Il manifesto, 22 luglio 2015 (m.p.r.)
L’aver salvato la Grecia dall’espulsione voluta da alcuni esponenti della classe politica del Nord Europa è un merito di Alexis Tsipras. Si tratta adesso di vedere se il giovane leader greco riuscirà ad arginare gli effetti negativi dell’amara medicina che ha dovuto accettare, usando l’astuzia e l’intelligenza di Ulisse di fronte ad un nemico che pensa di avere già vinto la guerra. Ha di fronte prove parlamentari difficili per la maggioranza di governo e un partito diviso.
C’eravamo entusiasmati come non succedeva da molto tempo. Abbiamo in tanti, in Italia ed in Europa, creduto in Tsipras e aspettato con apprensione i risultati del referendum sulle richieste di Bruxelles. La vittoria del No ci ha portato al settimo cielo, abbiamo visto aprirsi una strada concreta per costruire l’Altra Europa.
Quel grande OXI, che sulla stampa italiana è stato curiosamente trascritto come Oki, suonava come un noto farmaco antidolorifico, ed era di fatto un antico rimedio contro i terribili dolori e sofferenze dell’austerity. Poi, improvvisamente, la negoziazione tra il governo greco ed i potenti dell’Eurogruppo ha preso un’altra piega, inaspettata. Nessuno immaginava, infatti, che il consenso del popolo greco alla linea del governo Tsipras potesse portare ad un ulteriore irrigidimento da parte del governo tedesco e dei suoi satelliti.
In pochi giorni il quadro è tragicamente mutato. L’alternativa è diventata: uscire dall’euro o accettare la peggiore ricetta di politica economica che Bruxelles aveva presentato negli ultimi sei mesi di trattative. Prendere o lasciare. E Tsipras, il combattente, tenace e risoluto leader di Syriza, ha ceduto, si è inchinato ai diktat del ministro delle finanze tedesco. E’ inutile negarlo o ricamarci sopra: abbiamo subito una grande sconfitta che per molti si è tradotta in una Grande Delusione. Ma, è stata persa una battaglia e non la guerra.
Per superare questo stato depressivo, inevitabile dopo una botta del genere, dobbiamo elaborare il lutto e per farlo correttamente dobbiamo avere il coraggio di guardare in faccia la realtà. Se Tsipras avesse sbattuto la porta in faccia ai despoti di Bruxelles lo avremmo osannato, sarebbe diventato il Supereroe della sinistra europea, un simbolo per tutti coloro che non accettano più di essere trattati come servi. Ma, cosa sarebbe successo al popolo greco?
L’uscita improvvisa dall’euro avrebbe preso in contropiede il governo di Syriza e comportato un periodo di almeno due settimane di stallo, necessarie per stampare nuovamente la dracma e distribuirla, con banche chiuse e fuga generalizzata dei capitali in euro all’estero. Due settimane dove poteva accadere di tutto: la gente presa dal panico, affamata, potenzialmente esposta alle manipolazioni della destra neonazista, supermercati svuotati, tutti contro tutti. Una volta tornati alla dracma bisognava poi fare i conti con una svalutazione di almeno il 60 per cento rispetto a euro e dollaro, con una inevitabile ripercussione sui prezzi ed un rischio di iperinflazione, data la struttura della bilancia commerciale greca.
I lavoratori ed i pensionati greci avrebbero avuto una vittoria morale ed una sconfitta materiale molto pesante con un impoverimento improvviso, una netta perdita del potere d’acquisto dei già magri salari, sussidi e pensioni. Di contro, accettando i diktat di Schauble e Merkel il primo ministro greco avrebbe contraddetto tutto il percorso che lo aveva portato a indire il referendum, sarebbe stato accusato di incoerenza quando non di tradimento, e avrebbe prodotto una frattura in Syriza, come puntualmente è avvenuto.
