Il manifesto, 20 febbraio 2015
Le istituzioni internazionali (Ocse, Fmi, Commissione europea) sono colpite da un virus pericoloso. Le rilevazioni statistiche su crescita, occupazione e mercato del lavoro sono drammatiche, ma vengono presentate, con gli stessi dati, come fossero l’oro di re Mida. Lo scenario è quello di sempre: riduzione del valore dell’euro e del prezzo del petrolio, Quantitative easing della Bce e riforme del mercato del lavoro favoriscono la crescita. Restando alle previsioni per l’Italia, il responsabile Ocse Gurria si è spinto a sostenere che il Jobs Act può essere il motore del cambiamento, mentre i dati su crescita e occupazione di Ocse e Istat sono peggiori delle previsioni della Commissione europea e della Legge di Stabilità di Padoan e Renzi. Serve un psicologo, non un economista.
Lo scenario di crescita delineato è pessimo. Non solo il 2014 è andato peggio delle stime iniziali, ma le previsioni per il 2015 sono ancor più basse di quelle della Commissione europea. L’Ocse prevede una crescita dello 0,4%, contro uno scenario “positivo” di governo e Commissione europea dello 0,6%. La statistica consegna un quadro drammatico del Paese, ciò nonostante Gurria sostiene che il governo Renzi «ha scelto chiaramente un team efficace… nel 2014 si sono fatti grandi passi in avanti sulle riforme» (Gurria, Ocse). Non solo. Le previsioni potrebbero andare meglio appena le liberalizzazioni e privatizzazioni e, ovviamente, il Jobs Act, entreranno a regime. Complessivamente una crescita aggiuntiva di 3,2 punti di Pil: 2,6 dalle liberalizzazioni e 0,6 punti dal Jobs Act.
Contemporaneamente l’Istat presenta i dati su disagio sociale e lavoro: il 23,4% delle famiglie italiane vive in una situazione di disagio economico, per un totale di 14,6 milioni di individui, mentre il 12,4% dei nuclei si trova in grave difficoltà. Il lavoro? In Italia lavorano meno di 6 persone su 10, cioè peggio di Grecia, Croazia e Spagna, con 2,5 mln di giovani che non lavorano e non studiano. Come per il tasso di occupazione, solo la Grecia ha fatto peggio dell’Italia.
Nonostante il Jobs Act, l’Ocse sostiene la necessità di ulteriori riforme del mercato del lavoro (la schiavitù?). Serve veramente uno psicologo da quelle parti.
Prendendo i dati dell’Ocse relativi alla legislazione a protezione del lavoro (Epl), scopriamo che dal 1990 al 2013 tutti i paesi hanno contratto le tutele a favore del lavoro. La Germania comprime le tutele da 2,9 del 1990 a 2,0 del 2013, mentre l’Italia passa da 3,8 del 1990 a 2,3 del 2013. Sostanzialmente l’Italia non registra maggiore o minori livelli di tutela del lavoro rispetto ad altri paesi. Solo la Francia rafforza la sua posizione passando da 2,7 del 1990 a 3 del 2013. Inoltre, questo indicatore è al netto del Jobs Act.
Una stima di questo indice dopo l’introduzione del Jobs Act farebbe precipitare l’Italia al livello dei paesi emergenti, con tutte le implicazioni di politica industriale. Un altro e non banale aspetto è legato alla velocità dell’Italia nel ridurre le tutele del lavoro. Al netto della Francia che ha alzato il livello delle proprie tutele tra il 1990 e il 2013 dell’11,1% (variazione 1990–2013), tutti i paesi considerati hanno ridotto il proprio indice, ma l’Italia ha registrato un tasso di riduzione del 39,5%. Solo Spagna e Grecia hanno fatto peggio.
Ma il dibattito giornalistico e politico non ama confrontarsi su questi dati nasconde queste informazioni. C’è qualcosa che inquina la discussione politica ed economica.
Spesso si discute a sproposito della produttività del lavoro, ma quanti sanno che la produttività del capitale italiano tra il 1992 e il 2012 (Istat, dicembre 2013) è una frazione della produttività del lavoro? Qualcuno deve pur raccontare che nel periodo considerato la produttività del capitale è stata negativa dello 0,7 mentre quella del lavoro è stata positiva dello 0,8. Il problema non è se siamo usciti dalla crisi tecnica, arresto dell’arretramento del Pil, piuttosto se l’Italia è uscita dalla crisi di struttura.
L’Istat ricorda che la minore crescita del 2014 è interamente attribuibile alla diminuzione del valore aggiunto di agricoltura e industria, solo in parte compensato da quello dei servizi. Ma questo tipo di considerazioni non possono raccontare cosa si cela dietro la crisi italiana. Riforme o non riforme, l’Italia tra il 1996 e il 2014 è crescita meno della media europea di ben 19 punti di Pil, con una ulteriore aggravante: investiva in media più degli altri paesi e, crisi dopo crisi, aumentava il gap annuale di minore crescita del Pil rispetto alla media europea. Siamo passati da meno 0,5 punti del 2000 a meno 1,8 punti del 2014. Se poi pensiamo alla contrazione della produzione di beni strumentali, la peggiore tra i paesi europei, possiamo comprendere come l’Italia abbia compromesso quel vasto patrimonio di conoscenze che poteva contribuire all’uscita della crisi di struttura. Forse siamo usciti dalla recessione, ma aspettiamo ben altri segnali. Relativamente alla crisi di struttura dobbiamo lavorare ancora molto.