Da oltre 5 anni è la Grecia il problema che più preoccupa l’Europa: non il lavoro, non l’immigrazione e nemmeno la Russia di Putin, ma un Paese che rappresenta meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) delle nazioni che partecipano all’unione monetaria. Sarebbe interessante calcolare quante ore la signora Merkel ha dedicato ad Atene in questi 5 anni. Che penseremmo se scoprissimo che il presidente Obama dedica altrettanto tempo ai problemi del Tennessee, uno Stato che conta, nella federazione americana, un po’ più della Grecia nell’eurozona?
In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.
Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa - le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras - è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.
Certo, anche gli europei hanno sbagliato. Da quando, nel 2002, Atene è entrata nell’unione monetaria abbiamo prestato alla Grecia oltre 400 miliardi di euro (circa due volte il Pil del Paese) senza chiederci se quella cifra sarebbe mai stata ripagata. È però inutile oggi sprecar tempo, coltivando l’illusione, che ha sfiorato i finlandesi, che forse potremmo venir ripagati in natura, con la cessione di qualche isola. Le cannoniere britanniche dell’Ottocento fortunatamente non ci sono più. Il passato è passato, meglio metterci una pietra sopra.
E se i greci non vogliono modernizzarsi, inutile insistere: d’altronde hanno votato a gran maggioranza un governo che continua ad essere popolare. Hanno scelto, spero consciamente, di rimanere un Paese con un reddito pro capite modesto, metà dell’Irlanda, inferiore a Slovenia e Corea del Sud, che fra qualche anno verrà superato dal Cile. Spero che però nessuno ad Atene si illuda che fuori dall’euro, anche una volta cancellato il debito, inflazione e svalutazione possano essere un’alternativa a rendere l’economia più efficiente.
Penso sia venuto il momento di chiederci quanto sia importante per noi tenere la Grecia nell’Unione Europea, perché di questo si tratta: se Atene abbandonasse l’euro dovrebbe anche uscire dall’Ue. Il criterio non può essere la difesa dei nostri crediti, che comunque non potranno essere recuperati. A guidarci non può essere nemmeno quanto rischi l’unione monetaria che ormai, grazie alla Banca centrale europea, è sufficientemente robusta per poter affrontare l’uscita di un Paese come la Grecia.
La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera geopolitica fra Europa e Paesi islamici, in primis la Turchia. Il che non significa cedere al ricatto di Tsipras, ma accettare il rischio che comporta la condivisione della moneta con un Paese che ha liberamente deciso di non volersi modernizzare. Ma il salto politico necessario per porci questa domanda non siamo in grado di farlo. L’unione monetaria ha avuto il grande merito di accelerare l’integrazione economica - si pensi al trasferimento a Francoforte della vigilanza sulle banche - ma non può essere un sostituto dell’integrazione politica. Se la crisi greca ci aiuterà a comprenderlo, non saranno stati 5 anni spesi invano.
Il Fatto Quotidiano, 7 giugno
GIAVAZZI
AL BAR
E CERTE COSE DI BALZAC
di Marco Palombi
Dice che la Grecia ha rotto. Dice: cinque anni a parlare di Grecia, che poi è una nazione di pecorari fancazzisti, e intanto la Cina e l’India fanno cose e i cosacchi di Putin, come d’abitudine, vogliono far abbeverare i cavalli a piazza San Pietro. Dice: ma se i greci
non si vogliono modernizzare, mettiamoci una
croce sopra e via dall’Ue. Dice: hanno votato Tsipras vuol dire che vogliono restare poveri.
Questo non è, come sembra, il riassunto di una conversazione ascoltata in un bar, interrotta dal tintinnare delle tazzine e dal grido dell’ultimo arrivato (“un caffé”), ma il senso dell’editoriale che Francesco Giavazzi venerdì ha affidato alla prima del Corriere della Sera. Uno potrebbe spiegargli che se cinque anni fa la Ue avesse salvato la Grecia invece che le banche tedesche e francesi non staremmo qui a discutere; che le sue idee sui greci sono un po’ razziste; che 5 anni di “riforme” della Troika hanno creato ad Atene una catastrofe umanitaria e che la sua “austerità espansiva” è una boiata. Sarebbe inutile, nel bar c’è casino, Giavazzi non sente e poi sta già spiegando al barista che, per un lavoro così poco qualificato, guadagna troppo.
Solo che non siamo al bar e nemmeno nel salotto Verdurin di Proust, in cui sedevano i borghesi non abbastanza interessanti per i Guermantes. No, la prima del Corsera ormai è la Pensione Vauquer di Balzac. Lì, per dire, abitava tra gli altri tal Poiret, uno di quegli individui di cui, non potendo far altro, si dice: “Ci vuole pure gente così”. E poi si aggiunge: insegna alla Bocconi.
postilla
In questi giorni a Venezia, nell'area sociale e culturale che vorrebbe un rinnovamento radicale della pessima gestione del comune negli ultimi decenni, è aperta un'animata discussione tra chi, al prossimo ballottaggio, si propone di votare Casson pur di non rischiare che vinca il suo antagonista (che sarebbe il peggio del peggio) e chi invece del peggio non ha paura (o addirittura se lo augura) e non se la sente di votare Casson, che si è molto legato all'establisment precedente. In questo quadro Casson ha reso pubblici i nomi di alcuni dei consulenti di cui si avvarrebbe. Terrificanti: uno è il sunnominato Giavazzi, il secondo il divulgatore televisivo d'arte Philippe D'Averio, il terzo il signor Rosso, il mecenate che con la sua elemosina pelosa ha pagato il restauro del Ponte di Rialto, con un tornaconto che la nostra Paola Somma ha puntigliosamente elencato in un suo articolo su questo sito. Temiamo che la scelta di Casson gli farà perdere consensi, e accrescerà le chances del suo antagonista. Tremano i veneziani, e gli amici di Venezia.