Il manifesto, 1° luglio 2015
Finalmente qualcuno che, anziché cercare riparo dietro la fatidica affermazione “ce lo chiede Bruxelles”, come ci hanno abituato i governanti europei, pretende di dire la sua sulle scelte lì compiute.
E’ certo vero che nella stessa Grecia, come del resto altrove in Europa e anche da noi, c’è chi vorrebbe dire tout court che l’Unione è morta ed è meglio così, ma non è questo l’oggetto della consultazione. Tsipras chiede più forza per negoziare ancora e il ritorno alla dracma è solo il possibile eventuale e deprecato esito di un fallimento definitivo del negoziato.
Un’eventualità che in queste ore sembra forse scongiurata, sebbene il signor Tusk, il più rude delle istituzioni, abbia all’ultimo appuntamento buttato fuori dal tavolo i negoziatori greci, dichiarando che “the game is over”.(Perché così sono andate le cose e non il contrario). E’ una speranza flebile, ma già dimostra che rifiutare i ricatti è giusto.
Purtroppo tutta la lunga trattativa è stata accompagnata da un frastuono mediatico che ha creato grande confusione. E così la gente meglio intenzionata continua a chiedere se è proprio vero che i greci hanno una pletora di dipendenti pubblici, quando invece ne hanno, proporzionalmente, la metà della Germania.
Se è vero che vanno tutti in pensione nel pieno delle loro forze, e invece la media degli anni di lavoro nel paese è superiore a quella dell’Unione europea e la spesa pubblica per il pensionamento, sempre proporzionalmente, metà di quella francese e un quarto di quella tedesca. La produttività è bassa ma è cresciuta assai di più che in Italia e persino che in Germania.
Se poi si guardano nei dettagli i punti sui quali la squadra greca ha trattato e si è rifiutata di accogliere le proposte delle istituzioni europee è difficile rimanere insensibili alle sue ragioni: rifiutare un aumento dell’Iva sui generi di prima necessità (cibo, prodotti sanitari, elettricità), e quello a carico delle isole che vivono del solo turismo; respingere la richiesta di varare una legge che consenta licenziamenti di massa. Rifiuto, anche, a cancellare i prepensionamenti esistenti, ma bisogna ben tener conto che una quantità di gente è stata licenziata e non ha altre fonti di sostentamento. E invece è Bruxelles che ha rifiutato la richiesta greca di un aumento del 12 % di tasse sui profitti che superano i 500.000 milioni.
Si continua a ripetere ossessivamente che la Grecia deve fare le riforme, ma, come del resto in Italia, non si dice mai esattamente di quali riforme si tratti e in che modo quelle proposte, o attuate (vedi job act o Italicum da noi) possano in qualche modo aiutare una ripresa economica. L’austerità, è forse una riforma, o non invece una politica tanto miope da impedirla? Questa è la lezione che viene dalla Grecia: se invece di insistere su questa come sola ricetta già dal 2010 si fossero invece sacrificati pochi soldi per consentire gli investimenti necessari alla modernizzazione del paese non saremmo a questo punto.
I greci oltre che fannulloni sarebbero anche imbroglioni perché hanno preso i soldi e non li restituiscono. Se qualcuno avesse memoria, un bene che sembra ormai raro, ci si ricorderebbe di quanto divenne chiaro, e forse a noi stessi per la prima volta, quando scoppiò il dramma del debito accumulato dai paesi del terzo mondo da poco arrivati all’indipendenza. Erano gli anni ’80 ed emerse che quei paesi erano stati vittime di quelli che allora non si ebbe timore di chiamare “spacciatori”. Perché è così che si indebitarono oltre il ragionevole: per l’insistente offerta di accedere a un modello di consumo superfluo e dannoso, per il quale non c’erano risorse e che fu indotto perché così conveniva ai prestatori che poi passarono a chiedere il conto.
La Grecia non è l’Africa, ma gran parte del suo debito è stata accumulata proprio così, per colpa di banche e di imprese senza scrupoli. Che peraltro sono state oggi — erano tedesche sopratutto ma non solo — felicemente ripagate con danaro pubblico europeo.
Quando, poco dopo l’ingresso della Grecia nella Comunità Europea, nell’81, si arrivò al semestre di presidenza affidato per la prima volta ad Atene, l’allora ministro degli esteri del governo di Andreas Papandreu, Charampopulos, dichiarò: «Non possiamo restare silenziosi di fronte a una linea politica che non prende in considerazione il fatto che un’Europa a nove era un’Unione fra nove paesi ricchi, e un’Unione a dieci, e ancor più quando saranno dodici con il prossimo ingresso di Spagna e Portogallo, soffrirà di un drammatico gap nord-sud per affrontare il quale sarà necessario un vasto trasferimento di risorse pubbliche e di un piano statale inteso a condizionare le selvagge regole del mercato».
Si trattò di una saggia previsione. Di cui tuttavia anche il governo socialista greco finì per dimenticarsi, sicché anche quando i governi socialisti furono in maggioranza nel Consiglio europeo non ci fu alcuna modifica sostanziale nella linea politica dell’Unione. Fu proprio allora che fu decisa la libera circolazione dei capitali senza che alcuna misura di controllo e di unificazione fiscale fosse assunta.
Renzi avrebbe avuto una buona occasione per riprendere il discorso e far valere le ragioni dei paesi europei del Mediterraneo, contro la logica assurdamente e falsamente omologante che pretende di adottare linee di politica economica analoghe per realtà così diverse. Fa comodo, naturalmente. A meno non si pensi ad una nuova Unione senza gli straccioni del sud. Per di più comunisti. «Un’Europa senza il Mediterraneo sarebbe — come ha scritto Peredrag Matvejevitch — un adulto privato della sua infanzia». Cioè un mostro.
Quando l’altro giorno ho sentito nel corso di un medesimo giornale radio che le ultime notizie da Bruxelles riguardavano un formaggio senza latte, un cioccolato senza cioccolata, e sopratutto un territorio senza immigrati, mi è venuta voglia di dire andate tutti al diavolo.
Ma non si può. Con la globalizzazione abbiamo perduto quel tanto di sovranità che gli stati nazionali ci consentivano. A livello mondiale è quasi impossibile costruire istituzioni che ce ne restituiscano almeno una parte. La sola speranza è di ricostruirle ad un livello più ampio del nazionale e più limitato del globale, quello di grandi regioni in cui il mondo possa articolarsi. L’Europa è una di queste. Ma il discorso vale solo se lo spazio comune non è solo un pezzo di mercato, ma una scelta, un modello di produzione e di consumo diversi, una rivisitazione positiva di una comune tradizione. Il negoziato di Atene ci aiuta, in definitiva, ad andare in questa direzione. Ed è per questo che va sostenuto.