco che il Governo dei politici non è stato in grado di portare a compimento. Chiediamoci come ci stia riuscendo.
Innanzi tutto per ragioni politiche, ossia nell’ordine: 1) il crollo ignominioso del governo precedente, a cominciare dal suo capo, rivelatosi, agli occhi anche dei suoi sostenitori, un personaggio al di sotto dei più malevoli sospetti, per tacere del suo alleato, il moralizzatore Bossi, che ha superato in grandiosità il marcio della Prima Repubblica e della Seconda, mostrando a che punto il familismo amorale possa giungere: fino all’estremo degrado; 2) l’appoggio della ex Opposizione, in particolare di quel Partito che una volta aveva nel suo statuto ideale, prima ancora che nelle sue pratiche quotidiane, la tutela dei ceti più deboli, a cominciare dalla classe operaia, in quanto “classe generale”, la classe che difendendo se stessa, ossia i propri interessi di classe, difende in realtà gli interessi di tutta la società.
Davanti alla inettitudine e alla corruzione dei berluscones e dei padan-leghisti, col soffio di aria pulita che sembrava giungere dal professor Monti (un po’ meno dalla sua compagine, troppo impelagata in conflitti di interessi, e in taluni suoi componenti palesemente al di sotto degli standard minimi di competenza; vedi il caso del famigerato sottosegretario Martone, quello che aveva chiamato “sfigati” chi aveva un destino meno felice del suo…) è stato quasi obbligatorio fare un’apertura di credito. Ma da qui a infilarsi nella grosse Koalition, alleandosi col nemico, ce ne passa! A meno che quel nemico non sia più tale, e che gli elementi di contiguità o di vicinanza siano maggiori e più forti di quelli di distanza e differenza. In ogni caso, in particolare il Partito democratico si è messo in un pasticcio politico dal quale non gli sarà facile levarsi. Con chi sta oggi quel partito: con la signora professoressa Fornero o con i pensionati a 7/800 euro al mese? Con Martone o con i giovani “sfigati”? Con i cassintegrati a zero ore o con il superministro Passera? Con le decine di migliaia di precari della ricerca o con il già rettore del Politecnico torinese, già presidente CNR, e ora ministro di Università e Ricerca, professor ingegner Profumo?
Ci sono situazioni in cui occorre scegliere e non solo perché, come ricorda Nicola Abbagnano in un suo libro di mezzo secolo fa, “esistere è decidere”, ma perché la politica, che è anche arte della mediazione e del compromesso, è soprattutto scienza della decisione, tenendo presente i possibili esiti delle proprie decisioni a breve, medio e lungo termine. E se non decidiamo noi, la nostra parte politica, sono altri a decidere per noi. E non è l’economia a decidere: sono gli esseri umani, portatori di passioni, pulsioni, valori e disvalori, e soprattutto interessi. Ecco perché il “governo dei tecnici” è un imbroglio, una volta ribadito quanto già più volte ho scritto su queste pagine: con Berlusconi e Bossi avevamo al potere un cricca di malaffare, ora abbiamo un canonico “comitato d’affari della borghesia”.
L’imbroglio nasce dall’ideologia, così diffusa in questi anni di crisi, e che si è trasformata ora in pratica politica, secondo cui l’economia sarebbe una scienza oggettiva, null’altro che la “naturale” esplicitazione della necessità delle cose, nel loro inevitabile, fatale andare. Ci hanno insomma convinto che l’economia è una scienza neutra, e come scienza non può essere che capita da scienziati e applicata da tecnici; e quindi il cittadino non può che accettare, e che quando l’economia “va bene”, siamo contenti, ma quando “va male” non possiamo che accettarne le conseguenze, su individui, famiglie, imprese. Insomma, che “non c’è nulla da fare”: bisogna pagare, oggi, per guadagnare domani, piegarsi all’imperio della Legge, ora, per potere rialzar la testa poi. E ci hanno imbottito il cervello ripetendoci che “siamo tutti nella stessa barca”. Ma c’è qualcuno che su quella barca rema, altri lavano i cessi, altri, invece, sono in coperta a godersi un daiquiri sotto la tenda che li ripara da troppo sole, mentre cianciano dei prossimi investimenti o di quanto sia diventata impossibile la vita a Portofino, dopo le incursioni della Guardia di Finanza…
E il governo dei tecnici, il ministero dei grandi esperti, la compagine dei bocconiani e cattolici militanti, che cosa ha partorito? Aumento delle imposte e delle tasse, in particolare delle imposte indirette – le più facili e le più inique, perché colpiscono indiscriminatamente ricchi e poveri –, scelte politiche inaccettabili mascherate da necessità o ovvietà: l’acquisto di nuovi aerei militari, dai costi stratosferici, la conferma inossidabile della Tav in Val di Susa, la prosecuzione del costosissimo impegno militare in Afghanistan. E ci vogliono far credere che si tratti di decisioni obbligate!
