». connessioniprecarie, 14 marzo 2017 (c.m.c.)
Lo sciopero dell’8 marzo è stato la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo. Per comprenderne appieno il significato esso deve essere guardato dalla giusta distanza: chi lo guarda solo dalla sua città o dal suo spezzone di corteo non vede quello che è veramente accaduto. La sua misura, che in realtà è la sua dismisura politica, sta tutta nel suo carattere globale. La dismisura politica si coglie nell’impossibilità di ridurlo a una festa rituale. Sta nella molteplicità di terreni investiti da uno sciopero sociale transnazionale che ha ridefinito la pratica sociale dello sciopero ben oltre le minime esperienze che lo hanno preceduto.
Dismisura è la scelta di milioni di donne che, coinvolgendo moltissimi uomini, si sono mobilitate invocando e praticando lo sciopero. Solo partendo da questa dimensione politicamente e non solo geograficamente globale si può comprendere la molteplicità di rivendicazioni e di pratiche che si sono espresse al suo interno.
«Corri, corri, corri Taypp… Stiamo arrivando»! Hanno cantato in coro decine di migliaia di donne e di uomini per le strade di Istanbul, attaccando il «governo di un sol uomo» di Recep Taypp Erdogan. In Turchia l’8 marzo delle donne è stato il legittimo erede di Gezi Park, perché è diventato una manifestazione di massa contro un governo che sta sequestrando ogni libertà.
A Plaza de Mayo più di duecentomila mujeres hanno gridato: «sí se puede», se si può fare uno sciopero contro Macri, lo facciamo noi donne!, catalizzando in questo modo una contestazione fino a questo momento frammentata e identitaria. Sono due episodi lontani ma al tempo stesso molto prossimi dell’8 marzo globale. Essi indicano chiaramente che lo sciopero voluto dalle donne ha prodotto la prima sollevazione globale contro il neoliberalismo.
L’opposizione a questo o quel governo non si è ridotta alla richiesta di un cambio elettorale o a una protesta contro la classe politica. Le donne sanno che la violenza maschile che le opprime in molte forme e che ovunque è brutalmente istituzionalizzata è parte integrante dell’ordine neoliberale ed è un fatto globale. Le donne sanno che il neoliberalismo non ha inventato la violenza contro di loro, ma sanno anche che è arrivato il momento di restituire quella violenza alle condizioni politiche della sua continua riproduzione, smettendo di farne un oggetto di generica condanna.
Lo sciopero non è solo una sottrazione temporanea al lavoro, ma una pratica politica che segnala il rifiuto radicale, pieno e di massa, delle condizioni in cui oggi viene prodotta e riprodotta la vita. Proprio per la sua dismisura esso non mira a mediazioni locali o temporanee, ma esprime la sua potenza sul piano immediato della sollevazione di massa. «Non aspetteremo», hanno dichiarato le donne irlandesi di strike4repeal, riferendosi non solo all’urgenza di abrogare una legge antiabortista, patriarcale e assassina, ma al fatto che il tempo dello sciopero, il tempo della rottura è adesso. Per questo, l’8 marzo in tutto il mondo non è stato solo «il primo giorno della nuova vita delle donne», ma anche il primo giorno di una critica globale dell’esistente che da tempo sta faticosamente cercando le strade per esprimersi.
Lo sciopero ha aperto uno spazio politico senza precedenti in cui tantissime donne in tutto il mondo e moltissimi uomini precari, operai, migranti si sono mobilitati per rendere lo sciopero reale e andare oltre la sua evocazione, rompendo in questo modo l’isolamento della loro quotidiana insubordinazione. Le enormi manifestazioni che abbiamo visto sono stati scioperi. Le astensioni dal lavoro sono state dimostrazioni di forza e di coraggio. Il femminismo di migliaia di donne ha colto nello sciopero l’occasione per esprimere il rifiuto della propria condizione particolare di subordinazione, oppressione e sfruttamento, consentendo a ciascuna di diventare protagonista di un movimento globale.
Questa scelta femminista spiega e qualifica l’impressionante partecipazione in tutte le piazze dell’8 marzo: non solo la marea che ha inondato le metropoli e le grandi città, ma anche la presenza politica delle donne e di moltissimi uomini nei luoghi più disparati, dove le iniziative erano inattese. C’è chi ha paventato che questa sollevazione si limitasse, alla fine, a manifestare l’indignazione delle privilegiate, solidali con la causa di chi non può scioperare o gridare in piazza liberamente. C’è chi ancora una volta ha ripetuto che la lotta contro il capitalismo è un’altra cosa. Una cosa per soli uomini, forse. Invece precarie, operaie e migranti sono state presenti in tutte le piazze e hanno preso direttamente parola. Hanno rovesciato ogni discorso vittimizzante, hanno orgogliosamente trasformato la propria posizione di sfruttamento nel privilegio di chi diviene il soggetto della propria insubordinazione.