Secondo alcune fonti giornalistiche Tsipras ha avuto dal presidente Jean-Claude Juncker un documento in cui veniva tracciato il quadro catastrofico che sarebbe scaturito dalla Grexit, secondo altre fonti sono stati gli stessi consulenti del governo greco a prospettargli scenari da seconda guerra mondiale. Un fatto è certo: Tsipras ha scelto di non fare l’Eroe, l’indomito guerriero che lotta contro tutto e tutti, ed ha lasciato ad altri questa parte. Ha scelto il male minore pur sapendo di dover pagare di persona un conto salato.
Un atto di coraggio e di responsabilità che solo col tempo verrà compreso da chi oggi lo liquida frettolosamente. Un atto che si pone in alternativa alla linea teutonica della «secessione» che noi dovremmo conoscere bene. Infatti, la proposta della Grexit da parte tedesca è paragonabile a quella della Lega Nord negli anni ’90 per il Mezzogiorno. Come la stampa tedesca ha creato lo stereotipo del greco fannullone, imbroglione, che vive alle spalle del lavoratore tedesco così negli anni ’90 in Italia, grazie anche a giornalisti democratici come Giorgio Bocca (vedi L’Inferno, 1990), si era creata l’immagine di un Mezzogiorno fatto solo di criminalità e assistenza.
Se la secessione fosse risultata vincente che cosa sarebbe capitato al popolo meridionale? Come risultava dalle simulazioni fatte in quel tempo il Mezzogiorno avrebbe dovuto avere una moneta propria svalutata al 40% rispetto alla valuta del Centro-Nord, avrebbe perso un flusso netto di risorse dello Stato pari al 35% del suo Pil e un crollo dei consumi di pari entità. Un collasso. Certo se la secessione del Nord-Italia fosse avvenuta subito dopo la seconda guerra mondiale le conseguenze per il Mezzogiorno sarebbero state ben diverse e non pochi sarebbero stati i vantaggi. Ma, ed è questo il punto: in economia come nella politica la scelta del tempo “giusto” è decisiva.
La Grexit è una questione seria che ci riguarda da vicino, non solo perché dopo la Grecia toccherà a noi - malgrado le rassicurazioni del ministro Padoan- ma perché pone un’ipoteca sul futuro della stessa Unione europea. Non sono pochi i segnali che vanno nella direzione di una generale secessione dei paesi ricchi del Nord Europa, al di là dell’Eurozona.
Basta citare il modo con cui i paesi della Ue hanno affrontato la tragedia dei migranti che muoiono nel Mediterraneo. Il parametro che è stato usato è quello delle “quote” come se si trattasse di latte o carne da macello, dimostrando al mondo di essere incapaci di andare al di là del linguaggio dei mercanti. Non diversamente sugli stessi spostamenti di popolazione all’interno della Ue, ad iniziare dalla Gran Bretagna, si parla di vincoli da porre ai giovani che dal Sud e dall’Est Europa cercano lavoro in questi paesi.
E, infine, non va sottovalutato il fatto che l’euro, con tutti i suoi errori, costituisce una base comune per contrastare l’egemonia del dollaro e giocare un ruolo a livello internazionale come Europa. Su questo punto la Merkel ha ragione: la fine dell’euro rappresenterebbe la fine della Ue. Si ritornerebbe necessariamente alle barriere doganali ed alle svalutazioni competitive, con tutti gli ingredienti di un ritorno al più becero e pericoloso nazionalismo. D’altra parte, continuando con queste politiche di austerity, che non risolvono la questione del debito pubblico insostenibile, non si fa altro che alimentare divisioni tra Nord e Sud Europa, e si va dritti verso l’implosione.
Da parte nostra si tratta di appoggiare, non solo politicamente, tutte quelle forme di economia solidale che sono nate in questi anni di crisi e che, come ci ha raccontato Angelo Mastrandrea, hanno avuto anche il sostegno della solidarietà internazionale. Senza dimenticare che questa crisi sta mettendo a nudo la questione monetaria, il bisogno di un controllo sociale di questo mezzo di pagamento che è diventato da strumento a fine dell’agire sociale, nonché l’insostenibilità di un processo di indebitamento infinito. Ma, su questa rilevante questione torneremo in altra occasione.