La Repubblica, 6 maggio 2015
QUESTA riforma s’ha da fare. La “buona scuola” voluta fortemente dal presidente del Consiglio è prossima ad arrivare in Parlamento dove, come per altre proposte, non dovrebbe incontrare rischi, nonostante le insoddisfazioni di alcuni parlamentari. Matteo Renzi ha detto che è disposto a discutere, ma non tornerà indietro. Benché non sia chiara l’urgenza di questa riforma, Renzi ha ragione a presentarla come rivoluzionaria: essa cambierà radicalmente la struttura della scuola pubblica. Il perno della rivoluzione è la figura del dirigente scolastico e per suo tramite il legame stretto con i committenti, ovvero le famiglie (e gli studenti in quanto parte delle famiglie).
La figura del dirigente è concepita secondo il modello dell’amministratore delegato e di una gerarchia di ruolo, di stipendio e di potere rispetto agli insegnanti (destinati a diventare come suoi dipendenti). Si tratta di un primo passo verso la privatizzazione della scuola pubblica. Questo è il senso dell’autonomia degli istituti scolastici. Il responsabile scuola del Pd ha detto che alcune cose si possono rivedere sul rapporto dirigente/ insegnanti, ma il principio della responsabilità individuale del dirigente deve restare: chi, altrimenti, risponde dell’abbandono scolastico e delle bocciature?
Sono tre le questioni da porre a questo riguardo. Prima: come verrà stabilito che abbandoni e bocciature siano da attribuire alla responsabilità di una persona, in questo caso del preside? Non è un’abnorme semplificazione ignorare le condizioni sociali e di degrado nelle quali si trovano tanti ragazzi, soprattutto al Sud? Seconda: nel caso, molto arduo, che la relazione causa-effetto sia verificata, come verrà punito il preside? Terza: non vi è il rischio che, proprio per evitare problemi, i presidi istruiscano gli insegnanti a promuovere? Se la bocciatura è causa di abbandono, basta non averla. La scuola non sarà necessariamente migliore, quindi, ma avrà meno bocciati. E siccome sono i dati quantitativi a fare opinione, la diminuzione dei bocciati verrà prevedibilmente identificata come un successo.
I sostenitori della riforma potrebbero controbattere che questo esito non è scontato perché il preside potrebbe comunque scegliere altre strategie: per esempio, organizzare corsi di recupero per gli allievi in difficoltà. Vero. Ma siccome la decisione è lasciata al dirigente, non c’è alcuna garanzia che questa sia la strada, anche perché più costosa. E visto che in prospettiva gli istituti devono diventare autonomi, si intuisce che il taglio dei costi sarà un indice di buona scuola. I sostenitori della riforma fanno presente che, spettando al preside la valutazione dei docenti neo-immessi in ruolo, egli potrà premiare, con un corrispettivo in denaro, gli insegnanti più bravi. Siamo sicuri che il dirigente scolastico abbia l’onniscienza che serve a valutare il merito? Ancora una volta, è probabile che criteri esterni alla competenza disciplinare funzionino meglio, per esempio la popolarità dell’insegnante (per le ragioni più disparate) e il numero dei promossi.
Conoscendo molto bene la scuola americana, mi sembra di poter dire che questa parte della riforma è come una sua fotocopia. E ciò è preoccupante per gli esiti che avrà sulla qualità della formazione. In aggiunta, se le scuole devono competere, come la riforma prevede, per avere i migliori studenti, è probabile che concorrano per i migliori e i più facoltosi, visto che la riforma prevede che le scuole si avvalgano di donazioni e finanziamenti dei privati (al di là della percentuale di tasse che i contribuenti possono destinare). Come negli Stati Uniti, la capacità individuale dello studente e la capacità economica della famiglia convergeranno con facilità. Gli istituti scolatici si indirizzeranno verso un tipo di studenti piuttosto che un altro, e nasceranno nel volgere di pochi anni scuole di classe, come Paul Krugman scrive da tempo nei suoi editoriali sul New York Times. Dice Renzi che la scuola è delle famiglie. E se si presta attenzione ai risvolti che questa riforma può avere, ha ragione.
Le famiglie sono, come sappiamo, le più diverse dal punto di vista socio-economico: quindi, le famiglie facoltose e con un buon capitale culturale saranno molto più proprietarie delle loro scuole di quanto non lo siano le famiglie meno abbienti, per le quali dovrà intervenire lo Stato in maniera più corposa. Il risultato potrebbe essere il seguente: l’autonomia economica sarà raggiunta prevalentemente dagli istituti che hanno una clientela benestante. Ancora una volta, come negli Stati Uniti, le scuole migliori diventeranno tendenzialmente più private e costose (quindi selettive verso chi è capace e ha capacità economica) mentre le altre resteranno a spese quasi integrali dello Stato, e questo basterà a segnalarle come non ottime, perdenti perché bisognose del pubblico. L’esito sarà che le scuole pubbliche saranno meno buone o peggiori, e quelle private le migliori, le più care e le meno aperte (anche qualora si introducano borse di studio). È proprio questa ingiustizia radicale che la scuola pubblica italiana ha voluto correggere quando è nata, nell’Italia repubblicana, affinché la scuola possa premiare le potenzialità dei ragazzi, indipendentemente dalle famiglie di provenienza.