Le politiche di questo governo, come del precedente, insomma, non sembrano in grado di affrontare i problemi di fondo del Paese, che certo non si risolvono con lo stile ragionieristico di Monti, né con il piglio goffamente autoritario della Fornero, o il vacuo efficientismo di Passera, o le menzogne e le banalità dei ministri addetti a Sanità e Ambiente. I ricercatori vessati, gli insegnanti umiliati; gli scolari e studenti penalizzati; i professori di università costretti a cercare rifugio all’estero; i disoccupati, gli esodati, i licenziati, i de localizzati, i cassintegrati; le vittime (morti, feriti, invalidi) sul lavoro, o meglio di lavoro; i lavoratori in nero; i suicidati. Operai, impiegati, imprenditori: quanti sanno che è nata in aprile a Vigonza (Padova) un’Associazione dei familiari degli imprenditori morti suicidi? Nel 2012, i morti di propria mano sono stati, fino a metà aprile, 23. (Giunge ora la notizia di un altro suicida: o meglio suicidato: un imprenditore edile sardo, costretto a licenziare i dipendenti, compresi i suoi stessi figli. Possibile che i tecnici cattolici al governo, i teorici del “rigore finanziario” e della “coesione sociale”, non abbiano nulla da rimproverarsi?). E questa non è forse una nuova forma della distruzione del ceto medio, che abbiamo già visto in atto negli Stati Uniti? E, a sua volta, a me pare una tragica conferma della “profezia “ di Marx, relativa alla bipolarizzazione della società, e all’impoverimento crescente delle classi medie fino alla loro scomparsa tendenziale, e alla concentrazione della ricchezza in un numero sempre più ridotto di mani, e in misura sempre più alta…
Ebbene, di tutto ciò dobbiamo ricordarci in questo Primo Maggio: che tuttavia, non deve essere di abbandono e di rinuncia. Ma di lotta, di mobilitazione, e, oso dirlo, di speranza. Non facciamoci abbattere dalla crisi e da chi la usa contro di noi. Contro i deboli, contro chi ha meno strumenti per difendersi, contro chi sta subendo il peso più grave. A loro dobbiamo stare vicini anzi farci parte di loro. E ricordiamoci che, come scriveva Carlo Rosselli negli anni Trenta – poco prima di essere ucciso dai fascisti francesi su mandato del regime mussoliniano – nulla può resistere a una massa di lavoratori che lasciano le officine e marciano compatti verso il centro della città. Nulla può resistere. Né i tecnici, che fanno oggi il lavoro dei politici, né questi ultimi preoccupati prima di tutto, se non esclusivamente, della propria sopravvivenza di individui e di ceto.
Il Primo Maggio 2012 dobbiamo essere tutti operai e operaie che lasciano i loro luoghi di lavoro, e di riposo, per marciare verso il cuore delle città e dire che esse ci appartengono. E che le “zone rosse” non devono più significare settori cui è vietato l‘accesso, bensì centri di occupazione simbolica e fisica, dietro le nostre bandiere, e scanditi dai nostri slogan ritmati, dalle nostre musiche e dai nostri canti. La teoria politica, quella seria, da Aristotele a Machiavelli a Gramsci, ci insegna che ogni azione politica è lotta per il potere. Per i subalterni, oggi, il potere significa la difesa di conquiste e diritti che qualcuno vorrebbe togliere, dall’articolo 18 al valore legale dei titoli di studio, dalla proprietà pubblica dell’acqua e degli altri beni comuni, alla tutela della salute. Difendiamo quello che una infinita catena di sofferenza e di umiliazioni, una scia di morte e dolore, ma anche di epiche vittorie, ci ha consegnato: e non arretriamo di un millimetro; anzi, avanziamo, unendo le forze, senza farci prendere dallo scoramento e dal pessimismo. La strada è lunga, impervia, ma “noi” siamo tanti, e siamo di più, molti di più di “loro”.