Il manifesto, 30 giugno 2015
I «creditori» respingono la proposta del governo greco e chiedono altre dosi di lacrime e sangue. Tsipras si smarca dal ricatto e indice un referendum, invitando a votare «no» alle richieste delle istituzioni europee e del Fmi. Siamo a un passo dall’uscita della Grecia dall’euro? Quali saranno le ripercussioni per il nostro paese e per l’Unione europea? E in questo guado così difficile, quale linea dovrebbero assumere le forze politiche della sinistra? Ne parliamo con Emiliano Brancaccio, che insegna Economia politica ed Economia internazionale all’Università del Sannio ed è stato promotore del «monito degli economisti» sulla crisi dell’eurozona pubblicato nel 2013 sul Financial Times.
Professor Brancaccio, i principali organi di stampa attaccano la decisione di Tsipras di indire un referendum con cui chiede al popolo greco di respingere la bozza dei cosiddetti «creditori». Tornano alla ribalta gli slogan sui «greci irresponsabili», che rifiuterebbero di «fare i compiti» per risanare i conti e pretenderebbero di «prosperare a spese degli altri». Che ne pensa?
Basta osservare le statistiche ufficiali per rendersi conto che la realtà è un’altra. Negli ultimi cinque anni i governi greci hanno diligentemente applicato le ricette di austerity e di riduzione dei salari imposte dalla Troika. La spesa pubblica è crollata del venticinque percento e le buste paga sono precipitate di oltre il venti percento. Il risultato di queste misure è stato catastrofico: la più pesante caduta della domanda, della produzione, dell’occupazione e dei redditi mai registrata in epoca di pace, e un boom conseguente del rapporto tra debito e reddito. Il caso della Grecia sarà ricordato nei libri di storia economica come la prova empirica per eccellenza del fallimento della dottrina dell’austerity e della deflazione salariale.
In queste ore però c’è chi è tornato a sostenere che il disastro in cui versa la Grecia dipende anche dal fatto che per entrare nell’euro i governi ellenici truccarono i conti.
È un’altra opinione infondata. Innanzitutto ricordiamo che i ritocchi contabili li hanno fatti in tanti, persino i tedeschi. Ma poi stiamo ancora ai dati. Eurostat ha stimato che tra il 1999 e il 2001 i «trucchi contabili» della Grecia per entrare nell’euro ammontarono a meno di 10 miliardi. Non è una gran cifra se consideriamo che da quando la Grecia nel 2010 si è sottoposta ai programmi della Troika, sono stati effettuati tagli alla spesa pubblica per un ammontare complessivo di ben 106 miliardi. Insomma, i famigerati «trucchi» per entrare nell’euro non rappresentano nemmeno il dieci percento degli enormi sacrifici compiuti dai greci per tentare di restarci, dentro la moneta unica.
Veniamo alle possibili conseguenze del referendum. Matteo Renzi afferma che si tratta di una scelta tra un «sì» e un «no» all’euro, lasciando intendere che lui sosterrà il «sì». Qual è la sua posizione?
Un’eventuale vittoria dei «sì» prolungherebbe solo l’agonia della Grecia e in prospettiva non garantirebbe la permanenza del paese nell’Unione monetaria. Di sicuro, invece, affosserebbe per lungo tempo qualsiasi ipotesi di rilancio della sinistra, in Grecia e non solo. Non escluderei la possibilità che Renzi miri esattamente a questo esito. Il «no» è l’unica opzione sensata.
Ma il «no» del popolo greco alla bozza delle istituzioni europee implicherebbe un’uscita del paese dall’euro? Il ministro delle finanze Varoufakis continua a sostenere che la «Grexit» non è un’opzione contemplata dal suo governo. Esiste ancora la possibilità di riaprire la trattativa?
Gli spazi di manovra si stanno stringendo, al punto in cui siamo non scommetterei su un’intesa. Molto dipenderà dal comportamento della Banca centrale europea. In passato Draghi e gli altri membri del direttorio hanno condizionato i loro interventi di salvataggio al fatto che i paesi in difficoltà accettassero di sottostare ai memorandum imposti dalla Troika, come nel caso cipriota. Se a Francoforte non hanno cambiato improvvisamente linea, a un eventuale «no» al referendum probabilmente risponderanno con il blocco dei finanziamenti alle banche greche. A quel punto la Grecia sarebbe costretta ad avviare un percorso di uscita dall’euro. Ma Tsipras e Varoufakis potrebbero affermare che sono stati buttati fuori dall’Unione, e che la responsabilità dell’uscita è a carico della BCE e dei «creditori». In fin dei conti avrebbero ragione.
Anche a sinistra, c’è grande timore nei confronti di un tracollo generale dell’eurozona. La Grecia può diventare il fattore scatenante in grado di mettere in crisi l’intero progetto di unificazione europea?
La migliore ricerca economica sostiene, da anni, che quello dell’eurozona è un progetto nato male, che crea squilibri continui tra paesi creditori e debitori e in prospettiva non è sostenibile. Presto o tardi bisognerà prenderne atto, occorrerà ripensare i termini delle relazioni economiche internazionali. Occorre che la sinistra affronti questa nuova fase storica con una propria visione e un progetto, potremmo dire un «nuovo internazionalismo del lavoro». Anche per questo, se l’impianto della moneta unica dovrà registrare una crepa, sarà bene che ciò avvenga da sinistra, su impulso di un’Atene rossa, piuttosto che sull’onda nera montante di forze ultranazionaliste e xenofobe.