E non è solo la dinamica populista a riprendere forza. Ben più pericoloso è l’impatto dell’“arroganza” tedesca sulle opinioni pubbliche dei vari Paesi. La drammatizzazione messa in scena in queste ultime settimane, quella di un Paese con pensionati disperati di fronte a banche chiuse — e di peggio vedremo in futuro quando la nuova, massiccia, dose di austerità, degna di cerusici impazziti in frenesia da salasso, avrà prodotto il suo effetto — rimette in circolo i peggiori cliché sulle nazioni. Peraltro il meccanismo era già stato attivato: da tempo l’opinione pubblica del Nord Europa, e soprattutto tedesca, veniva nutrita da una visione del lato Sud del continente come una landa di fannulloni, scansafatiche e truffaldini. E non c’è dubbio che Angela Merkel dovrà giustificarsi di fronte a quell’opinione pubblica, inferocita nei confronti dei pigri mediterranei, per l’ennesimo “regalo” fatto loro (quando invece tutti i soldi prestati sono tornati a casa: ma questo, nessuno lo dice, ovviamente). Ma così come i “rigoristi” nordici trattano coloro che non seguono le loro ricette con infastidita sufficienza mista ad irritazione, altrettanto gli euroscettici cementano la loro ostilità all’Unione Europea sulla base di stereotipi nazionali, a incominciare dal tedesco cattivo, rigido e punitivo.
Il disastro di questi giorni sta tutto qui: nel riemergere di visioni dei vari Paesi fondate su pulsioni emotive e irrazionali; di interpretazioni delle dinamiche comunitarie su basi esclusivamente nazionaliste. Certo che l’atteggiamento del ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble è stato quasi provocatorio, ma questa sua pur legittima posizione si è tramutata nell’immagine della Germania aggressiva e violenta. Il virus nazionalista viene da lontano ed è molto più potente delle infatuazioni peroniste dei descamisados nostrani o spagnoli. È sui sentimenti di chiusura nazionale e di ostilità all’altro che Marine Le Pen e compagnia lanciano la loro sfida anti- europea. La sconfitta del loro cavaliere solitario ateniese, ancorché politicamente agli antipodi, stimola propositi di rivalsa contro le nazioni potenti e arroganti. Altro che bagno di realtà.
Sono bastati pochi anni e l’Unione Europea ha acquisito centralità nel conflitto politico. Con un paradosso: che nessuno difende convintamente la costruzione europea: quando va bene, la si accetta passivamente, come un dato di fatto. Invece si mobilitano gli oppositori, e mietono successi. Ulteriore paradosso: Syriza e il suo leader non hanno mai detto di voler abbandonare l’euro o la Ue, contrariamente a tanti altri partiti oggi anche al governo in Finlandia e in Danimarca (lasciando poi a latere le ambiguità dei conservatori britannici). Eppure sono stati additati come i nemici dell’Unione. Piuttosto sono stati pasticcioni e ingenui; e infine, con il referendum, autolesionisti. Ma mai anti- europei, semmai favorevoli come tanti ad una Unione diversa. E sono disposti a tutto pur di rimanere nell’euro, cioè a sentirsi europei. I nazional-populisti di estrema destra utilizzano tutt’altre categorie interpretative, imperniate sul recupero di sovranità nazionale — che ha come corollario l’uscita dall’euro — sul rimarcare i confini, sulla esaltazione delle differenze, sulla negazione di finalità e destini comuni e solidali. Le vicende di questi giorni forniscono argomenti ad abundantiam per riattivare nel profondo delle coscienze collettive dei Paesi europei sentimenti ostili degli uni contro gli altri. I populisti di ogni specie, e principalmente quelli di ispirazione nazionalista, che sono di gran lunga la maggioranza, sono i veri beneficiari dell’accordo di domenica scorsa. Possono stigmatizzare la prepotenza dei forti verso i deboli, attuata grazie alle regole comunitarie, e invocare quindi il ripristino di quelle prerogative esclusive sottratte a ciascun popolo dalle euroburocrazie bruxellesi.