La Repubblica, 16 aprile 2015
LA PAROLA genocidio pronunciata da Francesco e la reazione turca hanno fatto precipitare questioni cruciali. C’è un problema comune alla definizione del genocidio e della tortura. C’è un’affinità fra il modo in cui la Turchia reagisce all’imputazione di genocidio e l’Italia all’imputazione di tortura. C’è un legame decisivo fra la ferita aperta del 1915 e la persecuzione dei cristiani di oggi. C’è un rapporto fra una disputa che si vuole irriducibile su un genocidio di cento anni fa, e il modo in cui si tratta un genocidio di oggi.
1.
È paradossale che lo sterminio degli armeni, sul quale è stata coniata la nozione di genocidio, non possa chiamarsi genocidio. Il genocidio degli ebrei ha un nome, Shoah, quello degli zingari, Porrajmos, quello degli armeni, Meds Yeghern — ma agli armeni manca il riconoscimento del genocidio. Non so se Francesco avesse messo in conto per intero la reazione turca: il suo discorso è comunque un complemento della denuncia angosciata della persecuzione dei cristiani. Dopo aver esitato, il Papa ha preso una via dalla quale non si torna indietro. Non c’è mai stata una ragione più stringente per non poter non dirci cristiani.
2.
La Corte europea ha condannato l’Italia. Lo farà più inesorabilmente sulla caserma di Bolzaneto, dove si attuò una tortura metodica, prolungata, sessista e fascista. La Corte, all’unanimità, ci ha condannati per il crimine di tortura. Credo che abbia superato i propri precedenti, e che potesse sanzionare le nefandezze di polizia alla scuola Diaz come “trattamenti inumani e degradanti”, rientranti anch’essi nell’art.3 della Convenzione, imprescrittibili al pari della tortura. Per la Corte la sensibilità sulla tortura si affina col tempo, e le minacce — il terrorismo islamista, i venti di guerra — non devono attenuare i principii inderogabili che vietano la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Ha scelto la sanzione più severa — non negli effetti pratici, che si equivalgono, ma in quello morale — rinunciando a una determinazione più specifica della tortura (una violenza individuata e distillata e non collettiva e improvvisa, il fine di ottenere confessioni, il ricorso a tecniche di distruzione della resistenza…) per assicurarne il peculiare marchio di infamia. Ha mirato al paradosso di un Paese, l’Italia, che per trent’anni ha rifiutato di riconoscere tortura e trattamenti inumani o degradanti nel suo codice, mandando impuniti gli autori di crimini per i quali la legge internazionale impone l’imprescrittibilità. Fatte le proporzioni, l’Italia si è comportata con la tortura come la Turchia col genocidio.
3.
Tuttavia è dubbio che allargando le maglie della definizione di tortura se ne rafforzi la sanzione: può derivarne una banalizzazione. Qualcosa di simile avviene con la nozione di genocidio. Il genocidio sta agli altri “crimini di guerra e contro l’umanità” come la tortura sta ai “trattamenti inumani e degradanti”. Anche l’evocazione del genocidio segna un incomparabile marchio di infamia, benché i crimini che “tecnicamente” non vi rientrino siano a loro volta imperdonabili. Il crescente ricorso generico al nome di genocidio sta in proporzione inversa alla sua persecuzione là dove materialmente avviene: lo banalizza.
L’affinità fra tortura e genocidio è più profonda, intima. Sono ambedue difficili da definire con esattezza; ad ambedue è indispensabile il superamento di una soglia di gravità, di dimensione, ma non sufficiente. Che cosa fa della Shoah un genocidio, e dello sterminio dei kulaki no? (La discriminazione “di classe” fu espunta dalla Convenzione sul genocidio del 1948). Che cosa fa dello sterminio dei tutsi in Ruanda un genocidio e dello sterminio delle tribù del Darfur da parte del Sudan e delle milizie Janjaweed “solo” un crimine contro l’umanità? Il genocidio, avvertiva Antonio Cassese, è diventato un “ Magic Word ” cui non si vuole rinunciare, benché i crimini di guerra e contro l’umanità siano atroci a loro volta e abbiano le stesse sanzioni. Per lo sterminio degli armeni si impiega la formula “G-Word”: la parola G. Un tabù proibisce di pronunciarlo intero: come il divieto di nominare Dio, alla rovescia. A questo “G-Word” sono appesi i rapporti fra la Turchia e il resto del mondo.
4.
C’è una montagna, fra Mosul e il Kurdistan, l’abbiamo nominata tante volte, si chiama Sinjar. Vi hanno cercato scampo dopo un’odissea tremenda, decine di migliaia di yazidi. È un popolo antico che ha subito infinite persecuzioni di invasori, così superstiziosi da chiamarlo adoratore del demonio. Il cosiddetto Stato Islamico ha mirato a finire l’opera, uccidendo gli uomini, rapendo violando e commerciando bambine e donne. Era inevitabile, ascoltando i racconti degli scampati, citare I 4-0 giorni del Mussa Dagh, l’epopea degli armeni cristiani rifugiati su quel massiccio montagnoso, scritta da Franz Werfel. Da noi uscì nel 1935, nella Medusa Mondadori: generazioni di italiani conobbero là la tragedia armena.
Oggi i cristiani subiscono le persecuzioni più vaste. Minoranze come gli yazidi subiscono un tentativo di annientamento che non lascia dubbi sulla definizione, per quanto la si setacci, di genocidio. C’è una diaspora yazida che vivrà per vedersi riconosciuta la propria catastrofe. Che non è avvenuta cento anni fa: sta avvenendo. L’abbiamo documentata, abbiamo visto e ascoltato le ragazze fuggite dalla prigionia jihadista, come la bambina di nove anni incinta di cui due giorni fa ancora dicevano le cronache.
Ebbene, a Dohuk, provincia estrema del Kurdistan gremita di profughi, due magistrati hanno costituito una Commissione d’inchiesta per il crimine di genocidio. Sono Sail Khider Khalaf, procuratore, e Ayman Mostafa, giudice. «Vogliamo impedire che il tempo confonda le tracce. Raccogliamo le testimonianze, sugli stupri, i suicidi, gli ammazzati e scomparsi, la compravendita di esseri umani. Un australiano venuto a unirsi all’Is con la famiglia ha comprato 7 persone a Raqqa per 15 mila dinari — 13 euro! Cataloghiamo le fosse comuni man mano che si riconquista il Sinjar; un testimone ha seppellito 64 persone; un altro ha raccontato di averne dovuto coprire 70 col suo bulldozer. Intendiamo portare le prove al Tribunale penale dell’Aia, e riportare da noi la giustizia. Lavoriamo anche coi video dell’Is, e coi selfie che gli uomini di Daesh si fanno sopra le vittime, e li ritroviamo sui loro cadaveri. Manchiamo di risorse e competenze: per la mappatura satellitare, le indagini genetiche, com’è avvenuto in Argentina, a Srebrenica… Voi avete periti, e strumenti adeguati, sappiano che li aspettiamo. Abbiamo a malapena un ufficio. Non c’è un team forense. Ma noi proveremo la volontà genocida, e il mondo dovrà riconoscerla».