Lo sciopero ha sfidato molti confini ‒ quelli tra pubblico e privato, tra lavoro produttivo e riproduttivo, tra i posti di lavoro e la società ‒ e molto praticamente ha mostrato che Occidente e Oriente, Nord e Sud del mondo hanno un comune campo di azione da occupare con la massima urgenza. Diffuso su tutto il pianeta e capace di rendere evidente il legame tra i diversi modi e i diversi piani in cui prende forma la violenza neoliberale, lo sciopero ha reso possibile una moltitudine di eventi e li ha connessi politicamente stravolgendo tutti i rituali di movimento: nessuna messa in scena del conflitto, ma una reale manifestazione di potere e del desiderio della sua conquista.
Questo sciopero ha dimostrato la possibilità di contrastare efficacemente la strategia della segmentazione messa in campo dal neoliberalismo patriarcale, perché ha reso possibile una sincronizzazione politica tra istanze anche molto diverse. La condizione vissuta dalle donne che reggono l’economia popolare argentina è certamente diversa da quella delle migranti vessate dal permesso di soggiorno in Europa, delle combattenti della Rojava, delle precarie spagnole, delle donne che in Turchia subiscono la violenza istituzionale di un governo autoritario e patriarcale, delle nere che negli Stati Uniti combattono contro la brutalità poliziesca, il sessismo e il razzismo istituzionale, delle francesi colpite dalla loi travail e dal suo mondo.
Le donne che hanno scioperato non sono state unite da un piano comune e omogeneo di rivendicazioni: in Brasile, si sono scagliate contro la riforma previdenziale, che aumenta l’età pensionabile delle donne estendendo e intensificando lo sfruttamento nell’indifferenza per il loro doppio carico di lavoro. Nelle Filippine le donne hanno preso parola contro le politiche agrarie neoliberali e le misure razziste del governo Duterte. In Australia, migliaia di educatrici hanno scioperato per contestare un welfare che si regge sulla sistematica riduzione dei loro salari.
In Polonia donne e uomini sono scesi in piazza contro l’alleanza tra il fondamentalismo cattolico e il neoliberalismo progressista che fanno fronte comune proprio a partire dalla violenza istituzionale e quotidiana sulle donne. La Francia, dopo le grandi mobilitazioni contro la loi travail, è tornata a riempirsi con le oltre 300 azioni che hanno travolto le strade delle principali città e che hanno visto un inedito protagonismo migrante. Donne curde, turche, cinesi, francesi, africane sono scese in piazza a hanno scioperato assieme contro la violenza, la precarizzazione e la strutturale discriminazione salariale che le colpisce.
In Svezia lo sciopero dell’8 marzo ha ripoliticizzato il lavoro di cura, portando in piazza centinaia di lavoratrici e lavoratori della sanità, degli ospedali e a domicilio, e aprendo un percorso per il diritto alla salute riproduttiva e contro la precarizzazione dei servizi alla persona. Lo sciopero dell’8 marzo non è però in nessun modo il risultato della somma occasionale di vertenze locali, della grande coalizione tra organizzazioni sindacali, politiche e di movimento, di contingenti alleanze di scopo in vista di una scadenza passeggera. Oggi possiamo dire che centrale è stato il processo che ha connesso fondamentali rivendicazioni politiche globali, fornendo forza e significato a ogni singola iniziativa locale. Questo sciopero transnazionale ha indicato la possibilità di agire sulla stessa scala su cui si dispiega quotidianamente la violenza neoliberale e patriarcale.
Nelle molte piazze in cui sono stati rivendicati salute, welfare, istruzione, libertà di muoversi e di restare non si è guardato nostalgicamente al passato, all’universalismo perduto della cittadinanza e dello Stato sociale novecenteschi – che molti paesi coinvolti nello sciopero delle donne non hanno mai neppure conosciuto – ma è stata avanzata la pretesa di ottenere qualcosa che non c’è mai stato. Mentre il neoliberalismo non ammette altra emancipazione che non sia quella garantita dal denaro, quelle rivendicazioni aggrediscono direttamente gli ingranaggi politici della sua riproduzione. Rivendicare il diritto di abortire liberamente significa pretendere di rovesciare l’ordine materiale e simbolico che vuole ridurre le donne a strumenti riproduttivi e contestare la regolazione normativa della sessualità.
Rivendicare servizi di cura per bambini e anziani significa rifiutare la divisione sessuale del lavoro che vuole condannare le donne a essere le serve domestiche e addomesticate dell’ordine neoliberale. Rivendicare l’asilo politico per sfuggire alla violenza contro donne e uomini e all’espropriazione dell’esistenza significa opporsi alla violenza quotidiana dei confini. Rivendicare salari più alti significa pretendere il potere sulla propria vita. L’irriducibile parzialità delle donne non si scioglie nel sogno di un’indistinta ricomposizione, ma attraverso la pratica sociale dello sciopero si fa valere con una forza collettiva e globale. L’8 marzo ci consegna una preziosa indicazione di metodo politico: non si tratta di reclamare generici diritti universali o un’emancipazione individuale, ma di colpire i pilastri su cui si regge un intero ordine di dominio e sfruttamento partendo dalla propria parziale posizione, facendone un punto di forza e non un limite. Questo ci hanno insegnato le donne dell’8 marzo.
Non è allora sorprendente che questo sciopero abbia preoccupato i custodi dell’ordine. Opinionisti e opinioniste di fama hanno perso l’occasione per tacere e si sono affrettati a dichiarare che lo sciopero dell’8 marzo ha danneggiato in primo luogo le donne, mentre le paladine del femminismo istituzionale hanno affermato severe che il lavoro non va mai rifiutato perché offre un’occasione di promozione sociale. Nonostante tutto, dopo anni di oscillazione tra il catastrofismo scandalistico della crisi e le tiepide ricette di risanamento dell’economia mondiale, le prime pagine di tutti i quotidiani del mondo hanno dovuto registrare l’esistenza di una nuova pretesa di «giustizia».
Questo femminismo del 99%, come lo hanno battezzato le donne dell’8 marzo statunitense, non corrisponde a un generico ideale di partecipazione dal basso o di cittadinanza radicale: permette alle donne che subiscono e hanno subito violenza e sfruttamento di alzare la testa e lottare, mentre chiede a tutti di prendere posizione e di schierarsi. Esso fa dello sciopero il confine politico di questo schieramento, mina i resti di una mediazione sociale in frantumi e rimescola i piani su cui è possibile costruire percorsi di organizzazione e di lotta. Fa saltare l’alibi del solito sciopero rituale che non serve a nulla, dando alle donne e agli uomini la libertà di sottrarsi a un ordine costruito contro di loro.
La parola d’ordine Yo decido lanciata dalle donne spagnole non assume come referente il sistema politico, ma si afferma sulle macerie della mediazione istituzionale che il neoliberalismo ha già da tempo travolto con la forza brutale del suo dominio. Non è un caso che i più spaventati dallo sciopero delle donne siano stati i grandi sindacati che ‒ in Argentina come in Italia ‒ hanno cercato di arginare o addirittura contrastare l’iniziativa autonoma delle donne per tornare alle placide contrattazioni sulle quali continuano a costruire la loro identità e ragione di esistenza. Le donne, intanto, hanno reso l’arma dello sciopero disponibile per quanti ‒ da posizioni diverse e in ogni parte del mondo ‒ hanno la pretesa di opporsi realmente alla precarietà, al razzismo istituzionale, all’ingiunzione al silenzio dell’ordine neoliberale.
È impossibile dire in che misura siamo effettivamente riuscite a interrompere ogni attività produttiva e riproduttiva. Eppure, nonostante le sue dimensioni ancora sperimentali, l’8 marzo segna una frattura, stabilisce un «prima» e un «dopo». Esso indica la possibilità di un processo di organizzazione che non si riduce alla sommatoria delle istanze militanti e liquida in un colpo ogni ipotesi micropolitica che non sia capace di pensare simultaneamente il piano locale e quello globale dell’iniziativa. Lo sciopero è stato prima di tutto transnazionale e proprio per questo ha attivato in decine di paesi un processo di organizzazione capillare, di cui le donne sono state protagoniste al di là di ogni etichetta politica e certificazione militante innescando l’azione di una moltitudine di soggetti.
A questo processo di organizzazione il progetto dello sciopero ha conferito e può continuare a conferire unità, indicando la possibilità di uscire dalla quotidiana impotenza in cui si agitano i movimenti locali e di fare valere una forza collettiva. Questa forza non può essere ridotta a un semplice strumento per scendere a patti con questo o quel governo. Lo stesso piano femminista contro la violenza che «Non una di meno» sta scrivendo in Italia saprà imporsi solo se rimarrà ancorato al processo di lotta globale attivato sotto il segno dello sciopero.
Dopo l’8 marzo globale non è più pensabile imbrigliare la forza sprigionata dallo sciopero delle donne nelle maglie strette di linguaggi usurati o in forme organizzative che hanno già fatto il loro tempo e mostrato la loro insufficienza. Solo un’infrastruttura politica transnazionale potrà far crescere il movimento dello sciopero. Mentre la parola d’ordine di «una giornata senza di noi» continua a viaggiare per il mondo, significativamente rilanciata dai migranti negli Stati Uniti come in Argentina, dopo l’8 marzo la sfida collettiva è quella di consolidare e accelerare il movimento dello sciopero che si aggira per il mondo e che le donne, per prime, hanno fatto valere come una possibilità globale.